Sognare di torridi pomeriggi con la splendida morettona dal sorriso dolcissimo che abita al piano di sotto, bhè, quello è un diritto di tutti. Chiudere gli occhi e vedere i suoi, quei grandi e morbidi occhi castani lampeggiare per te dietro le lunghe ciglia nere; il suo viso chinarsi sul tuo, i capelli trasformarsi in una nuvola rossastra nel frapporsi tra te ed il sole che irrompe nella stanza; il profumo delicato ma deciso che emana dalla maglietta sottile mentre si sdraia sul tuo petto, le labbra dischiuse a sussurrarti in silenzio tutte le più belle promesse del mondo. Il tocco elettrizzante della tua bocca sul suo collo. L’indimenticabile ed irripetibile istante che precede il primo bacio, e tu combattuto tra l’irresistibile impulso a perderti nella sua bocca, e la razionale volontà di prolungare quella lancinante sensazione il più possibile. Solitamente, tu sei a casa da solo e lei sale a chiederti…cosa? bhò?! Siccome tu stai sonnecchiando sul libro di grammatica latina, e in pochi mesi ancora ne hai capito poco, e lei è all’ultimo anno di ragioneria, probabilmente non verrà a chiederti un libro di scuola né una mano a fare i compiti. E siccome ti nutri di poesia e di sogni, e siccome è primo pomeriggio, l’ora dell’amore rubato, evitiamo che venga a chiederti l’ingrediente mancante per il sugo di stasera; ed è così magra, poi, magra eccetto quel seno lussureggiante che sembra esser fiorito ad un sole più caldo del nostro… vivrà d’amore e batticuori come tu vivi di libri e fantasia. E siccome ha quattro anni più di te e i suoi ragazzi hanno i capelli ingellati e le moto, e siccome veste come una modella e balla come fosse alla TV e tu guardi Videomusic e giri il sabato in cerca di vecchi dischi con una vecchia maglietta e la scritta di una band, siccome tutte queste cose, tanto vale che non ci mettiamo neanche una scusa, lei suona, tu apri lei entra richiude la porta dietro di sé e ti spinge sul divano. “Ho sempre desiderato farlo con un ragazzo più giovane…vieni qui…” Seee. La morettona in questione, Simona, a quei tempi era forse più alta di me, ed ogni centimetro era nel mio cervello un kilometro accidentato e pieno di mille ostacoli che me la rendeva più inavvicinabile che mai. La sua bellezza era assurda. La indossava disinvolta e non se la menava per niente. La mattina sul pullman ci salutava tutti, me e i ragazzi della via, coi nostri tagli di capelli insicuri e i nostri sguardi insicuri, mentre i suoi amici e spasimanti e pretendenti ci squadravano con un misto di indifferenza e pietà. Ma una sera, saranno state le dieci, parcheggiai tutta la mia amarezza adolescenziale ed il mio disfattismo e la mia chitarra sul pullman per casa, a testa bassa, chiaro; e, appena prima che partisse, Simona volò a bordo e si sedette proprio lì. “Ciao Rudi.” Aveva una rivista da ragazze, ma non la aprì e mi sorrise ancora, così mi svegliai un attimo e le sorrisi sghembo anch’io. Povero coglione. Mi parlava e mi parlava e a me sembrava un sogno strano, mi sentivo come immerso in un acquario, i suoni i colori i volti, tutto mi giungeva ovattato, sfocato ed attenuato e a rallentatore, e mi vedevo voltare la testa qua e là da sfigato e mi sentivo balbettare frasi stupide e sbagliate. “E a te chi piace, Rudi? Tu sei un bel ragazzino…”. Mi parlava delle tipe del pullman, quelle che vedevamo ogni mattina, tutte le ragazze del nostro paese che andavano a scuola a Milano, di vista ci si conosceva tutti. Ero scarlatto e molto imbranato. “A me piaci tu.” Lei mi sorrise dolce come sempre. Arrivati a casa, scese dall’ascensore e non se ne parlò più. Più di dieci anni son passati. E’ finito il liceo e sono finiti, a quanto pare, anche i giorni infiniti dell’Università e i pomeriggi da coprotagonista nei pomeriggi così gradevoli delle universitarie. Quanto poco l’ho vista, Simona, in questi anni. Io a casa non ci sono mai. Lei ha fatto in tempo a convivere con un tipo, prender l’inculata e tornare dai suoi. Avrà un trent’anni. Può darsi. Ma a me le cifre non stanno simpatiche. Però l’altro giorno l’ho incontrata in pullman, di nuovo, e mi sono seduto vicino a lei, perché il tempo mi ha insegnato un po’ di cose, e mettere a frutto il mio sguardo freddo e particolare e piazzare poche parole alla maniera giusta sono tra quelle. Poi dentro di me sono sempre lo stesso, ma so come avere ciò che voglio, ora. Devi barare se non puoi vincere. A barare, ho imparato. Gli ho sfoderato un sorriso dei miei. Ci saremo detti una decina di parole in dieci anni, cazzo. Le ho chiesto del lavoro, ma soprattutto le ho parlato di noi, di tutti i ragazzi della via e di dove sono adesso, e di come la città, quella che ora conosciamo come le nostre tasche e non ci accorgiamo neanche più di viverci, ci sembrasse allora un regno incantato ed eccitante e magico da scoprire; e di come ogni giorno, ogni ritorno in pullman, fosse per noi, ragazzi e ragazze, una piccola avventura a cui strappare i ricordi più dolci, un bacio nel sedile di fondo, e nessuno voleva che finisse mai. Di come ogni sera, in via, si annunciasse bisbigliando chissà quali promesse, e di come i sogni di un ragazzino avessero spesso il volto di una ragazza appena un po’ più grande. Oggi alle ragazze piaccio, e a ripensarci, credo che sarei piaciuto molto di più anche allora, se solo me ne fossi accorto. Adesso, di certo, a lei piacevo. E’ ancora così bella, poche piccole rughe d’espressione intorno agli occhi, che sono morbidi e vellutati come sempre, la rendono più particolare ed interessante; il trucco più leggero e maturo, il viso un po’ più asciutto, e il corpo molto magro, di un magro da ragazza che non è riuscita ancora a mettere in ordine la sua vita. Veste più sobria ora, va in ufficio e va in palestra e poi chissà. Ho saputo, ad un certo punto, che avrei potuto baciarla. Siamo arrivati al capolinea e siamo arrivati a piedi a casa, dopodiché, è salita da me. Per la prima volta. Ha bevuto una Coca, perché non beve, e ho cominciato a baciarle il collo piano e leggero, le ho cinto i fianchi e l’ho attirata a me, sentendo i suoi seni sempre meravigliosi premere sul mio petto. E’ una ragazza alta, ma stavolta ha dovuto alzarsi in punta dei piedi per porgermi le labbra scure. L’ho baciata a lungo e ad occhi chiusi. Sono sceso con le mani ad infilarle nelle tasche posteriori dei suoi jeans chiari ed attillati. Ho baciato i suoi occhi ed ho respirato per la prima volta il suo profumo, ma un profumo ormai sofisticato, e sicuramente non quello che sognavo di respirare tanti anni fa. E l’ho cinta di nuovo ai fianchi, salendo però questa volta sotto la camicetta nera, accarezzandole la pelle scura e liscia, tormentandola a tratti, esplorandone la schiena splendida e finalmente approdando al seno. Lei non staccava la bocca dalla mia e non apriva gli occhi, ma ha insinuato le mani sotto la mia maglietta, la maglietta di una vecchia band: la solita… ma ora le ragazze la guardano con interesse, non sufficienza. Mi ha accarezzato il petto ed è scesa a slacciarmi la cintura dei jeans. E ha fatto solo quello. Io le ho sciolto il reggiseno e ho goduto nel sentire la dolce pesantezza delle sue mammelle gravare nelle mie mani, e con curiosità mi sono avventurato con le dita a conoscerne i capezzoli… erano piccoli, appena eccitati, e ho cercato di immaginarne il colore, bruno come tutto, in lei. Le ho aperto la camicetta e l’ho scostata un poco da me, per ammirarla, in piedi, col seno libero e proteso, e sul volto la traccia d’ansia e lo splendore che precedono il rapporto. L’ho liberata il più agevolmente possibile dei suoi jeans ed è rimasta con le mutandine nere, in piedi, finchè non l’ho presa per la vita e l’ho fatta sedere sul divano, inginocchiandomi davanti a lei per baciarne finalmente i seni. Mentre la mia bocca e la mia lingua cominciavano, automaticamente, a dare piacere a Simona, mentre sentivo le sue mani accarezzarmi i capelli, sono tornato involontariamente con il ricordo alla mia prima ragazza. Alla dolcezza della nostra prima volta, e alla dolcezza infinita di tutte le volte successive; alla purezza di ogni nostro gesto ed alla sacralità ed all’unicità di ogni nostro orgasmo stupefatto e mozzafiato, alla sua bellezza per me ineguagliabile ed a come è finito tutto all’improvviso; uno, due, tre anni, forse un secolo fa. E a quanto è cambiato da allora. E a quanto sia differente da me, ora, quel ragazzo romantico ed innamorato. E ai volti in ombra, indistinti, pallidi di tutte quelle che sono venute dopo. Per un attimo, Simona mi aveva gettato in uno stato d’animo indefinibile e dimenticato, di millenni prima, per un attimo le mie mani ed i miei pensieri erano andati a scorrere teneri sulla sua pelle solo cercando di fondersi con lei e nient’altro, per un attimo avevo provato una sensazione che, credo, non ha nome: perché non sono i ragazzi congestionati dalle emozioni a dare il nome ad una sensazione; anche se a volte sono gli unici a provarla. Ma era tardi: e un istante dopo, avevo di fronte a me una giovane donna bellissima e raffinata, dal ventre piatto e dalle cosce sottili e solide e dal petto bello e fermo coi capezzoli umidi rilevati e quasi frementi, con occhi e bocca socchiusi e capelli un poco scarmigliati; e avevo quelle tette tra le mie mani ed ero inginocchiato tra le sue gambe aperte. L’ho presa al fianco e le ho sfilato le mutandine, lei si è alzata sulle braccia a sollevare il bacino per aiutarmi ed è stato tutto. Tutto finito. Sono tornato in me, le ho messo la mano aperta sulla passera, per saggiarne lo stato di eccitazione, e l’ho violata col medio trovandola pronta. Molle ed accogliente. L’ho baciata di nuovo, di sfuggita, e sarebbe stato l’ultimo bacio per un po’. Masturbandola con la destra, con la sinistra l’ho presa alla nuca e l’ho riversata di lato sul divano, in posizione quasi fetale. Mi sono messo la fica chiusa di fronte al volto, continuando a lavorarla ora con due dita, e osservando la linea del sedere tondo e delle cosce chiuse e perfette, tra cui la fica sbocciava a forma di prugna. Mi sono tolto i jeans e gliel’ho infilato agevolmente dentro. Lei era mezza sdraiata e col sedere in su, l’ho scopata abbastanza forte per un po’ facendola ansimare piano, come piace a me, senza esagerare. Sono tornato a stimolarle il clitoride con le dita, facendola salire con me, o meglio, parallelamente a me, ma ognuno col suo percorso solitario, verso l’orgasmo: perchè ero di nuovo solo, come sempre, a inseguire il mio piacere. Il fatto che la ragazza godesse, era finalizzato al mio proprio godimento. Nulla più. Così come il suo sguardo pieno di tenerezza e gratitudine dopo l’amplesso. Non era per lei ma per me. Forse è infantile ma è così, cercare sempre l’approvazione e il plauso del prossimo, essere il primo, questo mi hanno insegnato i giorni lunghissimi dell’adolescenza. L’ho sentita venire. L’ho guardata e ho considerato di metterglielo anche in culo, quel culo che si esibiva indifeso a pochi cm da me. Ho estratto l’uccello e mi sono portato di fronte a lei, mettendoglielo in bocca senza farla alzare, lasciandola così, piegata di lato, a prenderlo di sghembo. Glielo inflilavo delicatamente e lei succhiava, né bene né male, ad occhi chiusi. Quanto tempo, dai pomeriggi in cui appariva come una dea del sesso e dell’amore: che a quei tempi, sembravano una cosa sola. E io, povero mortale, sognavo di riceverne i favori: immeritati come sempre, quando si tratta di dee e mortali. Ora, leccava il mio cazzo come una ragazza dolce e tenera nei suoi vent’anni, nei vent’anni che non aveva più, lo lecca al suo ragazzo, e mi chiesi per quanto tempo avesse convissuto con il tipo, con la noia e tra le precocemente grigie coltri coniugali; mi chiesi a quanti, di quei ragazzi con le moto che erano venuti prima di “lui”, avesse mai fatto un pompino. Non molti sembrava. Mentre io di pompini me n’ero fatti fare parecchi. Ho visto il mio glande puntare all’insù e gonfiare ritmicamente la gota di Simona. L’ho deviato per arrivarle in gola. Ho ricominciato a masturbarla. Non riuscivo ad essere con lei come con tutte le altre, la chiavavo bene, onestamente, l’avrei portata ad un altro orgasmo di certo, ma non c’era quella audacia, quel dare tutto che di solito, di me, le faceva impazzire. E poi no, non glielo avrei messo nel culo. Mi sono sentito all’improvviso vuoto, e triste e solo. Immensamente triste e un po’ più solo. E perché era salita su da me, così, al volo, senza dire nulla, dopo poche frasi, senza mai essere usciti insieme né niente? Ho cercato di comunicarle senza parole che sarei venuto, ho accentuato le contrazioni del mio pene per non ingannarla e non le ho tenuto la testa, finché, come immaginavo, non si è tolta il cazzo di bocca, portandomi a venire con le mani e riversandosi la sborra sul collo e sul petto, ad occhi chiusi, in silenzio. E’ stato un orgasmo intenso e breve e puramente fisico. Lei ha continuato a far scorrere la sua mano piccola e stranamente infantile sul mio uccello ancora in tiro, mentre le porgevo un fazzolettino, e non riuscivo a guardarla, ed ero lì in ginocchio e avrei voluto essere steso sul divano e sprofondarci dentro e scomparire e non esserci più, o almeno riuscire a non vedere tutto così limpido e terso e chiaro, così preciso e freddo e terribile e senza scampo; riuscire a vivere quel momento come se stessi in un acquario, come tanto tempo fa, quando serviva a proteggermi da tutto e da me stesso. Come quando non esistevano ieri né domani e non dovevi pensarci su. Stesa di fronte a me, ancora in quella posizione ormai senza senso e un po’ ridicola, priva dell’eccitazione di pochi istanti prima, stava spezzato e rotto e ormai rovinato per sempre uno dei miei sogni; ora, solo una ragazza bellissima e semplice, con cui avevo fatto del sesso piacevole e non troppo fantasioso. Una gran figa, più grande di me, che avevo conquistato senza difficoltà, che forse si sentiva sola, o forse voleva concedersi dopo tanto tempo una piccola trasgressione, chi lo sa, e che si era rivelata una amante non troppo spregiudicata e sicuramente non una troia. Almeno questo, considerandolo dopo la scopata, mi sembrò una nota positiva; e fui contento di non averle fatto- o tentato di fare- il culo, fui contento che non avesse bevuto, fui contento che fosse venuta e tutto. Una che di tipi se n’era scopati pochi. Una fedele. Una che adesso, il tipo l’aveva mollata e si ritrovava di nuovo a casa dei suoi e aveva trent’anni. Almeno questo, ti prego. Mi aggrappai a questi pensieri, come a qualsiasi altro pensiero. Raggelai perché ora avrebbe detto qualcosa, e io non sarei riuscito a parlare; non sarei riuscito a rivederla, avevo rotto un’altra cosa e l’avevo persa per sempre col risultato, lì, dentro un fazzolettino. Era davvero bella. Cosa avrebbe detto? Qualsiasi cosa mi avrebbe fatto star male. Non volevo rivederla. Era stata un sogno per tanto tempo. E’ bello avere dei sogni. Non ci sarebbe più stato, domani. Ora aprì gli occhi e mi guardò dolcissima e sentii che volevo morire.
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