Finito di lavarmi, uscii dalla doccia e mi avvolsi in un grande telo rosso. Poi asciugai i capelli e li pettinai: sono lisci e lunghi. Li tirai all’indietro. Davanti allo specchio schiusi il telo in cui ero avvolta e lo tenni per un lembo, il braccio disteso lungo il fianco. Vidi così bella la mia immagine che mi morsi le labbra per il desiderio. Oh, poter essere gli adoratori di noi stessi e allo stesso tempo godere di tale adorazione! Leggerissima, toccai con la punta delle dita il collo, il solco tra i seni; col palmo aperto accarezzai il ventre piatto, sfiorai i riccioli del pube. Il sole aveva dorato la mia pelle. Il segno del costume era appena visibile. L’esercizio fisico dell’inverno mi aveva snellito e rassodato i muscoli, proprio come volevo. Mi volsi di spalle e girai il capo: le natiche erano snelle e abbronzate, senza nessun segno di abbigliamento. Spalmai la crema doposole, indossai la maglietta bianca da marinaio, con le maniche rimboccate: i seni la tendevano alzandone l’orlo davanti. Tutto corrispondeva a ciò che avevo immaginato: mi guardai di nuovo allo specchio, ammirando il cespuglio del pube in contrasto con la corta maglietta. Mi truccai: occhi pesanti e rossetto scarlatto. I miei occhi sono neri e luminosi. Spruzzai alcune gocce di profumo sul collo e sui polsi. Non misi le mutande. Amo pazzamente il mio pelo folto e scuro, e mi piace che esca subito dalla cerniera dei jeansjeans. Indossai un paio di levi’s consumati, stretti da una cintura di cuoio. Mi tirai ancora indietro i capelli con il gel. Scelsi due orecchini: un anellino d’argento e un rubino, tutti e due dalla stessa parte. Controllai lo smalto delle unghie: era ancora lucido, rosso scuro. Non presi l’orologio. Infilai i camperos, piegando il piede e poi sentendolo trovare la sua posizione nello stivale. Mi detti un’ultima controllata prima di uscire. Lo specchio rese il definitivo omaggio alla mia immagine: ero una delle donne di Manara. Tirai la maglietta in modo che si vedessero bene i capezzoli. Ero bella e dura come volevo essere, ma non mi fermai ancora a contemplarmi: non bisogna fermarsi a pensare, quando si è. Il portiere dell’albergo mi guardò quando gli lasciai la chiave. Anche gli uomini e le donne che sedevano ai tavolini sulla veranda si volsero al mio passaggio. Vestivano di bianco e azzurro. Le donne avevano pettinature elaborate e vestiti da sera al mare. Gli uomini avevano calzoni bianchi, magliette con bottoni al collo e borselli. Quello di Roma anziano con i capelli pettinati all’indietro si tolse la sigaretta di bocca e mi salutò: “Buonasera, signorina.” Ricambiai appena con un cenno. Volevo sembrare maleducata e altezzosa. L’auto era parcheggiata davanti all’albergo, ma feci due passi per andare a prendere le sigarette dal tabaccaio all’angolo. La passeggiata del viale è una passerella, per una un po’ tirata. Dall’albergo al tabaccaio sarò stata fermata o apostrofata quattro volte. Le bande di ragazzi si lasciano andare a commenti pesanti. Tirai dritto, senza deviare lo sguardo. Quello che mi afferrò per un braccio mi divincolai senza fermarmi o voltarmi. Le sue dita erano calde. Questi ragazzi pieni di voglia… Non per me. Io ero come loro. Avrei fatto con loro cose che i ragazzi fanno tra loro, ma loro non avrebbero capito. Comprai un pacchetto di marlboro e tornai alla macchina. Dovevo muovermi subito, altrimenti il traffico sarebbe diventato impossibile. E poi, volevo muovermi. La mia auto è una cabrio grigio scuro. Dalla veranda dell’albergo mi guardarono salire in macchina, gli uomini con occhi pungenti, le donne con ostilità. Misi in moto e percorsi lentamente la strada laterale che portava al viale. Passando davanti al bar il gregge dei maschi in pantaloni attillati e camicia aperta sul petto mi chiamò e mi fischiò. Ma non ero roba per loro. Mi accesi una sigaretta mentre aspettavo di immettermi sul viale. L’ininterrotta processione di auto era già cominciata. Presi gli occhiali neri dal cassetto e li indossai. Prima sulla fronte. Un’auto targata salerno davanti a me piena di cinque ragazzi all’apparenza militari diventò cinque teste girate all’indietro. Abbassai le lenti scure sugli occhi. “Così vi piaccio di più -pensai- perché sono la vostra mamma cattiva e lontana.” A semaforo uno di loro scese e venne ad affacciarsi sopra di me: aveva i capelli lisci e lo sguardo da cascamorto. “Hey, dove vai?” -mi disse. Non risposi. Ripetè la domanda. Scattò il verde. Dietro suonarono. Gli amici lo chiamavano ridendo. Lui si mosse ostentatamente rallentato. Dalla macchina dietro di me gli urlarono qualcosa. Rispose. Si misero a litigare. Sterzai e scappai via. Vidi che guardavano sorpresi il mio sorriso. Ero bella e desiderata da tutti i maschi. E non ero roba per loro. Presi la statale. Qui il traffico era veloce. L’aria mi passava tra i capelli. Qualche auto di grossa cilindrata lampeggiava prima di superarmi e giovanotti eleganti e sprezzanti si voltavano a guardare aspettando loro un segno da me. Ma io sorridevo superiore, e guidavo tranquilla. Parcheggiai sulla ghiaia del giardino. I cofani lucidi delle auto ferme riflettevano la luce dei lampioni. Il locale ostentava un ingresso in falso neoclassico di gesso con rampicanti e scalinata. Era in collina e si vedevano in basso tappeti di luci stendersi fino al buio del mare. Mi diressi all’ingresso. Pagai il biglietto a una ragazza dai capelli rosso fiamma con enormi orecchini bianchi. Entrai. La musica era disco di categoria pesante. C’erano molti uomini. E anche gruppi misti venuti in esplorazione della diversità. Mi aspettavo di più. Forse era presto. Non mancavano anche qui i giovanotti dagli occhi pungenti. Ma se ne stavano seduti sui divani. Vidi le prime donne. Una magrolina bruna ballava con una Marylyn ubriaca strizzata in un vestito di lustrini. Poi sedettero sul divano davanti alla pista, la Marylyn sulle ginocchia dell’altra facendo quasi scoppiare il vestito e si baciavano. Sul tavolino bicchieroni di alexander semivuoti. Andai al bar. Sedetti su un alto sgabello. Ordinai un whisky sour, con un cubetto di ghiaccio, e accesi una sigaretta. Due ragazzi arrivarono tenendosi per mano e ordinarono due coche. La vidi solo dopo un po’. Uno dei giovanotti dagli occhi pungenti era andato a cercare di consolarla perché lei era seduta tutta sola in una nicchia scura e allora io avevo pensato che fosse con lui. Poi il giovanotto si alzò sconfitto e tornò ridacchiando al nido degli amici e allora io la guardai. Era una piccola dark con un ciuffo biondo e riflessi rossi sulle tempie, un vestito nero pieno di bottoni e un mezzo guanto, un mezzo guanto nero a rete, in una mano; rossetto bianco e occhiaie blu. Pesanti anelli di vetro alle dita e calze nere con grossi buchi artificiosi e stivaletti di cuoio con lacci alla caviglia. Infastidita si alzò e venne verso il bar. Non mi aveva vista guardarla. Mi girai e mi occupai del mio whisky sour. Feci girare il cubetto nel bicchiere. Tesi le orecchie. “Una ceres.” -ordinò. La sua voce era bassa. Nel mio cervello turbinò l’odore dell’alito dopo la birra e mi annebbiò i sensi. Socchiusi gli occhi sul mio bicchiere, poi mi ripresi e scossi la cenere della sigaretta. Nel farlo i miei occhi incontrarono i suoi. Non ebbe nessuna esitazione. Mi chiese una sigaretta con la sua voce pastosa. I suoi occhi erano azzurro pallido. Pallidissimi e trasparenti, come ossigeno liquido. Le porsi una marlboro e le feci accendere. Mentre aspirava mi guardò da sotto in su. “Cosa stai bevendo?” -mi chiese. “Whisky sour. -risposi- Balliamo?” Fece una smorfia. “No, andiamo a sederci.” Attraversammo la pista e ci sedemmo sul divano dove prima era da sola. Era buio, e mi tolsi gli occhiali. Me li prese di mano e se li mise. “Di dove sei?” -mi chiese. “Milano.” “E che cosa fai a Milano?” -mi guardava da dietro gli occhiali. “Lavoro in banca.” Mi restituì gli occhiali. “Io sono di qui. Cioè, di un paese qui vicino. Roba da ridere.” “Perché?” “Così.” Ascoltammo un po’ la musica. Era decisamente brutta. La Marylyn e la magrolina avevano ballato un po’, e poi erano tornate a baciarsi. Le guardavamo. Le misi una mano sul ginocchio e la baciai. Non aprì subito le labbra, volle un po’ di bacetti. Poi fece uscire una linguetta vibrante. Le risposi muovendo la mia piano ma profondamente. Non mi piacciono quelle che baciano come le biscie. Sembrò aver capito. Mi prese con le mani dietro la nuca e il bacio diventò lungo, lungo. Mi staccai dalla sua bocca e le morsi il collo. Gettò indietro la testa. Le piaceva. Alzai il capo. Non sorrisi. Le strinsi il ginocchio: “Mi piace quel tuo guanto, uno solo. Andiamo da me?” “Subito? Beviamo qualcosa.” “Ho del whisky in albergo, ma se vuoi della birra la prendiamo.” Comprammo quattro ceres al bar e uscimmo. Passai davanti ai giovanotti chioccianti con la mia preda, come una pantera con un cerbiatto tra i denti. Al neon dell’ingresso incontrai tutta me stessa nello specchio a parete. La ragazza mi piacque di meno. Era pallida e magra. Sotto gli occhi trasparenti aveva scuri colori blu. Io ero abbronzata e seducente. Poi pensai a come avrebbe adorato i miei seni sopra di lei dal suo corpicino bianco, e volli averlo al più presto. Salimmo in auto e partii facendo schizzare la ghiaia. Aprì una bottiglia di ceres, bevve e me la passò. Lasciai scorrere la birra fresca e bruciante nella gola. Alzò le gambe e le appoggiò sul cruscotto, stendendosi sul sedile. “Come ti chiami?” -mi chiese. “Rossella.” “Io Francesca. Ma mi chiamano Chicca.” La birra cominciava a scaldarmi la pancia. Correvamo sulla statale. “Francesca è un bel nome. Perché Chicca?” “Per fare prima.” “Non sempre fare in fretta è fare bene.” -dissi. “Soprattutto a letto.” Desiderai che tacesse. Invece voleva continuare. “E che cosa fai in banca?” Non risposi. Invece allungai una mano e la appoggiai sulla sua coscia. Vi appoggiò sopra la sua mano e la guidò verso il basso. Stava con le gambe alzate, e io piano piano scesi fino all’orlo della sua bizzarra calza bucherellata, scoprendole la pelle bianca. La accarezzai tra la calza e l’inguine. Non scesi più in basso. Non ora. Invece mossi la mano in su, sfilandole la calza fino alla caviglia. “Toglila.” -dissi. Rise: “Diranno che sono pazza.” -ma se la sfilò. Mi si accoccolò accanto dandomi bacetti sul collo e facendo le fusa. Provò anche a far scendere una mano ma la fermai. “No. -dissi- Dopo. Dopo.” Ora in albergo non c’era quasi nessuno sulla veranda, solo qualche anziano che chiacchierava e due bambine tedesche che il padre cercava di far scendere dal dondolo per portarle a letto, e che ci guardarono con grandi occhi azzurri. “Trentaquattro.” -dissi al portiere. Mi guardò e poi guardò Chicca, e mi porse le chiavi senza dire nulla. Prendemmo l’ascensore. Ci guardammo allo specchio. Ero un po’ più alta di lei. Mi abbracciò e ci baciammo, girando su noi stesse per vederci riflesse. Il sapore dei suo rossetto bianco si mischiò a quello del mio. Tenendoci per mano entrammo in camera. Fece due passi indietro e mi guardò, la bottiglia di birra in fondo al braccio, la testa reclinata su una spalla. Le passai davanti e accesi il televisore. Videomusic. E una sigaretta. Poi presi la bottiglia di Jack Daniel’s dall’armadio. E i bicchieri. “Vuoi? -le chiesi- Birra e whisky sono ottimi.” “Hai una sigaretta?” “Oh sì, scusa.” -le porsi il pacchetto mentre riempivo i bicchieri. Lo prese e si accese una sigaretta. Sedemmo sul letto. Sorseggiammo il whisky. “Ci vorrebbe del ghiaccio.” -dissi. Ci baciammo, la sigaretta in una mano e il bicchiere nell’altra, sedute sull’orlo del letto. Appoggiai il bicchiere per terra e iniziai a togliermi i camperos. Me li volle togliere lei, inginocchiata guardando in alto dai suoi occhi di cielo invernale. Tornammo sul letto, sedute a gambe incrociate, stando di fronte, il portacenere nel mezzo. Finimmo il whisky e la sigaretta. Ci studiavamo e ogni tanto ci baciavamo, gustando il sapore di liquore sulla lingua dell’altra. Dalla finestra si vedevano le chiome dei pini verdi elettriche sotto la luce dei lampioni. Finito il whisky bevemmo una bottiglia di birra. Ora cominciavo a sentirmi bene. La ragazza era quasi ubriaca. Appoggiò la bottiglia per terra. Tornò a guardarmi dal fondo dei suoi segni blu. Era il momento. “Adesso facciamo l’amore.” -sentii che dicevo. Francesca si chinò verso di me e mi baciò con l’abbandono infantile che dà l’alcool. Mi mordicchiò le labbra. Le morsi la lingua, la succhiai. Si liberò e scese dal letto. “Posso spogliarmi?” “Sì.” -disse la mia voce. Non si tolse l’unica calza. Si sfilò il vestito pieno di borchie. Sotto non indossava nulla. O meglio, aveva delle strane mutandine. La luce della TV colorava la sua pelle bianca di tinte cangianti, il rock dava tempo ai suoi gesti. Girò su se stessa: “Ti piacciono i miei slip? Li ho inventati io.” Si avvicinò. Attorno al pube accuratamente depilato aveva una specie di triangolo di fettuccia nera, senza stoffa in mezzo. Le labbra della vagina venivano così strette e fatte sporgere. Dietro, una cordicella tra le natiche. Mi guardò in attesa di un giudizio: “Vuoi che le tolga?” “No. Vieni qui…” Le appoggiai una mano sul pube liscio; lo palpai; la guardavo negli occhi e facevo scorrere il dito medio tra le labbra, piano piano, finché non la sentii bagnata. Alzai l’altra mano, aveva seni piccoli con capezzoli scuri e sporgenti. Ne presi uno tra le dita e lo strinsi forte. Emise un gemito. La feci stendere sul letto e mi stesi su di lei. La baciai a lungo, accarezzandola. Poi scivolai di lato e iniziai a masturbarla, senza toglierle le strane mutandine, finché non fu ben lubrificata, il respiro pesante. Allora mi alzai e restai in piedi davanti a lei, in modo che la luce della TV mi illuminasse bene. Sciolsi la cintura e la sfilai dai calzoni. Poi aprii la cerniera fino in fondo. La criniera del mio pube uscì fuori. Feci un passo avanti e le presi una mano. Le feci sentire quanto ero folta. Poi, lentamente, mi sfilai i jeans. Era distesa, le gambe abbandonate. Mi inginocchiai e iniziai a leccarle l’interno delle coscie. Mi afferrò i capelli. Alzai le braccia e cercai i suoi seni, con le dita cercai la sua bocca, giocai con la sua lingua, senza smettere di leccarla finché fu eccitatissima. Poi salii su di lei come un maschio, le allargai le coscie e mi inginocchiai in mezzo. Con un gesto che fu come avevo desiderato mi sfilai la maglietta e le mostrai i miei seni. Lei alzò le mani e li accarezzò. Un brivido partì dalle punte su cui tutta la mia sensibilità era concentrata e mi corse per tutto il corpo. Coprii le sue mani con le mie e le guidai le dita attorno ai miei capezzoli finché fui quasi vicina a godere. Allora mi chinai su di lei e appoggiai il mio pube al suo, strofinai il mio vello sulla sua vagina nuda finché non fu tutto bagnato di umori; poi spinsi bene e feci aderire le mie labbra alle sue, le percorsi e le aprii col mio clitoride, che è duro e sporgente, lo appoggiai sul suo e iniziai a muovere i fianchi aprendole le braccia in croce, le dita intrecciate. Anche lei spingeva e si sfregava, e i nostri liquidi si mescolavano, come le nostre salive e i nostri respiri. Quando sciolsi le mani e le afferrai i fianchi per spingere più forte, e lei mi infilò un dito di dietro, dopo averlo lubrificato tra le nostre due vagine, e lo spinse tutto dentro con un solo lento movimento, non potei più trattenermi, iniziai a tremare e a venire, con un orgasmo lungo, lungo come le settimane di tensione, di solitudine e di angoscia. Spinsi, spinsi contro il ventre di Francesca ansimando e gemendo, continuando a venire, finché mi abbattei su di lei. Poi scivolai di fianco, riprendendo il respiro, e lentamente tornai in me. Cercai le sigarette. Erano dalla sua parte. Le passai sopra per prenderle. Guardava nel vuoto del soffitto. Mi parve misera e smunta. Mi stesi sulla schiena, un braccio dietro la nuca, fumando. Lei mi posò il capo dai capelli dritti e asciutti sul petto, e si strinse tutta contro di me. Finii la sigaretta. “A te come piace?” -le chiesi. “Come vuoi tu…” “Tu, devi dirlo.” “Mi leccheresti?” Annuii. “In che modo ti piace di più?” “Come prima, con le gambe giù dal letto.” Iniziai a baciarla, poi le sfilai le mutandine perché fosse nuda. Le labbra della sua vagina erano gonfie, pendule. Mi piace quando è così. Era depilata e ce l’aveva lunga e con le labbra rosee e sottili. La misi con le gambe fuori dal letto e mi inginocchiai per leccarla. Iniziai a farlo con arte, infilando la lingua più in dentro possibile, muovendola in su e in giù lungo le labbra, riempiendola di saliva per farla più morbida, prendendo in bocca tutte le labbra, succhiandole, mordicchiandole, mentre con due dita le masturbavo il clitoride coprendolo e scoprendolo come un piccolo pene, poi lo presi direttamente in bocca ciucciando e stuzzicandolo delicatamente coi denti. Era piccolo e roseo. Mi ero eccitata anch’io di nuovo. Francesca sembrava impazzire: rantolava e iniziò a graffiarmi le spalle. Non mi andava, si sarebbero visti i segni al mare. Le tolsi le mani. Lo rifece. Alzai il viso dalle sue coscie: “Non graffiarmi, mi lasci i segni.” Mi guardò con gli occhi dilatati dal piacere e mosse le unghie verso il mio seno. “Ah, allora ti piace così, eh?” Cominciavo a capire. Abbassai il viso e le morsi la carne delicata all’interno delle coscie. Gridò e tremò tutta. La morsi di nuovo. Le sfuggì un “sì” roco e rotto. Le strinsi le coscie e tornai a leccarla, ma insisteva a tentare di graffiarmi. Allora mi alzai e mi stesi su di lei, tenendole le braccia dietro la testa: “Vuoi stare ferma?” Scosse la testa. “Ah, sì? Allora aspetta.” Presi la cintura di cuoio e le legai le mani, poi la assicurai alla testiera del letto. Era un legame ridicolo, ma fu soddisfatta. Si divincolava e muoveva le gambe. Presi la cinghia della valigia e la cintura dell’accappatoio e le legai una gamba dalla parte opposta della testiera e una a un piede del letto, in modo che fosse ben aperta e vicina alla sponda. Ora era immobilizzata, con una gamba mezza fuori, il pube bianco ben sporgente. Ora le fui sopra, e le spinsi la lingua in bocca. Mi rispose succhiandola e gemendo come una furia. Sembrava impazzita. Le morsi i capezzoli facendola tremare dal piacere. “Sì, sì… no… aaah, mi fai male, ti odio! oooh, sì… ancora, ancora…”, e altre cose del genere. Glieli strizzai forte, poi tornai a leccarle la passerina, graffiandole le coscie e le natiche, e infilandole il pollice su su nell’ano. Grondava di umori, poi iniziò a tremare tutta ancora più forte, tendendo tutti i muscoli, dopo dieci minuti che leccavo e leccavo, e avevo la lingua indolenzita; tremò tutta, dico, e gridò che deve averla sentita tutto l’albergo e venne come se non fosse venuta da un secolo. Mi alzai. Non mi piacevano quei tipi. La lasciai legata. Fumai un’altra sigaretta, guardandola così distesa, bianca e azzurrina nella luce ondeggiante della TV, gli occhi ossigeno semichiusi. Alzai il volume dell’apparecchio. Era un bel rock. Bevvi una birra. Me ne chiese, e gliene versai un sorso in bocca, ma non la sciolsi. Mi misi di fronte a lei. Mi toccai i seni eccitandomi i capezzoli. Le infilai due dita nella vagina, così, senza preamboli, li bagnai bene di umori e mi ci unsi i seni, fino a farli lucidi e odorosi di sesso. L’odore mi saliva alle nari. “Sono bella, vero?” Annuì: “Sei stupenda. Toccati ancora, ti prego…” Presi una sedia e la avvicinai al letto. Mi sedetti, appoggiai un piede alla sponda e allargai le coscie. Intrecciai le mie lunghe dita sottili, le mie lunghe dita dalle unghie laccate di rosso nel mio pelo folto, lo esplorai, lo pettinai, lo mossi, fino a trovare le labbra ancora umide, a coprirle con la mano a conchiglia, prendendo nel palmo tutto il pube, e poi col dito medio seguendo i margini carnosi, aprendo delicatamente la fessura, entrai dentro con un dito, poi con due, un sospiro mi sfuggì dalle labbra, alzai la bottiglia e bevvi un sorso, ma la mano mi si era fatta molle, e non riuscivo più a reggerla e ne versai il contenuto tra i seni, la sentii scendere fredda fino al pube, mescolarsi al liquido lubrificante; lasciai cadere la bottiglia, sollevai la mano con cui mi toccavo e leccai il sapore della mia vagina misto a quello della ceres, e mi spalmai la birra dappertutto, sui seni, sul ventre, sulle coscie, ricominciando poi a masturbarmi, stringendomi i capezzoli e palpando i seni che erano sodi e bagnati, e vedevo come attraverso una nebbia gli occhi lucenti di Francesca che non perdevano di vista le mie mani, e aumentai febbrilmente il moto delle dita lungo la vulva e sul clitoride finché non mi sentii tremare e fui scossa dall’orgasmo fino quasi a cadere dalla sedia. Riuscii a scivolare sul letto e chiusi gli occhi. Tolsi la mano che era rimasta a coprire il pube e mi accesi una sigaretta. Con la sinistra giocherellavo con le labbra intime di Francesca, finché sentii di nuovo che si bagnava. Allora la accarezzai meglio, strappandole ancora ansiti di piacere. Ma non la feci venire. Mi alzai e passai di nuovo dalla sua parte, dove era legata sulla sponda. Raccolsi la bottiglia vuota e mi accovacciai di fronte al suo pube. Aprendole le labbra delicatamente con due dita, e leccandola per farla rilassare, le infilai dentro piano piano il collo della bottiglia. All’inizio protestò debolmente, come un cucciolo, poi iniziò a godere. Non l’avrei mai creduto possibile. Mi alzai sulle ginocchia e, sempre continuando da muovere la bottiglia, le appoggiai la lingua proprio sul clitoride scoperto, stuzzicandolo con colpi decisi. Tutto questo mi aveva eccitato di nuovo. Mi misi a cavallo del suo viso e le abbassai la vulva sulla bocca: “Adesso tocca a te.” -dissi. Rispose facendo guizzare la lingua dentro di me, correndo lungo le mie labbra, prendendo in bocca il mio clitoride eretto e succhiandolo come una caramella. Io muovevo i fianchi, ansimavo, non sapevo più che cosa stavo dicendo, mi toccavo i seni febbrilmente, ma dovevo reggermi alla testiera del letto per non cadere, quando il piacere mi lambiva come ondate di fuoco sempre più forti, finché non fui coperta da un sudore improvviso, e tremando iniziai a venire. Ma non mi fermai, e la feci continuare, sfregandomi su tutto il suo viso, spingendo fino quasi a soffocarla, stando a quattro zampe, finché non riuscii più a stare su, caddi su di lei e presi a leccarla anch’io, mugolando, e tra i sospiri con le bocche piene di carne turgida gridammo i nostri orgasmi finché non vidi tutto nero, mi sentii scoppiare il cuore e rotolai sulla schiena, boccheggiando. Il sole splendeva come un faro rosso su una lastra di metallo. Appena uscito dal mare d’acciaio il suo calore minacciava il giorno. Stagliate contro la lucentezza sul limitare della spiaggia ombre scure camminavano nello sciacquìo scintillante di minuscole onde. Eravamo due involucri vuoti sedute in macchina nel piazzale del lungomare. Gli anziani che attraversavano la strada verso la spiaggia non ci guardavano. Ci guardavano invece gli uomini in tuta intenti al jogging mattutino. Il viso di Francesca era un’informe focaccia bianca, i suoi occhi cristalli torbidi in fondo a occhiaie nere. Io mi nascondevo dietro le lenti scure. “Il primo passa alle sei.” -disse. Io guardavo la processione di ombre contro la lastra sfavillante del mare. “Verrai al locale, stasera?” -chiese. Scossi la testa. “No. Non mi piacciono i tipi come te. Tu cerchi qualcuno che ti domini. Ma sono storie che non mi interessano più.” Abbassò gli occhi, poi li rialzò fissandomi in viso. “Abbiamo fatto l’amore -disse- e a me è piaciuto molto. A te no?” Cercai le sigarette. Il pacchetto era quasi finito. Gliene offrii una e feci scattare l’accendino del cruscotto. Mentre si arroventava la guardai. Teneva lo sguardo fisso in avanti e vidi i segni dei miei morsi sul suo collo bianco. “Mi hai stimolata in certi punti e sono venuta. -dissi porgendole l’accendino- Io funziono sempre, con le donne. A mele donne piacciono. -accesi la mia sigaretta- Io non vado con le donne perché ho paura degli uomini. Ci vado perché io adesso sono un maschio, e ai maschi piacciono le donne. Il sesso è uno stato mentale. L’omosessualità non esiste, a me piace farmi storie normali. Perché vado con le donne non è detto che debba essere una depravata. Ma tu non sei il mio tipo. Ho fatto una scopata con te perché avevo voglia, e quando ho voglia non mi piace aspettare troppo.” Diedi una boccata alla sigaretta. Aveva un sapore cattivo. Desiderai un caffé, e la macchina vuota. “Io sono molto bella, valgo molto, e cerco molto. Voglio la perfezione. E tu -la guardai di sbieco- ne sei molto lontana, persa nei tuoi sciocchi sogni sadomaso. Forse un giorno capirai anche tu, ma ora…” Teneva gli occhi bassi, con il suo vestito nero ora pieno di polvere e la calza piena di buchi. “Non ci vedremo più, allora…” Alzai le spalle: “Se avrò voglia di scoparti ti verrò a cercare. Le tue parole ora mi dicono già che tu non avrai la forza di rifiutare. Non è questo per te l’amore? Sofferenza.” Mi guardò in viso, e disse piano. “Forse ognuno fa quello che può, è quello che è, non ti pare?” “Forse. Ma non vuol dire nulla.” Da lontano si vedeva arrivare l’autobus arancione, il sole riflesso come fuoco sui vetri. Aprì la portiera e scese, richiudendola con cura. Si allontanò nel sole che le dipingeva un’ombra nera sproporzionatamente lunga. Io avviai il motore e scivolai via sull’asfalto che iniziava a luccicare.
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