La pubblicità garantiva che il cliente sarebbe stato totalmente soddisfatto. Lo che prometteva il nome dell’impresa ‘A CAREFUL WORK’, uno slogan per attirare l’attenzione, con l’assicurazione che sarebbe stato rispettato alla lettera. Seguitava: Il nostro personale è all’altezza del compito. E per dare maggior vigore a tutto, concludeva: ‘Satisfied or Refunded!’ A me quella propaganda non interessava come possibile cliente, ma come uno che ha perduto il lavoro, a causa della chiusura della fabbrica, e che sta a spasso logorando la magra liquidazione. Stavo tentando tutte le strade possibili, cercando una occupazione, anche molto modesta, al di sotto delle mie competenze e capacità, ma tale che mi consentisse di tirare avanti. Anche perché a casa c’era Nancy, mia moglie, e Meggy, la bimba di tre anni, affidata alle cure della nonna materna. Nancy aveva un part-time, dalle nove alle tredici (0100 p.m.), che teneva ben stretto. Era receptionist in un ambulatorio privato, ma la sua retribuzione non bastava per le sempre maggiori esigenze della famiglia. Mi consolava, Nancy, mi diceva che non dovevo disperare, che la mia esperienza mi avrebbe presto fatto trovare qualcosa, ma i giorni passavano, la crisi non accennava a diminuire ed io ero ai limiti della depressione. Lei mi coccolava, era sempre più affettuosa, dolce, appassionata, ma malgrado ogni sua cura stava sempre più accorgendosi che anche le mie prestazioni sessuali, una volta gagliarde ed entusiaste, andavano sempre più affievolendosi. Un vecchio proverbio, che vale ad ogni latitudine, dice che ‘Cocky non vuole preoccupazioni!’ Decisi, dunque, di telefonare a quella impresa. Mi rispose una voce femminile, anonima. Dissi che ero in cerca di lavoro. ‘Attenda…’ Ora la voce, sempre di donna, era diversa. Armoniosa, calda. Salutai, ripetei il motivo della mia telefonata. “Quanti anni ha?” “Trentotto.” “E’ di colore?” “No, sono bianco.” “Ha referenze?” Le spiegai i motivi della mia disoccupazione, la necessità di guadagno, senza accennare alla famiglia, alla moglie a Meggy. “Mi dia il suo recapito, le telefonerò se avrò possibilità di occuparla.” Cercai di insistere. Le dissi che ero disposto a qualsiasi lavoro, con qualsiasi orario. Potevo fare di tutto. Inoltre, avevo una buona capacità in riparazioni elettriche e meccaniche. Loro, certamente, avevano dei macchinari: aspirapolvere, spazzatrici, lavatrici… avrei potuto benissimo provvedere alla loro manutenzione, La mia interlocutrice rimase un attimo in silenzio, “OK. Nessun impegno… può venire a mezzogiorno… così, per vedere cosa si può fare…” “Di chi devo chiedere?” “Sono Maureen Kerr… la contitolare. Lei?” “Andrew Moss.” “OK Mr Moss, a più tardi.” Tre minuti prima dell’ora fissata, chiedevo di Mistress Kerr, alla ragazza che, masticando chewing gum e limandosi le unghie, era intenta a ricevere gli eventuali visitatori e a rispondere al telefono. Pigiò un pulsante, bofonchiò qualcosa al microfono. Mi disse di entrare. Corridoio, in fondo, la porta di fronte. Bussai, mi fu detto di entrare. Ufficio ben arredato, sobrio, con l’essenziale. Scrivania abbastanza grande. Lei tolse gli occhiali, mi tese la mano, mi fece cenno di sedere. Un tipo abbastanza piacente, vestita con una certa eleganza ma senza ostentazione. Da quello che si poteva scorgere, della sua persona, poteva avere intorno ai cinquanta. Pelle del volto molto liscia, capelli neri, con qualche raro filo argentato, raccolti in una lunga ‘coda di cavallo’, occhi verdi, limpidi, trasparenti; come due smeraldi, indagatori, che mi fissavano. Sembrava abbastanza polposetta, almeno a giudicare dal busto che si mostrava florido e sostenuto. Pensai che forse era tutto merito del ‘bra’. Chissà! Mi fece poche domande, soprattutto in merito ai miei precedenti di lavoro. Mi spiegò che la loro era un’attività a basso reddito, diretta principalmente a uffici, locali commerciali o industriali. Insomma, quella che viene definita una ‘impresa di pulizie’, con attrezzatura e prodotti moderni, certo, ma senza grandi macchinari. Il lavoro, logicamente, doveva essere svolto soprattutto nelle ore in cui i ‘locali’ da pulire erano vuoti, o con pochissimo personale. Quindi, prima delle 0830 a.m., o dopo le 0630 p.m. Negli impianti industriali non a turni continui si lavora, in genere, il sabato, ed anche qualche domenica. Proprio per la necessità di tenere bassi i costi, gran parte del personale era con modesta capacità professionale, manodopera generica, e una buona percentuale era costituita da gente di colore: uomini e donne. Mistress Kerr era interessata alla manutenzione di macchine e attrezzi, ma ciò avrebbe occupato solo parte dell’orario lavorativo. Per il resto, se avessi accettato, avrei dovuto anche, o forse principalmente, fare quello che fanno gli altri: pulire, cioè spazzare, lucidare, spolverare… Lei aveva un’idea. Dalle cinque e trenta alle otto e trenta del mattino, con le squadre di pulizia, dalle nove alle tredici all’officina del deposito, per la manutenzione. E’ logico che era un compito elastico, e le esigenze avrebbero prevalso. Poteva capitare maggior lavoro nella pulizia o, viceversa, nell’officina. Retribuzione settimanale non esaltante, ma era tutto quello che poteva offrire. Accettai. Avrei potuto iniziare l’indomani. Le squadre si presentavano al deposito alle cinque e trenta, prelevavano macchine e prodotti, e degli autofurgoni li avrebbero portate nei rispettivi luoghi di lavoro, tornando a rilevarli alle otto e trenta. Lei era quasi sempre presente, al mattino, in deposito. Comunque, domani ci sarebbe stata. Mistress Kerr mi mise in coppia con una che già lavorava da tempo in quella impresa, mi disse che, almeno all’inizio, mi assegnava ad una molto pratica di quello che si doveva fare, e a un servizio non troppo pesante: un grande ambulatorio medico, con diversi studi, sale di attesa, servizi… L’attività cominciava alle nove precise, quindi bisognava finire per tempo. “Vedrà, Andy, -posso chiamarla così, vero?- si troverà benissimo con Rose. E’ una donna calma, serena. Le sarà una preziosa consigliera per metterla in grado di fare subito ‘a careful work’.” Sorrisi per la battuta e mostrai di apprezzarla. Rose aveva indossato il suo camice azzurro, dello stesso colore della mia tuta. Sul petto un ricamo abbastanza visibile ‘a careful work’. Era una donna che non saprei definire se insignificante o interessante. Un volto simpatico, comunque, anzi è più esatto definirlo dolce, gradevole, armonioso; anche grazioso. Emanava serenità, pace. Per quel che si poteva scorgere delle gambe, erano ben modellate, e di piacevole fattura. Capelli biondi, lunghi, ma raccolti nel berretto, dello stesso colore del camice, e anch’esso fregiato dello stesso slogan aziendale. Quanti anni? Non era facile stabilirlo, ma io gliene davo non più di trentacinque. Quando Mistress Kerr ci presentò, mi tese la mano. Era molto curata, con dita lunghe, unghie rosa naturale. “Sono Rose Plomer, come va?” “Andrew Moss, come va ?” Ero sicuro che saremmo andati d’accordo. La ‘capo’ mi chiese se avessi nulla in contrario a guidare io il furgoncino. Disse che il M.C.-Medical Centre- non era molto lontano e aggiunse che tale compito avrebbe comportato anche un ‘extra pay’. Mi dichiarai d’accordo. Aprii lo sportello per far salire Rose, andai al mio posto, uscii piano dal cortile, mi avviai dal posto di lavoro che distava poco più di due miglia. “Ti chiami Andrew Moss, vero? Io conosco dei Moss al mio paese, nell’Essex, a Chelmsford.” La guardai sorridendo. “I miei sono di Chelmsford, ma lo hanno lasciato da almeno quaranta anni.” Mi guardò con uno splendido sorriso. Si, potevo dire che era bella. Almeno di viso. Noi siamo abbastanza conosciuti come un popolo che non ama le confidenze. Credo che le Human Relations, le relazioni umane che tanta parte ebbero nell’immediato dopo guerra, furono necessariamente diffuse e coltivate dopo che la mia gente -tra cui mio padre- era stata tra i calorosi italiani, gli esuberanti francesi, i cordiali greci. Non avevo proprio nessuna voglia di dissertare sul tempo di oggi, paragonarlo a quello di ieri, e sperare su quello di domani. Forse era meglio stare zitti. C’era un argomento di lavoro che mi interessava, anzi mi incuriosiva. “Scusa, Rose, ma anche la sera si torna nel Centro dove stiamo andando?” “No, io la sera faccio le pulizie in alcuni studi privati, tutti nello stesso edificio. Lavoro da sola. Mi cambio nello stanzino che Master Jager mi ha assegnato, nel suo studio. E’ un ottimo barrister, uno dei più quotati, e ci tiene ad essere chiamato ‘Master’. Mi permette anche di lasciare li, gli attrezzi e i prodotti necessari per le pulizie.” Abbastanza chiacchierona, Rose. “Io, invece, al ritorno, vado al maitenance shop, per quello che serve.” “Lo so, me lo hanno detto.” Eravamo giunti a destinazione. Parcheggiai, presi dal furgone quanto dovevamo portare con noi. Rose si offrì di aiutarmi. Le dissi che non ce ne era bisogno. Aveva le chiavi del porta d’ingresso. Entrammo. Rose mi chiese se fossi d’accordo ad essere io a passare la lucidatrice dopo che lei aveva finito con l’aspirapolvere. Aggiunse che, quando necessario, ma con grande parsimonia, dovevo premere il pulsante giallo sull’impugnatura, per far schizzare un po’ di lucidante sul pavimento. Ero, quindi dietro di lei. Ogni tanto si abbassava per spolverare sotto un mobile, e i suoi fianchi erano piacevolmente evidenziati, nel camice che si alzava mostrando l’attaccatura del ginocchio. Niente male. Altra constatazione: Rose aveva un viso piacevole e, per quel che si vedeva, bei fianchi. Era logico domandarsi come fosse l’attrezzatura mammaria, ma con quel vestimento si poteva solo supporla. Si svolgeva tutto con metodo, e abbastanza rapidamente. Il lavoro non chiedeva particolare capacità ed era relativamente gravoso. Finimmo prima dell’orario previsto. Rose si congratulò con me, disse che ero bravissimo. Poi, con un sorsetto malizioso, mi chiese se avessi nulla in contrario, in fase di rientro, a fermarmi al suo bus-stop. Avrebbe risparmiato di tornare al deposito. “E vai a casa con quel camice?” Mi sorrise ancora. “No, ho il vestito nella borsa che ho lasciato sul truck. Se sei d’accordo vado a prenderlo e mi cambio.” “OK” Tornò prestissimo, e si vedeva che era contenta. Andò nella toilette, per darsi una rinfrescatina, per cambiarsi. Non chiuse completamente la porta. Era al lavabo, curva, sciacquandosi il volto, in sottoveste: corta, semitrasparente. Fianchi veramente belli, e tettine da scuola di disegno. Era abbastanza alta, sottile, slanciata, flessuosa. Per qualcuno, forse, un po’ magra. Infilò l’abito, dette una ravviata ai capelli, una lieve passata di rossetto chiaro sulle labbra. Tornò. Pimpante. “Sei veramente gentile, Andrew. Il precedente collega non sentiva storie, diceva che bisognava rientrare al deposito. Grazie.” Erano sfavillanti i suoi occhi. Mi disse che potevo lasciarla all’angolo della strada, la fermata non era troppo lontana. La accompagnai fino al punto esatto che mi aveva indicato. Mi accorsi che stavo sorridendo mentre, lentamente, mi dirigevo verso l’officina. Proprio niente male Rose. Eppure non potevo dirmi affamato. Molto presto, quella mattina, prima di alzarmi per andare al lavoro, Nancy aveva operato una delle sue magistrali mungiture, dimenandosi voluttuosamente e facendo tutto il possibile, riuscendoci perfettamente, per uno spettacolare ‘bis’. Era una amazzone perfetta, e quella era la sua posizione preferita. Diceva che poteva ‘amministrare’ a suo piacimento, e arcuarsi in modo tale che il glande le strofinasse il suo punto ‘G’ che aveva perfettamente localizzato. Solo la necessità di non essere in ritardo, il primo giorno di lavoro, la fece decidere di ‘scendere da cavallo’. Si disarcionò lentamente e a malavoglia, con mio sommo rammarico. Ma era necessario. Tutto questo, però, non poteva influire sul giudizio globale su Rose. Era una donna da osservare. Avvertivo che aveva qualcosa di particolare. Nessuna constatazione, una sensazione. Alzai le spalle. Avrei avuto il tempo per accertare la fondatezza o meno di ciò che pensavo. Molto snella, ma non ossuta. Non aveva, certo, le gambe a schiaccianoci, di quelle che a un certo momento ti fanno esitare sull’infilarglielo o meno, per tema di sentirtelo stritolato. Al solo pensiero, mi accorsi, strinsi le cosce, a difesa dell’interessato! Questo pensiero, come sarebbe stato il mio galletto, il mio cocky, in quella stia, mi prese talmente che quasi non mi accorsi che era giunto il termine della giornata lavorativa. Non solo, ma ero tanto eccitato, che non vedevo l’ora di tornare a casa per far rifugiare cocky nel tepido nido di Nancy. L’indomani, mentre eravamo in auto, andando al MC, guardai fissamente Rose. Il suo solito sorriso lieve, sulle labbra, nel volto sereno e luminoso. “Cosa hai da guardare, Andrew?” “Scusa, non desidero sembrare indiscreto, invadente, ma scorgo nei tuoi occhi, in tutta te stessa, qualcosa di… non so come dire… no, non è una cosa strana… ma… diversa… Come uno stato di particolare rilassatezza…” “Sono contento che tu mi dica questo, Andrew, perché significa che il programma che sto seguendo mi conduce a qualcosa.” “Programma?” “Seguo alcune indicazioni dello Yoga. Conosci lo Yoga?” “Vagamente. Anzi, dimmi qualcosa in proposito.” “Non ti annoio?” “Ti prego, sono io che te lo chiedo.” “Il termine “yoga” deriva dalla radice “yuj”, che vuol dire congiungere, unire. Unione totale. La tua anima, jivatma, viene ricondotta al suo originario stato di unione con l’anima universale, paramatma. Per tendere alla perfezione, anche il lavoro può condurci a ciò: …senza esservi attaccato compi i tuoi doveri e il lavoro che deve essere fatto, senza posa; perché attraverso il compiersi dell’azione senza attaccamento, l’uomo raggiunge la perfezione. Lo afferma Baghavad Gita. Io seguo il karma-yoga, detto yoga della bella azione, del ‘fare’ perché karma deriva dal verbo sanscrito kri, che significa fare. Noi, purtroppo, siamo, in realtà, schiavi del lavoro: nessuno ha mai un momento di riposo, il lavoro ci segue anche fuori dall’ufficio, a volte non ci abbandona neanche nel sonno. Siamo condannati a lavorare per vivere, e per non sentire il ‘peso’ della condanna dobbiamo conservare un certo distacco, o meglio un ‘non attaccamento’ al lavoro.” “Tu ci riesci?” “Credo di essere sulla buona strada. Ma -non sorridere- io cerco anche una particolare liberazione, quella che viene definita ‘espansione’, psichica e corporea.” “Attraverso lo yoga?” “Ciò si ottiene in tanti modi, e uno di questi sono gli insegnamenti del Tantra, che devono essere seguiti soprattutto come impostazione spirituale.” “Non mi è facile seguirti. Ma, se non sbaglio, il Tantra comprende anche delle tecniche che si riferiscono ai rapporti sessuali.” Rose divenne un po’ rossa in viso. “Si. Tutto fonda sul principio che il male non sta nelle ‘cose’ ma nell’uso che se ne può fare…” Eravamo giunti al MC. Mi ripromisi di informarmi su questo ‘Tantra’. Ero indeciso. Un dato era certo: Rose mi piaceva sempre più. Mi intrigava, incuriosiva, soprattutto mi attraeva, aveva qualcosa che mi stregava. E credo che se ne fosse accorta. Nel contempo sembrava sciogliersi lentamente, rilassarsi. Mi aveva raccontato come avesse lasciato l’Atlantic di Dunbury, per venire nella capitale. Aveva incontrato Jim, si erano sposati, avevano messo al mondo Charlie, che ora aveva quindici anni. Jim lavorava nei trasporti cittadini, come manovratore della metropolitana. A mia richiesta disse che Jim non era mai riuscito a comprendere lo yoga, e tanto meno il Tantra. Mentre parlava, la guardavo attentamente, la spogliavo con gli occhi. Me la immaginavo nuda, così, un po’ esile, con un corpo flessuoso, cedevole. Avevo potuto vedere poco o nulla di lei, se non l’attacco del seno, quando si lavava, dopo il lavoro, il delinearsi delle natiche. Ma bastava questo per eccitarmi da morire. Con una scusa, mentre era china sul lavello, passai dietro lei. Lunga e insistente strusciata sul bel sederino prominente, con la patta gonfia, e breve sosta al contatto di quelle chiappe che mi affascinavano sempre più. Se ne sarà accorta? Mah! Dunque, che devo fare? Passare a un attacco diretto? E nel caso, dicendole chiaramente che la desidero? Abbracciandola all’improvviso? Oppure ‘assediarla’ teneramente? Pensai che qualche complimento-sonda potesse essere un buon inizio. Quel mattino terminammo presto. Stava per cominciare la solita liturgia: via il camice, rimanere in sottana, lavarsi, rivestirsi… Mi misi sullo stipite della porta, a guardarla. Mi sembrava che non avesse reggiseno. No, non l’aveva. Le tettine non ne avevano bisogno, erano ben su, sode e belle, e si vedeva bene il capezzolino. Così, china come era sul lavabo, la sottana si allentava e lo specchio mi raccontava tutto. Avevo l’acquolina in bocca per il desiderio di ciucciarle i capezzoli. E cocky sembrava impazzito. “Sei molto bella Rosy.” Si rizzò, si volse dalla mia parte, iniziandosi ad asciugare delicatamente con l’asciugamano. “Ah, sei li! Non ti avevo visto. Grazie per il complimento.” “Non è un complimento, è un apprezzamento, una constatazione. Sei veramente bella, hai un personale incantevole, seducente.” “Forse esageri, Andrew. Sono trentasei.” “Hai una figura che invidierebbero quelle che ne hanno diciotto. Una linea meravigliosa, delle gambe spettacolari.” Sorrise, dolcemente, ma si vedeva che non le erano sgradite quelle parole, ne era compiaciuta. “Smettila, o finirò col crederci.” Infilò il vestito. Prima di lasciare il MC, si avvicinò a me, sfiorò la mia guancia con un rapido e superficiale bacio. “Flatterer… adulatore!” Forse quella era la strada giusta. Quando mi fermai al bus-stop, mi sporsi verso lei e le ricambiai lo sfioramento di guancia. L’indomani le portai a posy of violets, un mazzolino di viole. Solo lo sguardo che mi dette valeva una serra intera di quei piccoli odorosi fiorellini. L’annusò. “Che profumo inebriante. Grazie.” Poi fu la volta di una scatola di cioccolatini al liquore. A box of liqueur chocolate. Uno sguardo ancora più splendido dei precedenti. Disse che l’avrebbe aperta dopo, quando si sarebbe cambiata, così, col camice, le sembrava di guastare tutto. Dopo aver indossato il suo semplice ma elegante vestitino, che custodiva il suo meraviglioso corpicino, prese la scatola, mi tese la mano. Andammo nello studio del Direttore Sanitario, dove, in un angolo, era un divano, due poltrone, e un basso tavolino. Sedemmo sul divano. Poggiò la scatola sul tavolino, l’aprì, prese un cioccolatino lo mise in bocca, lo assaporò lentamente, golosamente, con gli occhi chiusi. Lo succhiò… E’ comprensibile l’effetto che si ripercosse in me, ero infiammato, agitato, stuzzicato… Aprì gli occhi. “Deliziosi, caro (sì, mi ha proprio chiamato caro)… prendine uno.” Mi porse la scatola. Ne presi uno lo misi tra i denti. Guardai lei, fissamente, mi avvicinai al suo viso splendente, con metà del cioccolatino fuori dalla mia bocca. Sempre più vicino alle sue labbra. Aprì le sue labbra, addentò il cioccolatino. Le sentii sulle mie. Mi spinsi di più. Il cioccolatino entrò nella sua bocca, seguito dalla mia saettante lingua che assaporava il soave cocktail della cioccolata, del liquore, della sua saliva tiepida, della sua lingua meravigliosa. Ci guardammo senza parlare. Prima di uscire dal MC, prima di aprire la porta, fu spontaneo abbracciarci, fortemente, baciarci appassionatamente. Sentivo il suo seno sul mio petto, le mani le abbrancavano vogliose le sue belle natiche. Sentivo il suo grembo, e certamente lei avvertiva la mia eccitazione. Non scambiammo parola, fino al bus-stop. Fermai il furgone, scesi, le aprii lo sportello. “A domani, Rose.” “A domani, Andrew!” Non ricordo dove ho letto un suggerimento: ‘non ti affannare, tutto è già scritto!’ Quindi, era scritto che dovessi incontrare Rose ed era inutile darsi da fare per il seguito, perché se ‘era scritto’ si sarebbe avverato. Mistress Kerr chiamò me e Rose. C’era un lavoretto da fare, a Hereford. Forse ci volevano un paio di giorni. Oltre l’abitato, quando la strada scorre nella Lugg Valley verso Leonminster, quasi all’incrocio della A49 con la A417, si doveva riaprire un piccolo Motor Lodge che era rimasto chiuso per alcuni mesi, dopo la morte del proprietario. Ora era stato locato a una famigliola: lui meccanico, lei cuoca, la figlia cameriera. Un piccolo edificio, circondato da un bel giardino, a pochi metri dalla strada di grande traffico. Distributore di carburante, piccola officina, modesto ristorante, dieci camere al piano superiore. Si trattava di ‘rimettere in ordine’ l’interno dell’edificio. Non l’officina. Anche per il giardino e le panche ci avrebbero pensato gli affittuari. Chiese se potevamo farlo, si trattava di restare fuori almeno una notte. Rose ed io ci guardammo. Non so se le filosofie orientali a cui Rose si ispirava riguardassero anche la predestinazione degli eventi e li ritenessero inevitabili. Nello stesso istante rispondemmo che eravamo disponibili. Mistress Kerr ci ringraziò, si dichiarò sicura che avremmo svolto un ottimo lavoro, e ci disse di passare in cassa per un acconto-spese. Uscimmo, Rose ed io, alquanto pensosi. Saremmo rimasti insieme almeno due giorni… e una notte! Cercai di rompere il silenzio. “Se non puoi, Rose… se non vuoi…” Mi guardò con un’espressione che mostrava un misto di decisione e titubanza. “Posso, Andrew… e voglio. Lo sapevo. Per essere sincera… lo attendevo.” Mi fermai di colpo, la fissai, sorpreso, felice. “Rose…” “Si, lo attendevo. Ma sono turbata, lo confesso… per mille e una ragione. Non per i soliti luoghi comuni che fondano sull’ipocrisia. Io sento una irresistibile attrazione per te… ma… ma vorrei che tu… quando sarà… ti faccia guidare da me… Non so spiegarmi…” “Yoga?” “E’ più esatto… Tantra…” Ignoravo del tutto di cosa si trattasse, ma le assicurai che sarei stata creta nelle sue splendide mani. Partimmo abbastanza presto. Non posso negare che ero emozionato. Non altrettanto sembrava essere Rose, elegante e splendente nel suo semplice abito da viaggio. Nacy non si era mostrata molto entusiasta di questa mia sia pur breve lontananza, si augurava che non ci fossero nuove esigenze che potessero costringermi a pernottare fuori casa. Mi chiese se andassi solo. Le risposi che con me c’era ‘Ross’. Non indagò su chi fosse. Fui tenero e coccolone con lei, ma niente di più. Un bacetto prima di uscire da casa, una carezza a Maggie che ancora dormiva nel suo lettino, e via. Immaginavo che avremmo dovuto superare un certo imbarazzo. Niente di tutto questo. Rose era, anzi, più chiacchierona del solito. Parlava soprattutto della bellezza della vita e come, troppo spesso, fossimo presi da una irrazionale fretta che consumava tutto, rapidamente, lasciandoci, a volte, con l’amaro in bocca. Ebbi la sensazione che fosse tutto una specie di cauta prolusione a qualcosa che avesse a che fare con le sue teorie orientali. Si soffermò sulla respirazione, sull’importanza di saperla regolare, utilizzare. Trovammo presto il Lodge. Fummo accolti dagli affittuari che si mostrarono molto cordiali e ospitali. Ci fecero vedere i locali e le camere cui era destinato il nostro lavoro. Ci guardammo alquanto sorpresi, Rose ed io, perché tutto sembrava pulito e in ordine. I committenti ci dissero che era bene dare una ‘rinfrescata’. Pulizia dei pavimenti e spolveratura dei mobili. Ai letti avrebbero pensato loro. Quando chiedemmo dove avremmo potuto consumare i pasti e dormire, ci fu detto che se lo gradivamo potevamo desinare con loro, e in quanto a dormire… c’erano tante camere… ci avrebbero dato lenzuola e biancheria necessaria, anche per i bagni. Cominciammo il nostro lavoro. Il più silenzioso ero io. Dopo il tè, tornando al lavoro, cinsi la vita di Rose e la strinsi a me. Mi carezzò teneramente. E giunse l’ora di andare a letto. Avevamo preparato due camere separate, ma… sapevamo… I gestori ci informarono che sarebbero andati a casa loro, e tornati solo nel pomeriggio dell’indomani. Assicurammo che prevedevamo di terminare tutto per le diciassette del giorno successivo. Partirono sulla loro auto. Rose ed io restammo soli. “Credo che ci voglia una doccia, Andrew, che ne dici?” “Certo.” “Inutile sporcare due bagni.” “D’accordo.” “Per conoscerci meglio… potremmo farla insieme…” Deglutii a fatica. “Non chiedo di meglio…” Lasciai che Rose andasse nel bagno, si spogliasse. Io feci altrettanto in camera. Quando sentii lo scrosciare dell’acqua entrai. Scostai la tendina. Era lì. Più bella di quanto potessi immaginare. Entrai accanto a lei. Ero in preda a una irrefrenabile erezione. La vide. Sorrise appena. “Lavami la schiena, per favore, Andrew.” Passai la mano sulla schiena, sui glutei, poi si girò, e fu la volta del magnifico seno, del ventre piatto, del triangolo cosparso di riccioli dorati, Accarezzai il suo sesso. Non più di tanto. “Ora tocca a me, Andrew.” Mi insaponò accuratamente, sembrava che le sue dita mi esplorassero attentamente. Si curò anche del mio fallo, sempre eretto e vibrante. Con naturalezza, senza insistere. Chiuse l’acqua, mi sorrise. “L’asciugamano, per favore.” Lo presi glielo porsi, uscì dal box, andò in camera. Quando la raggiunsi, dopo essermi asciugato, a mia volta, era già a letto. Mi guardava sorridendo. Era tutta da un lato, scoprì il letto, mi fece cenno di sdraiarmi accanto a lei. “Sono sicura che sarà bellissimo, tesoro. Non credo che ci sia necessità di preliminari, noto la tua eccitazione, ed io sono sicuramente più desiderosa di te. Ascolta, amore. Penetrami dolcemente, lentamente. Molto lentamente. Poi fermati. Lo so che è difficile. Ma devi restare fermo. Una volta in me, lasciati andare a una respirazione calma e profonda. Devi solo respirare, senza muovere il corpo. Devi cercare di rilassarti. Vedrai che, sono sicura, sarà la volta più bella della tua vita. Ricorda, che è alla guerra che ci si affretta, all’amore ci si avvicina con lentezza. La lentezza dei gesti ci consente di sentire di più e l’amore è fatto per sentirci: io per sentire te, tu per sentire me, noi per sentirci l’un l’altro, noi per un gioco senza scopo. L’amore è solo un gioco senza scopo, senza nulla da raggiungere. Allora perché mai affrettarci? Affrettando il sesso si perde il gioco.” Divaricò le gambe, alzò le ginocchia. Le fui sopra, prese delicatamente il mio fallo e lo portò alla sua vagina, calda, pulsante, madida della sua linfa. Riuscii a penetrarla molto lentamente, ma stare fermo… “Adesso fermati, caro, appoggiati completamente su me… fermati.” Incrociò le sue gambe sul mio dorso. In un certo modo riuscivo a stare fermo. “Respira profondamente… come me…” Cominciai a farlo. Sentivo che la sua vagina andava lentamente prendendo vita. Si contraeva, in movimenti peristaltici, lunghi e decisi, che stavano mungendo il mio impaziente sesso. Rose respirava profondamente, lentamente, con gli occhi chiusi, le labbra dischiuse, le nari frementi. In effetti riuscivo a stare fermo, anche se con molta difficoltà, e quel piacere m’invadeva completamente, dai centri del cervello alle unghie dei piedi. Vedevo dalla gola di Rose che stava deglutendo. Era tutta intenta in quell’esercizio. Durò molto più a lungo del previsto. Non immaginavo una tale mia resistenza, in proposito. Le altre volte il mio seme si sarebbe già sparso da tempo. Ora Rose aveva accelerato il respiro, le sue contrazioni vaginali erano più frequenti… aprì gli occhi, mi guardò. Bellissima, estatica… alzò le mani e carezzò il mio volto… gli argini delle mie seminali stavano per saltare… lei lo sentiva… mi guardava ansiosa, incantata e incantevole, emise un lunghissimo gemito, crescente… che fu un vero grido di gioia quando, nel medesimo istante, le nostre linfe s’incontrarono in lei. Aveva ragione, Rose. Quella era la più bella scopata della mia vita. L’orgasmo era stato qualcosa di eccezionale, di diverso, una sensazione soprattutto mentale. Totalmente appagante. Guardai Rose, l’accolsi tra le mie braccia. “E’ stato bellissimo, Rose, meraviglioso.” “Si, tesoro, bellissimo. E sarà ancora più bello in seguito. Senza dubbio l’emissione del seme è sfogo di tensione, come un grido di rabbia o uno scoppio di riso, ma se riuscirai a godere senza eiaculazione, raggiungerai un piacere maggiore. Di pace, sensuale e duraturo, una voluttà che ci trascende: fusione, partecipazione. Senza limitarsi alle conseguenze d’uno spasmo cercato, provocato, non appagante.” L’ascoltavo con attenzione, mentre la carezzavo. Volli sentire il morbido tepore del suo sesso. Ero pronto per un ulteriore assalto. “Questa volta, Rose, vorrei farlo nel… modo sbagliato…” Ripresi la posizione di prima. Entrai in lei sempre dolcemente e lentamente. Mi fermai. Quando sentii che cominciavano le splendide contrazioni della sua vagina, cercai di agevolarle, andandovi incontro. Lento, ma inesorabile stantuffamento. Era difficile rimanere inerti, lo immaginavo. Rose aprì gli occhi e mi guardò. Non sapevo se sorpresa o entusiasta, stava sussultando sempre più. Le sue gambe, sul mio dorso, stringevano, accompagnando il ritmo. Sì, cercai di pensare ad altro, di durare… durare… durare… ma quella digressione non la lasciava insensibile. Si muoveva, agitava. Mugolava… gemeva… Le labbra le tremavano, gli occhi erano rovesciati… Andrew.… Andrew…. Oooooh…. Darling… honey… I’m coming… sei meraviglioso… non fermarti… si…. Vengo…. Vengo… vengoooooooo! Rimase per un istante rilassata, poi, quando sentì la mia tiepida invasione, si strinse impetuosamente a me, come se volesse svuotarmi del tutto. E restò così, palpitante, sudata, affannata. Per lunghi minuti. Forse aveva dimenticato il Tantra, ma aveva fatto effettivamente ‘a careful work’. Si, molto accurato. Grazie all’attrezzo che le avevo fornito.
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