Quando la incontrai la prima volta sull’Intercity per Venezia S.L., mi accorsi di lei solo pochi minuti prima della fine del viaggio. Dopo avere cercato a lungo il posto giusto per il viaggio, mi ero seduto davanti a una bella ragazza, poco vestita, che sonnecchiava, e che io avevo fissato nella speranza di strapparle uno sguardo di interesse prima della fine del viaggio. Quando scese non avevo ottenuto nulla, se non la disponibilità del posto che aveva liberato, più comodo di quello che avevo occupato fino a quel momento. Mi spostai quindi dal lato opposto, e mi accorsi solo allora della donna a fianco della quale ero rimasto seduto fino a quel momento. Aveva forse 50 anni, era vestita con una gonna lunga e uno spacco che arrivava quasi fino ai fianchi. Era bella, molto bella nonostante l’età, e forse stava vivendo quella fase di esibizionismo che prende alcune donne quando sentono avvicinarsi la fine del periodo in cui saranno attraenti. E la provocazione cresce con il diminuire del tempo residuo, finché alla fine capitola di fronte al buon senso, o invade il campo del ridicolo. In lei, però, non c’era nulla di disperato o di ridicolo: avrebbe avuto gli amanti che voleva anche vestendo con semplicità. Forse, pensai, era proprio la provocazione che cercava, fine a sé stessa. E la cosa che mi stupì di più era questa: quando vidi quello spacco interminabile la fissai, soffermandomi sfacciatamente sullo spacco: non c’era tempo per un gioco di sguardi paziente e sottile, in pochi minuti doveva consumarsi la comunicazione tra noi, quella che le diceva che ero attratto da lei. A questo punto mi aspettavo una reazione di fastidio, vero o simulato, e l’elegante nascondimento del particolare che faceva eccitare. Ma lei mi guardò fissa negli occhi, con perfetta padronanza di sé, mi guardò mentre le fissavo la coscia nuda, non fece il minimo cenno di coprirsi o spostarsi e si immerse nuovamente nell’ascolto del suo lettore CD, lanciandomi ogni tanto uno sguardo. Bastò questa provocazione a farmi perdere il senno. Un’erezione violenta mi sorprese e cominciai a muovermi infastidito. Mi sistemai in modo che lei notasse il rigonfiamento sotto i miei pantaloni. Lei lo considerò con la stessa fredda attenzione con cui aveva considerato i miei sguardi fino a quel momento. Non potevo spingermi più in là: c’era una terza persona nello scompartimento, una donna che aveva cominciato a fissarmi incuriosito, e mi stava creando imbarazzo. Ma anche lei uscì, qualche minuto prima della mia fermata, e io – ormai privo di freni – cominciai a toccarmi, guardandola, percorrendo con le dita avanti e indietro il mio membro in tutta la sua lunghezza, come a illustrargliene l’anatomia. Lei non fece una piega, guardava nella mia direzione con studiata indifferenza, ma girata in modo da vedere quello che stava succedendo. Raccoglieva, con calma, il frutto della sua provocazione, trovando conferma del fatto che poteva ancora fare impazzire gli uomini con un semplice spacco e con un cenno degli occhi. Il treno si stava fermando, non potevo restare di più in quello scompartimento. Nell’alzarmi mi girai a tre quarti verso di lei, in modo che la mia erezione fosse a mezzo metro o poco più dal suo viso. Si girò a guardarla, poi guardò me, seria e senza fare una piega. Non mi era mai successa una cosa del genere, e sentii una vampata di calore percorrermi tutto il corpo. Senza che potessi più controllarmi, sentii un fiotto di sperma partire dai testicoli e riversarsi dentro i pantaloni. “Buonasera” mi congedai tra gli spasmi. “Buonasera” mi rispose lei freddamente, probabilmente inconsapevole dell’esito del nostro gioco. Con un misto di sollievo e di disappunto avevo notato che la signora non era una pendolare: forse non l’avrei incontrata mai più. Meglio così, pensavo, perché mi vergognavo di quello che era successo l’ultima volta, e non ero sicuro che il gioco era fosse stato da lei desiderato. Ma qualche settimana dopo, nella stazione di Desenzano dove salivo solitamente, vidi una donna seduta su una panchina con una gonna molto corta e l’intera coscia in bella evidenza. Ebbi un tuffo al cuore: un’occhiata al viso regolare mi confermò che si trattava di lei. E l’abbigliamento mi confermò il suo atteggiamento esibizionista. Feci in modo di entrare nel treno dietro di lei, e quando lei scelse il suo scompartimento io entrai con lei senza esitazione. Mi sistemai all’estremo opposto dello scompartimento rispetto a lei, perché non avrei saputo giustificare una posizione più vicina. Dopo di me entrò un signore di circa 55 anni che dopo un sussulto di sorpresa nel vedere la signora con le cosce scoperte – non ero l’unico a sentirmi provocato – si andò a sistemare proprio davanti a lei, e cominciò a guardarla. Lei non lo degnò neppure di uno sguardo e fino alla stazione di Padova restò con gli occhiali scuri calati sugli occhi a sonnecchiare. Inseparabile da lei, il suo lettore CD portatile diffondeva a basso volume le note di una canzone di Whitney Houston. La signora amava il pop leggero ma di qualità. A Padova, il signore si alzò e salutò educatamente. Dopo che fu uscito, lasciandoci soli, lei si tolse gli occhiali e con l’aria di sgranchirsi le braccia dopo il sonnellino si guardò incontro e raccolse il mio sguardo con la solita studiata indifferenza. Lo presi come il segnale dell’inizio del gioco. Io mi alzai dal mio posto accanto al finestrino, le passai davanti e uscii, dirigendomi verso il bagno. Lì mi tolsi gli slip, o meglio li scostai, per lasciare il membro libero di tendersi all’interno dei pantaloni, senza costrizioni. Mi masturbai un poco per raggiungere l’erezione piena, uscii dal bagno coprendomi con un giornale che mi ero portato, rientrai nello scompartimento e le ripassai davanti, con il membro teso all’altezza della sua bocca, a pochi centimetri dalle sue labbra. Indugiai qualche secondo mentre richiudevo con cura la porta dello scompartimento. Lei guardò il membro puntato contro di lei senza fare una piega. Mi sedetti al mio posto e notai che la gonna si era alzata ancora e si vedeva il ricamo delle calze autoreggenti che indossava. Teneva una mano tra le gambe con fare casuale. E aveva chiuso le tendine dalla sua parte. Senza pensare troppo a quello che facevo, mi sedetti di fronte a lei, nel posto fino a qualche minuto prima occupato dall’altro signore. Cominciai, con calma, a toccarmi il membro da sopra i pantaloni, stringendolo, accarezzandolo, mentre fissavo lei e le sue cosce. Lei non mi incoraggiò né fece gesti di disapprovazione: guardava un po’ nella mia direzione, con la sua aria casuale, e un po’ guardava fuori dal finestrino. Ogni tanto la sua mano scivolava tra le cosce e accarezzava con discrezione il pube. Anche questa sembrava più una provocazione studiata che un movimento volto a trarre piacere diretto. A questo punto, chiusi la tendina anche dalla mia parte, cosicché rimanemmo nascosti alla vista degli altri passeggeri. Il controllore era passato da poco e il treno era semivuoto: ci si poteva aspettare un periodo di tranquillità. Andammo avanti così per un po’, mentre si avvicinava la mia stazione. Io cercavo soprattutto di capire fin dove potevo spingermi. Tutto, nel suo atteggiamento, sembrava dire: fai quello che vuoi, ma non ti azzardare a parlarmi o toccarmi. Il lettore CD portatile era ostentatamente acceso e lei sembrava studiare le canzoni una per una: un linguaggio corporeo inequivocabile. Ma potevo davvero fare quello che volevo? C’era una sottile linea che non osavo oltrepassare (e se stessi equivocando tutto? Mi dicevo) mentre giocavo affettuosamente con il mio glande, la cui forma si intravedeva attraverso i miei pantaloni sottili. Fu a questo punto che lei si alzò. Trattenni il respiro: avevo forse esagerato? Sta andando a denunciarmi al controllore? Mi ricomposi come meglio potevo, cercai – senza successo – di farmi passare l’erezione, e spostai il membro di lato, in modo che fosse il meno cospicuo possibile… Presi un libro, il primo che mi capitò nella mia borsa, e finsi di leggere. Guardai il libro: le parole erano scritte al contrario. “Cazzo”, pensai, e girai il libro nella direzione giusta. Il membro che mi faceva da involontario leggio. Lei rientrò, da sola. In mano stringeva un oggetto di stoffa che sulle prime non riuscii a identificare. Mentre lo inseriva, con calma sorvegliata, nella sua borsa, mi accorsi che erano mutandine di pizzo – era andata in bagno a togliersele! Si sedette e accavallò le gambe con calma, la solita calma, e io guardai sfacciatamente tra le tue cosce. Era proprio così, quello era proprio pelo nero e folto. Non sapevo più che fare: la mano corse alla cerniera, che abbassai con forza. Il membro guizzò fuori, eretto, e lo mostrai alla signora con un sorriso. Lo strinsi con una mano per avere un po’ di sollievo e cominciai a muoverla. Una voce forte e fastidiosa si materializzò fuori dal nostro scompartimento. La porta si aprì a fatica, con le tendine che ancora ci nascondevano alla vista. Non avevo neanche il tempo di rimetterlo dentro. Mi mossi di scatto e con una mano afferrai il maglioncino della signora davanti a me e mi coprii. Lei rimase sconcertata per un secondo poi fece finta di niente e riprese a sentire la sua musica. Una signora grassa e anziana separò le tendine ed entrò esclamando “Teresa, qua ci sono quattro posti! Chiama le altre due!!” ed entrò affannata con una borsa di tutto rispetto. Mi guardava con aria interrogativa mentre io da sotto al maglione stavo reinfilandomi dentro l’asta. “Scusi, eh, ma…” mi disse, e io mi alzai, con fare noncurante rimisi al suo posto il maglione, senz’altri danni che un po’ di muco precoitale sparso tra le sue pieghe, e andai in suo soccorso: “Gliela posso mettere su io, signora?” “Oh grazie, giovanotto”, e tutto, quel giorno, finì lì. Risedendomi, lanciai un’occhiata alla signora provocante davanti a me. Lei non disse nulla e non sorrise – doveva considerare entrambe queste azioni poco seducenti – ma mi guardò a lungo, come a suggellare un’intesa. La sera stessa mi misi a scrivere i primi due capitoletti di questa storia, perché sentivo il bisogno di fissarla su carta prima che venisse troppo trasformata dai meccanismi della memoria. Quando finii di scrivere andai in bagno, mi appoggiai al lavandino con i testicoli e mi immaginai la signora del treno che era con me sola nello scompartimento, senza mutandine. Si alzava per prendere qualcosa dal portapacchi e io mi alzavo per aiutarla, approfittandone per schiacciarle il membro tra le natiche; di lì a poco eravamo l’uno dentro l’altra, e ci eravamo dimenticati cosa c’era da prendere sul portapacchi. In questa mia fantasia, lei si scioglieva finalmente in un lungo monologo in cui mi diceva che mi aveva desiderato dal primo momento in cui l’avevo guardata, e che dovevo prometterle che l’avrei scopata ogni volta che l’avessi incontrata in treno, e mi chiedeva mordendosi le labbra cosa aspettavo a scaricarle dentro il mio sperma. Apersi il rubinetto e con le dita aiutai l’acqua a staccare gli schizzi dalla ceramica. La incontrai di nuovo una settimana più tardi. Il treno era piuttosto affollato e non rimanemmo mai soli. Lei aveva puntato, stavolta, su un’ampia scollatura – sempre eccessiva, sempre portata con sfrontatezza. Le ero seduto di fianco e le regalai lunghi sguardi che si perdevano in basso. Ma quando lei si alzò per andare in bagno, appoggiai con nonchalance una busta tra le pieghe del suo maglioncino e me ne andai soddisfatto. Nella busta c’erano i primi due capitoli di questo racconto, che avevo scritto la settimana prima. Non la vidi per un altro mese o più. Non riuscivo a trovare una regolarità nelle sue apparizioni sul mio InterCity, anche se avevo cominciato a cercarla ossessivamente. Non sarà stato che, leggendo il mio racconto, si era spaventata? Quando finalmente la rividi, ringraziai il cielo per aver creato l’estate. I suoi vestiti si erano ormai ridotti a quasi nulla: una gonna corta e ampia, una camicetta top legata sotto il seno, ampia veduta sull’ombelico. Il treno era quasi vuoto ma un ragazzo giovane non poté fare a meno di stare, come me, nello scompartimento della signora. Quando dopo poco si rese conto che i suoi sguardi non suscitavano nessuna reazione e che io e lei sembravamo conoscerci – eravamo seduti l’uno di fronte all’altra, e ci guardavamo – se ne andò. Lei tolse gli occhiali da sole, mi guardò, aprì dei fogli – era il mio racconto! -e mi disse: “Non ho 50 anni, ne ho 46.” Maledizione, mi dissi, avrei dovuto toglierle una decina di anni prima di consegnarle il racconto. “Per il resto, il tuo racconto mi è piaciuto”. E per la prima volta sorrise. “Ma non ci tengo che gli uomini si facciano le seghe in treno per me. Mi diverto a stuzzicarli, ma preferisco che tengano il cazzo a posto”. La signora, dopo mesi di silenzio, aveva finalmente parlato. “Non è facile tenere il cazzo a posto quando si è provocati in quel modo” risposi. “Infatti non mi lamento se qualcuno si fa una sega dopo avermi guardata. Ma non è quello che mi interessa”. “E cosa ti interessa?” “Mi interessa che gli uomini mi guardino e soffrano perché non possono avermi”. “La definizione accademica di drizzacazzi, quindi.” “Non saprei” rispose “ma rende l’idea”. “Tutto questo è fantastico” dissi “ma… qualcosa di più concreto mai?” “Solo al momento giusto, e con la persona giusta. Il resto è solo un gioco. E ora scusami” aggiunse “devo andare alla toilette”. Uscì, lasciandomi piuttosto deluso. Così finiva il gioco, che avevo immaginato continuamente al rialzo, e ci avevo ricavato qualche toccamento e la figura del maniaco. Sul sedile davanti al mio, la signora aveva lasciato il mio racconto, a faccia in su. Si vedevano alcuni suoi appunti a matita. Incuriosito, presi i fogli e diedi un’occhiata. Sulla prima pagina c’era una freccia che puntava alla sua età e tre punti esclamativi di disappunto. La descrizione dei vestiti non le era piaciuta, e li aveva corretti mettendo dei termini tecnici che nel frattempo ho di nuovo dimenticato. Sulla seconda pagina c’era scritto “Hai vinto un premio letterario.” Mi piacerebbe sapere quale, pensai… il Pirla 2004 forse? Andai all’ultima e vidi, alla fine del racconto, una scritta in stampatello, a caratteri grandi. C’era scritto semplicemente: “Vieni a fottermi”. Sussultai. Avevo capito giusto? Come si accordava questo con tutto quello che mi aveva detto prima? Beh, semplicemente non si accordava, mi risposi. Ma intanto mi alzai e mi diressi anch’io verso il bagno, nella direzione presa da lei. Lei non era in bagno ma nel corridoio. Come mi vide arrivare, entrò in uno di quei bagnetti con il solo lavandino che si trovano spesso sugli Intercity e con calma richiuse la porta. Troppo elegante, la signora, per aspettarmi in un cesso qualsiasi. Tentai di aprire la porta. Era bloccata. Ma un secondo dopo, dall’interno lei fece girare la sicura. Esitai un attimo e aprii. Lei era appoggiata con la schiena contro il lavello e in mano teneva con indolenza le mutandine, sventolandomele davanti. Mi richiusi la porta alla spalle, mi calai i pantaloni e le premetti il membro teso contro la gonna. Dall’altra sua mano comparve magicamente un condom. Dopo qualche secondo lei era appoggiata sul lavello con le gambe spalancate e il membro che spariva e ricompariva tra i suoi peli neri mentre le baciavo il collo come un forsennato. “E questa storia della persona giusta? Sarei io la persona giusta che aspettavi?” le chiesi. “Tu? Neanche per sogno… sei solo uno a cui ho concesso di chiavarmi… perché era nel posto giusto… al momento giusto.” “E allora… cosa volevi dire… riguardo alla persona giusta?” Le chiesi ancora, stringendole con forza le natiche mentre entravo e uscivo da lei. “Non era niente, era una cazzata qualsiasi. È che… non mi piace… essere intervistata… sul perché vado in giro… vestita… come una troia.” disse ansimando sempre più forte “Se ti interessa la provocazione… dimostramelo” continuò “prenditi questa troia… e sbattitela! Se no… alla larga… Questa è la mia filosofia”. Beh, io continuai a sbatterla, e nella confusione dei testicoli vicini a scaricare il loro contenuto dentro la gomma che separava me e la signora, non avevo più la lucidità né l’interesse a discriminare un sistema filosofico dall’altro. Così eiaculai – cos’altro potevo fare a quel punto? – e mentre ancora stavo srotolando pazientemente il preservativo dall’asta da cui stava defluendo il sangue lei si era già rimessa le cuffiette e guardava dritta davanti a sé come se non mi conoscesse. Era chiaro che non ci sarebbe stata nessuna conversazione post-coitale. E io avevo un po’ l’amaro in bocca: si era lasciata penetrare, la signora, ma decifrare… neanche un po’.
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