– Fermati! – Perché? – Ti ho detto di accostare la Volvo. Subito! L’autovettura rallenta la marcia e accosta al marciapiede. Mollo Fabrizio al posto di guida e scendo dall’auto quando le ruote si sono bloccate in modo definitivo. – Ma dove vai a quest’ora di notte? Dai non fare la cretina… torna qui – urla il mio accompagnatore sporgendosi dalla portiera che volutamente ho lasciato dischiusa. – Col cazzo! Ma per chi mi hai preso… per una troia? – Ma dai… dicevo per burla. – Beh, a me certe proposte non piacciono affatto. Capito! La prossima volta le fai a tua sorella! – Dai, torna dentro. – No. – Ti chiedo scusa. – Scusa? Prima offendi e poi mi chiedi scusa. Ma va là. Cammino avanti e indietro sul marciapiede, dubbiosa sul da farsi, poi mi giro verso di lui. – Vattene! Che aspetti? Vai via – urlo incazzata. – Oh! Ma allora sei davvero stronza! – Sì…lo sono. E allora? – Ma vaffanculo. Fabrizio chiude la portiera della Volvo. Innesta la marcia e riprende la corsa. Osservo le luci di posizione dell’autovettura fintanto che scompaiono alla mia vista, poi m’incammino in direzione di Piazza Picelli. La notte è satura degli odori sparsi nell’aria dai fiori dei tigli piantati per ornamento ai lati della strada. Mi fermo sotto un lampione e osservo l’orologio al polso: segna le due. L’ora è tarda. Riprendo a camminare per Via Cocconcelli spopolata di persone, ricca soltanto di autovetture parcheggiate ai lati della strada. In questo quartiere di Parma ci sono nata e ci abito. Il lastricato del marciapiede è in cattivo stato, pieno di avvallamenti e depressioni, malgrado ciò avanzo celermente verso casa. L’unico rumore che avverto è quello dei tacchi delle mie scarpe che martellano la pavimentazione. Una autovettura sopraggiunge alle mie spalle nel momento in cui raggiungo l’incrocio con Via Imbriani. L’auto dà l’impressione di rallentare la corsa. Il conducente accende i fari delle luci abbaglianti e li dirige verso di me illuminando per intero la mia figura. La luce buca l’abito da sera che indosso rendendolo, in una certa misura, più trasparente di quello che è. Ho un attimo di smarrimento. Istintivamente giro il capo verso il guidatore, quasi per dimostrargli che non sono affatto intimidita dalla sua presenza. Proseguo per la mia strada, anche se mi convinco sempre più che girare sola, di notte, specie in un questo quartiere, è cosa che avrei dovuto evitare. L’autovettura, dopo che ha rallentato la corsa, fino a fermarsi, riprende a muoversi e sparisce davanti a me, lasciandomi nuovamente sola. Imbocco via della Costituente e lascio alle mie spalle Piazza Picelli. In prossimità dell’osteria dell’Oca Morta, distante un centinaio di metri dal punto in cui mi trovo, scorgo un gruppo di africani dalla pelle scura che confabulano fra loro. Intimorita dalla loro presenza decido di traghettare sul marciapiede all’altro lato della strada. Mentre attraverso la carreggiata ho addosso i loro sguardi ed ho l’impressione che stiano scrutando ogni centimetro quadrato della mia pelle. Mi muovo con finta disinvoltura dissimulando la paura che mi angoscia. D’incanto smettono di parlare. Gocce di sudore mi scendono dalla fronte rigandomi il viso. Una goffa risata scaturisce dal gruppo contagiando i compagni che all’unisono ridacchiano insieme a lui. Cammino speditamente ignorando, per quanto mi è possibile, la loro presenza, fino al momento in cui svolto in Vicolo dei Grassani sottraendomi alla loro vista. Finalmente posso tirare un grosso respiro di sollievo. Ancora un centinaio di metri e sarò dinanzi alla mia abitazione. Borgo Paglia è appena dietro l’angolo. La casa dove abito è un edificio antico di due piani recentemente ristrutturato. Occupo un appartamento in affitto, ci sono venuta ad abitare un anno fa, dopo che ho lasciato la casa paterna e sono andata a vivere da sola. La strada, angusta e male illuminata, è resa ancora più stretta dalla presenza di autovetture parcheggiate, a scavalco, sul marciapiede a lato della fila di case appiccicate l’una all’altra. L’altro lato della strada, privo di marciapiedi, confina con la cinta muraria della chiesa di San Giuseppe. Tolgo dalla borsetta il mazzo di chiavi e mi preparo ad aprire il portone di casa. Per una attimo mi trovo a pensare a mia madre. Da più di un anno non va più a giocare a tombola al Circolo dell’Assistenza Pubblica, ubicato a poca distanza da qui, per paura di essere aggredita da qualche malintenzionato nel tragitto che dalla sua abitazione conduce in Via Bixio. Mi convinco che abbia fatto bene a fare quella scelta, poiché sono sempre più numerosi gli scippi ai danni di anziani in questa parte della città. Fra le dita stringo la chiave che dovrà servirmi ad aprire la serratura del portone. La inserisco nella toppa e ruoto la chiave, poi spingo l’uscio in avanti. Sto per entrare quando una mano mi cinge la vita e un’altra mi serra la bocca. Mi agito e cerco di divincolarmi. Sono sospinta nell’andito e gettata a terra. L’assalitore si mette cavalcioni sopra di me. Nella mano agita un coltello la cui lama intravedo luccicare, per una frazione di secondo, quando è illuminata dalla luce che fluisce dall’anta del portone semiaperto. L’uomo ha il volto coperto da una calza di nylon. E’ un tipo tozzo, muscoloso, di grossa statura, identico a Fabrizio: perlomeno questa è l’impressione che ne ricevo. Sospinge la punta metallica della lama a contatto con mia trachea minacciandomi prima che mi metta ad urlare. – Se fai la brava e mi assecondi non ti succederà nulla, altrimenti ti ammazzo. Capito! L’intonazione della voce ha un’ascendenza meridionale, ma sembra artefatta. Dolorante alla schiena resto immobile al suolo senza proferire parola. L’uomo afferra la borsetta e l’apre. Rovista con la mano nell’interno fintanto che scova borsellino e portafoglio. Senza aprirli se li ficca nella saccoccia del giubbotto, poi prende a minacciarmi di nuovo con la lama del coltello. – Mettiti in ginocchio – ordina. Lo assecondo e mi genufletto ai suoi piedi in attesa della sua prossima mossa. Sbottona la patta dei jeans ed estrae l’uccello. – Succhia! – Intima con la determinazione di chi non è abituato ad ammettere repliche. La porta è scostata e da lì filtra una debole luce. Proviene dall’impianto d’illuminazione pubblica della strada e rischiara in una certa misura l’andito. L’uomo volge le spalle alla sorgente luminosa e a malapena né distinguo i lineamenti. D’improvviso mi sento afferrare per i capelli. Vengo sospinta con forza verso il rotolo di carne che il mio fantomatico aggressore ha tratto fuori dai pantaloni. – Succhia! – Ingiunge di nuovo. L’uccello sfiora le mie labbra. È avvizzito e puzza di piscio. – Prendilo in bocca. Dai! Resto indifferente alle sue sollecitazioni, fintanto che la punta della lama giunge di nuovo a contatto con la mia pelle, appena sotto la mandibola. – Succhia o ti faccio fare una brutta fine. Te lo dico per l’ultima volta. Prendo nella mano l’uccello e conduco la cappella alla bocca. Esito prima d’introdurla fra le labbra, poi la inglobo per intero spingendola nella cavità. Sorreggo l’uccello lavorandolo di cuore e di braccia fintanto che inizia a inturgidirsi fra le labbra. E’ una sensazione inconsueta, straordinaria: eppure di cazzi ne ho succhiati in grande quantità prima d’ora! Sniffare l’odore che emana un cazzo mentre lo spompino è quanto di più eccitante può capitarmi. Quello che stringo fra le labbra puzza di piscio in maniera esagerata, ma sa procurarmi uno stato di eccitazione come e più degli altri che ho succhiato prima di stasera: forse a renderlo gustoso è la particolare situazione in cui sono venuta a trovarmi. Dopo un po’ che succhio ho la fica bagnata fradicia. Conduco la cappella in gola fino a sfiorare le fauci. Al contempo ruoto nervosamente la mano sull’uccello fasciandola per intero in modo d’acquietare di piacere l’uomo che sta davanti a me. Godo! Cazzo se godo! Vorrei dirglielo, ma non so decidermi a farlo. Infine ci rinuncio. Spompino il cazzo come una forsennata lordandolo di saliva per facilitarne lo scorrere nella bocca. Che troia che sono! L’assalitore pone la mano sul mio capo e con forza mi attira verso sé. Ho un rigurgito di vomito. Inizio a tossire e caccio fuori l’uccello dalla bocca. Sono confusa. La situazione in cui mi sono cacciata è pesante. L’uomo mi sistema carponi obbligandomi a tenere le mani poggiate sul pavimento e il culo sollevato. Avvicina le dita umide di saliva allo sfintere e lo penetra con un dito. Ho un sussulto provocato dal dolore e mi ritraggo in avanti. – Stai ferma! Non ti farò male. Ruota il dito nella cavità, poi lo ritrae. Sputa di nuovo saliva sulle dita e prosegue nella sua opera dilatandomi il buco del culo. – Lasciami fare. Capito! Ho paura. Attendo con trepidazione il momento in cui sarò penetrata dal cazzo. L’uomo si mette cavalcioni, semiseduto sul mio culo e accosta l’uccello ai glutei. Aiutandosi con la mano conduce la cappella a contatto della cavità. Non oppongo resistenza. Anzi! Faccio di tutto per rilassare la muscolatura dell’orifizio anale e accogliere per intero l’uccello dentro di me. Nell’attimo in cui lo sento risalire nella parete intestinale mi scoppia in gola un urlo di dolore, ma riesco a trattenerlo. – Ferma!…Ferma! – sollecita l’uomo. Ormai l’ho tutto dentro. Percepisco nella sua interezza il corpo estraneo che è penetrato nel mio corpo. L’uomo si muove con cautela, inanellando lievi movimenti del bacino, sospingendo avanti e indietro il rotolo di carne che tiene ritto fra le gambe. Mordo le labbra fra i denti per mitigare il dolore che avverto all’ano, ma dopo un po’ il bruciore e la sofferenza fisica si trasformano in gradevole piacere e anch’io inizio a godere. Il mio assalitore aumenta il ritmo dell’inculata estraendo più volte la cappella dall’ano dilatandomi all’inverosimile il muscolo dello sfintere. Ogni volta che la cappella penetra dentro di me ho l’impressione che il cuore stia per uscirmi dal petto e godo come una pazza nell’attimo in cui il cazzo risale nell’intestino. Semiseduto, con le gambe divaricate e flesse ai lati del mio bacino, tiene il cazzo infilato nel mio culo e continua a pomparmi senza tregua. Ad un tratto mi sento afferrare i capelli e mi trovo di nuovo inginocchiata ai suoi piedi col cazzo in bocca. Vuole che lo faccia venire nelle mie labbra ed anch’io lo desidero. Prendo nella mano l’uccello e, mentre lo succhio, glielo meno velocemente. Un fiotto di sperma precede gli altri che in breve successione escono dalla cappella riempiendomi la bocca. Deglutisco il fluido lattiginoso ingerendolo fino all’ultima goccia nell’esofago. Sto ripulendo con la lingua la cappella, asportando i residui di sperma, quando l’uomo si ritrae e si allontana da me. Senza dire una parola, corre via lasciandomi inginocchiata nell’andito di casa. Ho le ossa a pezzi. Mi rialzo e tiro su le mutandine. Avverto un forte dolore alle ginocchia, ma non ci faccio troppo caso. Premo l’interruttore della luce e il corridoio s’illumina. Raccolgo la borsetta e chiudo il portone di casa, poco dopo sono sotto la doccia. A letto, sotto le coperte, ripenso a quanto mi è accaduto. Sono soddisfatta della sceneggiata che Fabrizio ed io abbiamo messo in piedi. Trovare nuovi modi di fare l’amore vuole dire tenere in vita il nostro rapporto. Mi addormento quasi subito, indebolita, ma completamente rilassata. La suoneria del telefono mi desta dal sonno in cui sto sprofondata da stanotte. Apro un occhio e alzo il capo da sotto il lenzuolo. Sbircio in direzione della finestra. I battenti sono semichiusi. La luce del giorno filtra attraverso le fessure e rischiara la stanza. Allungo la mano e porto all’orecchio il ricevitore del cordless che sta sul comodino. – Pronto… – sussurro, con voce rauca. – Ciao…tutto bene? A malapena distinguo la voce di Fabrizio. – Ciao amore… – dico, felice. – Sono dispiaciuto per ciò che è accaduto ieri sera. – Ma dai…che dici. – Lo so. sono stato un cretino a comportarmi così. – No. avevi ragione tu. Meritavo d’essere trattata in quel modo. – Dici? – A dire il vero mi hai fatto male, ma ti perdono. – Sei un tesoro. – La prossima volta però non fuggire via così. – Sarei voluto tornare indietro, ma dopo che ti ho lasciata sul marciapiedi ero talmente arrabbiato che ci ho rinunciato. – Come sarebbe a dire…- salto su, mentre digrigno i denti per la sorpresa. – Sì. Hai capito bene. Avrei dovuto farlo, ma non l’ho fatto. Per questo ti chiedo scusa. – Scusa? Ma allora chi era…. – Chi era chi? – Niente. stavo pensando ad alta voce. – Mi perdoni? -…Sì… Ti perdono, ma ora lasciami dormire. – Bacio? – Sì…bacio. Schiocco le labbra in modo che il suono sia udibile all’altro capo del telefono e saluto Fabrizio. – Ciao. Mi accuccio sotto il lenzuolo e resto lì, tremante, frastornata dalla rivelazione. Cazzo! Ho rischiato d’essere ammazzata e neanche me ne sono accorta. L’unico rammarico che ho è per la patente ed i documenti che mi toccherà rifare, ma ne valeva la pena….
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