Non ricordo con esattezza il mio primo lavoro. Intendo un lavoro per il quale si é pagati, non un lavoretto affidato da genitori o parenti, spesso per giustificare un regalino, per insegnarti a guadagnare, o per tenerti occupato e non farsi infastidire. Mi riferisco a un lavoro vero, retribuito, a tempo o a risultato. La mia prima attività lavorativa fu a carattere artigiano, inquadrabile nel settore della ‘rigenerazione’. Frequentavo la prima elementare, al ‘Vittorino da Feltre’, in via delle Carine. Vicino al portone sostavano due vecchietti: uno vendeva castagnaccio, l’altro mostaccioli e bruscolini. Un giovani in bicicletta, invece, portava ‘bombe’ calde calde e ‘maritozzi’ appena sfornati. Il sabato si andava in divisa, Balilla e Piccole Italiane, ma solo dalla terza elementare, perché allora non avevano ancora inventato i Figli della Lupa. All’uscita, accompagnati dalla maestra, Elisabetta Bracatini Assemini, sfilavamo dinanzi al ‘gagliardetto’ che veniva messo nell’ingresso e tenuto da un alunno grandicello, maschio o femmina, affiancato da altri due, sempre in divisa. Salutavamo romanamente, col braccio teso e la mano aperta, all’altezza dell’occhio destro, le dita unite e il palmo rivolto verso il basso. Il Direttore, Maroncelli, stava lì, senza muoversi, a sorvegliare che tutto andasse bene, che tutti salutassero, che scendessero in ordine le scale in fondo alla quali erano in attesa le mamme e qualche domestica. Per me c’era Franceschina, che se non mi vedeva subito andava a chiedere al custode: “Usciò lu signurino mio?” I banchi di legno, dove sedevamo a due a due, avevano, sul piano, una scanalatura per poggiarvi penne e matite e due fori, in ognuno dei quali era inserito una specie di vasetto, bianco o grigio, di ferro smaltato, il calamaio. Il bidello passava con qualcosa che sembrava un annaffiatoio senza la cipolla e riempiva i calamai con un liquido nerastro e acquoso che spesso ‘spandeva’ sulla carta del quaderno, specie se avevi comprato quelli a buon mercato. Quand’era la stagione si riusciva sempre a catturare qualche mosca scampata alla ‘guerra’ che il Regime aveva loro dichiarato. L’insetto veniva delicatamente privato delle ali e, dopo un bagno nell’inchiostro, deposto sul foglio bianco del quaderno dove realizzava avveniristici ghirigori. Quando finì il tempo di scrivere con la matita, passammo alla penna. Ve n’erano di tutti i tipi e di svariati prezzi. Alcune erano di legno grezzo, altre lucide, ben verniciate. Anche il posto dove si inseriva il pennino era diverso, a seconda della spesa. Comunque, appena giunti in classe, il rito era sempre lo stesso: prendere la penna dall’astuccio, o svolgerla dalla carta di giornale nella quale era stata conservata, infilarvi il pennino, se già non c’era, bagnare il pennino nell’inchiostro e provarlo. Anche di pennini v’era una nutrita varietà. I più diffusi erano ‘a lancetta’, il più elegante e costoso era il ‘perry’. Se il pennino, malgrado ripetute prove e relativi asciugamenti nel ‘nettapenne’, o pezzo di giornale, non scriveva, era indispensabile sostituirlo. Il vecchio pennino veniva buttato o, più spesso, ceduto per un pezzettino di pizza o per una castagna secca, una ‘mosciarella’. Pennini usati o guasti erano la materia prima per la mia attività. Luogo dello scambio: la classe o il gabinetto. A casa li mettevo in una vecchia tazzina rotta e li lavavo accuratamente. Li asciugavo con carta di giornale e, quindi, iniziava l’intervento artigiano. Li osservavo attentamente, con una vecchia lente d’ingrandimento, per accertare la ragione per la quale non scrivevano più. In genere erano ‘zoppi’, una delle punte era più corta dell’altra; ‘aperti’ quando le punte erano divaricate; ‘gobbi’ se avevano le punte ricurve. Il lavoro, quello vero, cominciava adesso. Si trattava di ripristinare la parità delle punte, di riavvicinarle o raddrizzarle, affinché l’inchiostro, scorrendo dal centro, non si fermasse dove una punta era più corta dell’altra o dove iniziavano a divaricarsi o ingobbirsi. Per scrivere, il pennino doveva avere punte della stessa lunghezza, a distanza giusta e non curve. L’orologiaio che aveva lo sgabuzzino-laboratorio in cortile, m’aveva regalato un pezzetto della moletta smeriglio che gli si era rotta per sbadataggine, e quello era divenuto l’attrezzo principale per limare, un minuscolo martello serviva per raddrizzare, la pinzetta dismessa dall’orologiaio era usata per riavvicinare le punte. Se al primo collaudo l’inchiostro non scorreva bene, si seguitava fino a che il pennino riprendeva a scrivere sulla carta, senza raspare più. Il prodotto finito, rigenerato, era pronto per la vendita o per il baratto. Si vendeva a un soldo il pennino a lancetta e a due soldi il ‘perry’. Meno della metà del nuovo. L’usato era garantito: sarebbe stato cambiato se avesse presentato difetti non dipendenti da incuria o mal uso da parte dell’acquirente. Le controversie fiorivano, ma si concludevano quasi sempre a favore del cliente. Per non perdere il mercato. Uno dei primi esempi del ‘S.U.S.’, sistema usato sicuro. Erano accettati baratti con pezzi di pizza, castagnaccio o altro. Il ricavato della vendita per contanti veniva, in genere, destinato all’acquisto di castagnaccio o farina di castagne, quella che se non stavi attento s’infilava nel naso o ti andava di traverso, nella gola, facendoti tossire così tanto che la maestra se ne preoccupava, fino a quando ne scopriva la causa, e allora ti puniva. Si trattava, comunque, di un’attività ‘minore’, e quindi riservata ai piccoli. Alla quarta elementare si lasciava la maestra e si veniva affidati a un maestro. Il nostro si chiamava Francesco Sele, abitava in Via Napoleone III. Contemporaneamente si abbandonava la rigenerazione dei pennini e si cercava un’attività più remunerativa. Non era facile. Il maestro di violino, Paolo Loquenzi, mi propose di andare a ‘girare i fogli’ al cinema Nazionale, quello all’angolo dell’omonima Via, all’angolo delle Tre cannelle, dove lui suonava il piano durante le proiezioni, allora mute. In compenso, avrei potuto vedere lo spettacolo, sia pure stando proprio sotto il telone. La cosa durò pochissimo. Non solo non mi interessava, ma erano più le volte che mi distraevo e non voltavo la pagina che non quelle in cui svolgevo con cura il compito affidatomi. E poi, avevo bisogno di soldi, non di film. Di fronte alla casa in cui abitavo, v’era un meccanico che riparava un po’ tutto e gestiva una pompa di benzina. Cominciai a gironzolargli intorno, lo avvertivo quando giungeva un’auto per fare rifornimento, manovravo la pompa, che allora non era elettrica, sia pure con qualche difficoltà. Chiesi di aiutarlo a riparare le gomme di bicicletta. Il sor Cesare mi lasciava fare, anche se diceva che quello non era un lavoro per me, perché io dovevo seguitare gli studi che, forse, potevo diventare perfino ragioniere. Un giorno feci forza su me stesso e, dopo aver finito i compito per l’indomani, restai a casa. Da dietro il vetro della finestra, vedevo il sor Cesare che cercava di dividersi tra auto da riparare, gomme da rappezzare e chi doveva rifornirsi di benzina. Quando tornai da lui, inventai che la mia assenza era dovuta alla necessità di fare qualche soldo per il gelato o per il cinema, così, dissi, ero andato ad aiutare il ciclista di via del Colosseo. Il sor Cesare sorrise e mi porse una gomma da riparare, dicendomi che qualche soldo me lo avrebbe dato anche lui. Da aggiungere a quanto già mi dava la famiglia, sottolineò. E io misi tutto il mio sapere in quella ‘pezza’, raschiando alla perfezione e attendendo che il mastice fosse al preciso momento di massima presa. Il rapporto tra me e il sor Cesare s’era perfezionato. Studiavo sempre più in fretta e con la massima concentrazione, perché non potevo demeritare, a scuola, in quanto avevo molti ‘lodevole’ e miravo all’assegnazione di qualche medaglia d’argento in profitto. A casa non vedevano di buon occhio quel mio attraversare la strada per andare a fare il ‘ragazzino del benzinaro’. La più contraria era mia madre. Mi diceva che avrei potuto dedicare il tempo libero alla lettura, a qualche compito a casa di mia iniziativa. Ma non insisteva troppo, perché ero il primo della classe, divoravo libri d’ogni genere e scrivevo, a modo mio, racconti fantastici. Anzi fu proprio questo a suggerire ai miei di farmi ‘saltare’ la quinta e presentarmi direttamente agli esami d’ammissione al successivo ciclo di studi. Allora non c’era la media unica, e dopo le elementari ci si poteva iscrivere senza esami alle ‘complementari’ o all’avviamento al lavoro. Per accedere al ginnasio, o agli altri istituti, era richiesto il superamento d’un esame d’ammissione. La giornata, anzi la settimana, era abbastanza faticosa. Scuola al mattino, subito dopo pranzo compiti e per l’indomani; martedì e giovedì a casa del maestro che mi preparava agli esami d’ammissione; lunedì e mercoledì lezione di violino; studio del violino e per il salto della quinta; lettura di avvincentissimi libri d’avventure; qualche annotazione sullo speciale quaderno che conservavo accuratamente e tenevo ben nascosto e, infine, il lavoro dal sor Cesare. Il sabato pomeriggio dovevo andare ‘a dottrina’ a San Cosma e Damiano, la domenica mattina c’era ‘adunata’ all’ONB (opera nazionale balilla) di via Cimara. Un’attività frenetica per chi non aveva ancora dieci anni. Romolo, il fattorino di mio padre, che mi accompagnò la prima volta all’ONB, mi informò che in via Cimara c’era un ‘casino’, e mi disse che non si riferiva alla sede dell’opera balilla, ma a una casa, controllata dai medici e sorvegliata dai questurini, dove c’erano donne che ‘facevano marchette’. Non aggiunse altro e mi fece giurare che non avrei detto nulla di quella conversazione, altrimenti mio padre l’avrebbe licenziato. Io non ci capii niente, ma tenni fede al giuramento anche perché di mezzo c’erano le guardie. A casa andai subito a consultare il ‘novissimo dizionario della lingua italiana’ cercando la parola ‘casino’, e poiché quello di via Cimara non era certo una ‘casa di campagna piccola e graziosa’, si doveva trattare di un ‘luogo di ritrovo, con sale di lettura e da giuoco’. Di donne non si faceva cenno. Dunque, Romolo aveva inventato tutto. Perciò aveva preteso il silenzio. Il dizionario, del resto, é la massima autorità in materia di significato delle parole. In effetti, io ero stato in una ‘piccola e graziosa’ casetta di campagna, quella di mia zia, che si chiamava, appunto, il ‘Casino de Martino’. Gli esami furono brillantemente superati, e ne fui superbamente fiero. Non per molto, però, perché mi dispiaceva lasciare i compagni coi quali avevo trascorso quattro anni, quella scuola, il maestro Sele. Non avrei più incontrato, nei corridoi, la maestra Assemini. Della mia classe, solo Martinelli aveva fatto il ‘salto’, come me, ma avrebbe seguitato in un’altra scuola. Quando partii per le lunghissime, noiose, penose vacanze, che i miei ostentavano come una brillante affermazione di status, il saluto al sor Cesare ebbe tutto il sapore d’un addio. M’abbracciò e mi regalò cinque lire d’argento. Le dovevo considerare un anticipo sul compenso che mi avrebbe dato allorché avrei curato i suoi conti, una volta ragioniere. “Che t’ho detto” -mi disse- “che saressi diventato raggioniere? lo vedi che vai al Leonardo da Vinci?” La casa al mare, a metà strada tra la stazione ferroviaria e la spiaggia, per me era uno schifo. Il piano terreno comprendeva una vasta cucina, con i fornelli a carbone; il lavandino che riceveva acqua dal cassone che stava sulla terrazza; la ghiacciaia, che era uno scatolone di legno foderato di zinco con un rubinetto per far defluire l’acqua dovuta allo sciogliersi del ghiaccio che ogni giorno portava l’uomo col carretto; un grosso tavolo, una credenza che prendeva tutta una parete. L’altro vano era chiamato ‘tinello’. C’era un ‘buffet’ dove stavano posate, piatti, bicchieri, tovaglie ed altro, un lungo tavolo con otto sedie intorno, un tavolino con un portafiori vuoto, un vecchio divano. Nell’angolo, una porticina dava in un gabinetto ‘alla turca’, con un piccolo lavandino, e un finestrino che s’apriva e chiudeva tirando lo spago legato allo scatto. Una scala interna portava al piano superiore. Qui, sul lungo pianerottolo illuminato dal balcone, s’aprivano le porte di due immense e squallide camere da letto, mobiliate con vecchi, alti e cigolanti letti di ferro, monumentali armadi, alquanto rudimentali, e una specie di comò sovrastato da quello che doveva essere uno specchio. Sempre sul pianerottolo, su un’altra porta c’era, forse per evitare equivoci, una targa bianca, di ferro smaltato, con la scritta, in nero brillante ‘WC’. Dentro, oltre al lavandino e alla ‘tazza’, un lungo tubo attaccato alla parete e terminante con una cipolla bucata, di metallo, veniva pomposamente chiamato ‘doccia’. L’acqua della doccia, appena intiepidita dal sole, scorreva verso il centro del pavimento e spariva in una griglia d’ottone che ingoiava tutto. Il bidè portatile, comprato a Roma, completava l’arredamento di quel vano. La padrona di casa, la vedova dell’avvocato Ripi, abitava l’altra metà della villetta. Un appartamento come quello che fittava, solo che al posto del tinello v’era lo studio: una vecchia scrivania con poltrona, una libreria, un tavolino con macchina per scrivere, alcune sedie. L’avvocato durante le vacanze riceveva qualche cliente locale e ci teneva a tenere uno studio, sia pure modesto. Rosa Ripi, da signorina Porfiri, viveva i mesi invernali nella vecchia casa di piazza Mazzini, a Roma, con la sorella, vedova dell’ammiraglio Vigliardi, e una domestica abbastanza anziana. Appena il primo sole di primavera intiepidiva l’aria, le tre donne si trasferivano al mare, e vi restavano fino ad autunno inoltrato, facendosi aiutare da Teresa, una prosperosa ragazza bruna, sempre allegra.La signora Rosa mi voleva bene -ormai era il quinto anno che tornavamo in quella casa- e si complimentò con me per il superamento degli esami. “Vedrai” -mi disse- “avrai anche tu uno studio come quello del mio povero marito.” Ancora una volta mi condusse nella stanza piena di mobili vecchi e polverosi, lo studio. Ne profittai per chiederle il permesso di scrivere a macchina. Mi sarebbe tanto piaciuto imparare, sia pure senza insegnante, un po’ di dattilografia. La macchina mi attirava. “Puoi venire quando vuoi” -rispose- “senza neppure avvertire. La porta finestra dello studio é aperta sempre, é appena accostata. Entra e lascia socchiusi gli scuri. La macchina é in piena luce, ma se non bastasse vi é un braccio a snodo, uno di quelli stile ‘liberty’, con una lampada a luce azzurrina, detta ‘solare’. La puoi accendere se ti é necessaria. Nei cassetti del tavolino troverai quello che serve: libretto con le spiegazioni, la mascherina e le gomme per cancellare eventuali errori, nastri di ricambio, e tanta carta per scrivere. Puoi adoperare tutto.” Fu l’inizio d’una consuetudine mai più abbandonata, forse d’un vizio, d’una intesa, d’un condizionamento. Era un completamento reciproco: la macchina sarebbe rimasta inerte, senza il tocco delle mie dita; il mio pensiero non sarebbe stato narrato senza i segni di quella macchina. Era una vecchia Olivetti, col nastro nero e rosso, coi tasti che dovevi pestare con una certa decisione affinché la lettera marcasse il nastro e apparisse sul bianco della carta. Il carrello sussultava ad ogni battuta, ad ogni spazio. Il ‘drin’ del campanellino avvisava che stavi per giungere al termine del rigo. Cominciai, libretto alla mano, con l’introduzione del foglio, posizionamento, definizione dei margini, uso del tasto ‘maiuscolo’ e della spaziatrice. Cercai di fissare nella mente la disposizione delle lettere e dei segni d’interpunzione sulla tastiera. Chiudevo gli occhi, e con un dito mi proponevo di toccare un determinato tasto. Provai a lungo, per giorni. Le istruzioni suggerivano di esercitarsi usando almeno sei dita. In effetti, non sono mai riuscito a superare le quattro, e non sempre. Neppure in seguito, con l’ausilio dell’elettronica. L’inizio fu più impegnativo di quanto immaginassi. Velocità e precisione non andavano d’accordo. Poi, a poco a poco, gli errori di battuta cominciarono a diminuire. La signora Rosa lodava compiaciuta i fogli sui quali avevo copiato pagine e pagine tratte da Ventimila leghe sotto i mari, da I figli del capitano Grant. La noia di quel soggiorno, specie dei lunghi pomeriggi, andava scomparendo. Quando tutti riposavano, mi ritiravo nella fresca penombra dello studio e mi mettevo a scrivere quello che mi passava per la testa. Lentamente, con molta difficoltà, le righe si riempivano. Era una specie di diario. ‘Lunghi giorni d’una villeggiatura senza fine’. Una lettera quotidiana a Giovanni, il mio migliore amico, quello che abitava al piano superiore, il fratello di Luisa, la bambina dai lunghi boccoli neri. Franceschina, quando aveva finito di rigovernare e mettere tutto a posto, si ‘aggiustava la testa’, come diceva, e veniva a farmi compagnia. Si metteva dietro di me, guardando incantata i segni che si allineavano sul foglio, li fissava, si abbassava per vederli meglio, come se sapesse leggere. Il suo petto, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro dalla camicetta, premeva sulla mia nuca, caldissimo. Nel sentirlo, lo immaginavo pieno di fragrante latte tiepido. E tenevo la testa ben alta, per sentire quel contatto, quel profumo di sapone alla lavanda. Franceschina mi prendeva la testa fra le mani e mi baciava sui capelli dicendo ‘ma quanto sì bravo’. Facendo finta di nulla, con aria distratta, voltavo il viso, senza staccarmi da lei, e sentivo sulla guancia il turgore del suo capezzolo. La macchina per scrivere divenne strumento di lavoro. Teresa doveva inviare una domanda al Podestà. Le avevano detto che ci voleva un permesso, mi sembra sanitario, per vendere i prodotti della terra. Chiese alla signora Rosa di scriverla lei. Io ero presente e proposi di usare la macchina. Avrebbe fatto più bella figura. Teresa comprò la carta formato bollo, dal tabaccaio. La signora Rosa scrisse la brutta copia, io misi tutto in bella, a macchina. Il giorno dopo Teresa mi informò che al Municipio si erano compiaciuti con lei, e mi regalò due pesche. La notizia che nello studio del povero avvocato Ripi la signora Rosa scriveva le domande e un ragazzo le batteva a macchina, fece il giro del paese. E cominciò un viavai di persone, tutte con cestini pieni di prodotti del suolo e del pollaio, che chiedevano l’opera della signora Rosa, della sorella, che era stata maestra, e…mia. I miei avevano visto qualche ‘copiato’ dai libri d’avventura. Mio padre aveva annuito con la testa, mia madre s’era limitata a stringere le labbra, Franceschina, che stava apparecchiando, non seppe trattenersi dal dire ‘siete visto la bravità?’ guardandomi con ammirato compiacimento. Era stato deciso il rientro in sede. Mio padre avrebbe finito il suo pendolarismo settimanale. Si tornava a casa. Finalmente. Il mare aveva avuto ottimi effetti su mio fratello Mario, almeno così sosteneva la mamma. Il piccolo aveva fatto lunghe dormite sulla spiaggia, respirando aria iodata, aveva mangiato con appetito e digerito benissimo, il camminare sulla sabbia aveva rinforzato i muscoli delle sue gambette. Il grande -ero io- aveva fatto i soliti capricci d’ogni anno: accusando mal di testa e di stomaco per non andare sulla spiaggia, mangiato poco, e aveva detto di essere sempre stanco. Quest’anno, inoltre, s’era aggiunta la ‘fissa’ della macchina per scrivere, in ciò appoggiato dalla vedova Ripi e strenuamente difeso da Franceschina. Quella benedetta ragazza, poi, così prosperosa, s’intestardiva a non indossare il reggiseno. Meno male che le poche volte che era stata sulla spiaggia aveva saputo tenere bene a posto le spalline del costume di lana. Un costume nero, d’una misura più piccola del necessario, che sembrava dipinto addosso quando usciva dall’acqua, mostrando un personale che non s’indovinava, certo, sotto le vesti non eleganti della contadinella di Poggio Umbricchio. La generosa scollatura della blusetta, ora, poneva in evidenza il contrasto tra il bianco della pelle non esposta al sole e la tintarella . Quando era presente papà, le occhiatacce della mamma ottenevano una maggiore abbottonatura, ma anche significative alzate di spalle. Per fortuna, io ero ‘piccolo’, specie per la mamma, e lo spettacolo non mi era proibito. Tanto, pensava la mamma, non mi avrebbe certo turbato. In ogni caso, le tette di Franceschina erano veramente belle, e attraenti. Spesso, quando non andavo in spiaggia cogli altri, il mio mal di stomaco si calmava quando Franceschina mi prendeva in braccio e mi teneva con la testa sul suo seno. Mi cullava lentamente, cantandomi una dolce nenia del suo paese. Domani si parte. “A casa” -disse mio padre- “troverete una macchina per scrivere ultimo modello. Dobbiamo sganciarci dalla copisteria. Dovremo imparare ad usarla. Tu” -proseguì rivolgendosi a me- “mostrerai alla mamma e a me come fare per cavarcela e intanto, se ne sei capace, inizierai a copiare qualche lettera dalle minute che scriveremo.” E così cominciai a collaborare nell’azienda familiare. Era il secondo lavoro di mio padre. Mia madre provvedeva ad inviare gli ordinativi alla fabbrica produttrice e ad evadere le richieste dei clienti. Mio padre curava i contatti con fornitori e clienti, e seguiva la parte amministrativa. Romolo era addetto alla ricezione e consegna della merce. Franceschina pensava a tenere in ordine la casa. Per un certo periodo di tempo ci fu anche una vecchia cuoca, Linda, che si vantava di illustri esperienze culinarie, certamente offuscate dal tempo se si giudicava da quello che realizzava per noi. Poiché per il mio lavoro a macchina non c’era ‘corrispettivo economico’, dovetti ricorrere agli appunti scolastici, fatti in più copie con la carta carbone, per raggranellare qualcosa. Ma questo fu solo all’inizio dell’anno scolastico. Quando divenimmo amici non potei pretendere compensi dai compagni di classe. Attraversai un lungo periodo di difficoltà economiche. Per guadagnare, fui costretto ad andare, di nascosto, e non troppo spesso, a tagliare la legna dolce che serviva ad avviare l’accensione, presso un grande vapoforno poco distante da casa. La Parrocchia, inoltre, m’incaricò di vendere i biglietti per lo spettacolo cinematografico domenicale. Una lira a biglietto e un biglietto gratis ogni dieci venduti. Solo che sul ‘biglietto-compenso’ c’era scritto omaggio, e io non riuscivo a venderlo, neppure con lo sconto. Poi, per ragioni che non seppi mai, forse per la crisi del settore, l’attività commerciale dei miei genitori cessò. Cambiammo città. Mia madre riprese l’insegnamento. Io rimasi… disoccupato. II Non eravamo da molto tempo nella nuova residenza, quando lessi, su un giornale del nord, che un notissimo calzaturificio cercava persone ben introdotte in ambienti seri e solventi, per affidare loro la vendita, anche a rate, dei loro prodotti. Scrissi, logicamente a macchina, a nome di mio padre, e dissi che l’ambiente in cui era introdotto (aggiunsi autorevolmente) era una struttura statale con giurisdizione sull’intera provincia, e spiegai che si poteva far conto su una valida organizzazione affiancatrice: il Dopoloavoro di categoria. La risposta giunse in pochi giorni. La lettera era, logicamente, indirizzata a mio padre, ed io me l’ero fatta dare dal postino che avevo sempre atteso ansiosamente. Prima di consegnare la busta a mio padre, gli feci leggere quanto avevo scritto… a suo nome. La ‘nota ditta’ era interessata e si dichiarava disposta all’invio di un buon numero di ‘campioni vendibili’. Specificava prezzi, condizioni di vendita, modalità di rateazione, compenso. Il solo onere a nostro carico sarebbe stato quello riferito allo spazio che avrebbe occupato la merce in magazzino. Accettammo tutto, e dopo quindici giorni, una domenica mattina, nei locali del Dopolavoro presentammo delle ottime calzature, solide, eleganti, a prezzi veramente convenienti. Sconto tre per cento per pagamento in contanti, o rateazione in sei mesi, con impegno scritto e autorizzazione all’amministrazione di appartenenza di saldare le rate eventualmente insolute, trattenendole sullo stipendio. Forse questa autorizzazione non era del tutto regolare, ma serviva certamente come deterrente. Un impiegato non avrebbe voluto far sapere ai superiori di essere moroso per aver acquistato scarpe di un certo livello qualitativo. Tutta la merce fu venduta in poche ore, e si raccolsero anche molte prenotazioni. La mia attività riprendeva, e questa volta con precisi accordi familiari. Io mi sarei interessato di tutto, sotto la guida della mamma, e avrei avuto una piccola parte del guadagno da poter spendere liberamente. Alle scarpe, presto, si affiancarono le stoffe, e poco dopo anche articoli di Murano, da variopinte collane a splendidi lampadari. Ma di questi ultimi se ne vendettero pochi. Fu un periodo florido, per me. Ho dimenticato di dire che, intanto, la famiglia era cresciuta di numero, perché era nata Carla. Gli anni trascorrevano. A scuola andava tutto bene, e io ero sempre abbastanza ambizioso. Una certa esteriore spigliatezza non faceva trasparire una profonda e triste timidezza venata di presunzione. Frequentai il corso per Caposquadra degli Avanguardisti, fui brillantemente promosso, ma non partecipai alla festa in occasione della consegna dei gradi, che andai a ritirare successivamente, perché mia madre non volle darmi i soldi della quota e io non intendevo intaccare il mio piccolo gruzzolo. Andavo molto d’accordo coi miei compagni di classe, con Alberto, Armando, Renzo, Radio, ma soprattutto con le compagne, Ada, Giulia, Marcella, Vera. Per loro ero uno che veniva dalla capitale, in più ero sempre disposto ad aiutarle, a far copiare i compiti. Marcella sedeva nel mio stesso banco, e spesso dimenticava a casa qualche libro o non aveva fatto un compito. Allora, per leggere nello stesso volume o per copiare più agevolmente, s’accostava a me -i banchi avevano un unico lungo sedile- e distrattamente premeva la sua coscia contro la mia. Quel contatto tiepido mi ricordava Franceschina. Chissà cosa faceva a Poggio Umbricchio. Nella Biblioteca comunale, nello stesso edificio del Dopolavoro, avevo trovato un libro che parlava diffusamente della città. Conteneva una pianta dettagliata e in fondo, in appendice, un breve riassunto ricordava i luoghi principali legandoli agli eventi storici e statistici più importanti. Il riassunto era in Italiano, Francese, Inglese, Tedesco. Ebbi il libro in prestito. Al Dopolavoro presi alcune matrici del ciclostile e mi feci prestare il liquido correttore. A casa mi misi a copiare a macchina quei riassunti, sulle matrici. Ci vollero lunghe ore, specie per le lingue straniere, per cercare le lettere non comprese nell’alfabeto italiano, le dieresi, la cediglia, e per non fare errori. Ogni tanto mia madre veniva a vedere cosa facevo e scuoteva la testa. Su un foglio di carta vergatina copiai accuratamente la pianta della città, nelle sue linee generali, indicando luoghi e monumenti importanti. Ma era ancora lontano da quello che avrei voluto realizzare. Ne parlai con Marcella, molto brava in disegno. Mi disse che anche i disegni potevano riprodursi a ciclostile, usando, sulla matrice, una penna speciale, quella che serviva per le firme. Era necessaria, però, l’apposita tavoletta sulla quale poggiare la matrice. Don Alceste ne aveva una della grandezza desiderata. Decidemmo di incontrarci all’Oratorio, il pomeriggio. Sapendo dove andavamo, le famiglie non si sarebbero opposte. Don Alceste, che curava tante belle e utili pubblicazioni, anche per ragazzi, ci ascoltò con molta attenzione. In effetti, gli esponemmo solo il programma culturale, non quello economico. Si dichiarò disposto ad aiutarci, mettendo a nostra disposizione, senza alcuna spesa, matrici, penne incisorie, tavolette, inchiostro, carta, ciclostile. Marcella copiò la pianta in modo perfetto. Dopo una settimana avevamo la ‘Guida della Città’, in quattro lingue, in fascicoletti separati, Sulla copertina era scritto: ‘a cura di M.& P.’ Don Alceste si congratulò con noi. Herr Professor Draken disse che era un lavoro ben fatto e gradì anche la copia in Inglese. Mademoiselle Amalie sgranò i suoi occhioni bizzarri e, sorridendo, disse che noi formavamo ‘une couple formidable’. I compagni indagavano sugli ‘altri rapporti’ che, oltre a quelli societari, intercorrevano tra me e Marcella. Le compagne mi chiedevano cosa mai trovassi di interessante in quella smorfiosetta, e si offrirono per altre e ancor più interessanti iniziative. Ogni domenica, Marcella ed io giravamo per i luoghi turisticamente più importanti, con una cartella di copie ciclostilate, offrendole ai visitatori ai quali chiedevamo un’offerta libera. Furono tanto generosi che potemmo regalare a Don Alceste una intera scatola di matrici, senza incidere troppo sugli incassi. In autunno, dopo la raccolta delle olive, Quirino ed io ci mettemmo in giro per i frantoi, armati di bottigliette. Chiedevamo un ‘assaggio’ da sottoporre ai nostri genitori che avrebbero dovuto acquistare la provvista d’olio per l’intero anno. Il capo frantoio riempiva la boccetta e raccomandava di assaggiare l’olio su una bruschetta calda di pane sciapo. Dovevamo subirci la descrizione delle qualità di quell’olio, le ragioni per cui dovevamo preferirlo, perché il prezzo era uguale per tutti, sette lire al ‘boccale’, due litri. Noi trasferimmo gli assaggi in una bottiglia da litro e ci illudemmo di poterne riempire molte, da vendere ai genitori, sia pure a prezzi concorrenziali. La ‘campagna assaggi’, però, fu umiliante, faticosa, e fruttò pochissimo. Un’esperienza da non ripetere. Il padre di Letizia era un quasi collega di mio padre, un po’ più vecchio di lui, e si radeva una parte dei capelli per mostrare una fronte alta, segno d’intelligenza. Anche il Duce, del resto, aveva la fronte alta. La moglie assumeva pose da fatalona, sgranava occhioni trasognati e sbatteva ostentatamente le ciglia. Fumava in lunghissimi e sottili bocchini. Il figlio frequentava il secondo anno d’università. Un tipo molto sconclusionato, girava tutto solo per la strada, a passo svelto e sempre con un giornale sotto braccio. Credo che fosse tutte le volte lo stesso. Letizia, diplomatasi maestra quell’anno, aspirava all’Accademia d’Educazione Fisica. Suo padre aveva il volto sempre stanco e preoccupato. Viveva di straordinari e di piccoli prestiti. La famiglia lo prosciugava. Letizia era molto bella, prosperosa, con lunghi capelli neri, ben curati. Per me era una ‘grande’, aveva quasi diciotto anni. Mi richiamava alla mente le tette di Franceschina. Quel giorno sembrò incontrarmi per caso, mi fermò tutta allegra, con la sua solita esuberanza che mi metteva a disagio. Di solito m’abbracciava, mi schioccava un forte bacio sulla guancia, non importava dove stavamo e chi fosse presente, e mi chiamava il suo Rodolfo Valentino. “Senti Rodolfo” -mi disse- “io so che quando tuo padre é assente sei tu che hai le chiavi della stanza dove sono le scarpe. Perché non me ne fai provare un paio molto elegante? Andiamoci subito.” E mi prese per un braccio, avviandosi. Non era possibile, non avevo la chiave con me, dovevo tornare a casa per il pranzo. “Va bene” -aggiunse- “verrò oggi, alle quattro, al Dopolavoro. Adesso ti accompagno per un tratto, faccio la stessa strada.” All’angolo della via dove abitavo, mi dette un bacione più forte e sonoro del solito, e s’allontanò con quel suo modo di camminare per il quale l’avevo soprannominata, ma non lo sapeva, la ‘pantera nera’. (Renzo insisteva che più che pantera, era una topona nera.) Le quattro del pomeriggio, in quel mese faceva caldo, non era un’ora normale per uscire senza valido motivo. Dissi alla mamma che avevo preso un appuntamento al Dopolavoro, per le scarpe. Mi raccomandò di non rientrare tardi. Non le specificai che si trattava di Letizia perché le era fortemente antipatica e mi ripeteva che era un tipo da evitare. Letizia era già in attesa, nella penombra del grande portone. Indossava camicetta bianca e gonna azzurro scuro. Ai piedi, sandali bianchi. Salimmo le scale. La porta del Dopolavoro era ancora chiusa, ma io avevo le chiavi. Entrammo. Era molto scuro, quasi non ci si vedeva. Andammo verso la stanza dov’erano le scarpe, aprii la porta e mi diressi a spalancare i vetri della finestra, lasciando socchiuse le persiane. L’odore del pellame era quasi piacevole. Letizia sedette sul divano verde, presso la finestra. “Allora” -disse- “cosa c’é di molto elegante?” Presi alcune scatole e le misi per terra, vicino a lei. “Fammene provare qualcuna, ma ci vorrebbe un po’ di talco per far entrare il piede nella scarpa. Fa caldo, sono sudatissima.” Sbottonò la blusa bianca, mostrando il reggiseno, che copriva poco o nulla. Si accorse che la stavo guardando. “E’ un modello carioca, molto alla moda. Ti piace?” Si alzò, aprì completamente la camicetta, piroettò su sé stessa. Era più bella di Franceschina. Glielo dissi. “Sei bellissima…” “Ma io parlo del reggiseno, Valentino…” “E non chiamarmi Valentino, non chiamarmi mai più così, io ho il mio nome…” Lo avevo detto in tono serio, deciso. Mi guardò sorpresa, si avvicinò a me, mi prese la testa tra le mani e mi baciò sulle labbra, forte, a lungo. “Sei proprio un maschio prepotente. Come piace a me.” In silenzio, cercai il barattolo del borotalco. Lei era tornata a sedere sul divano. Mi avvicinai per porgerle il talco, ma mi fece segno di sedermi sul divano, al suo fianco. Poi tolse i sandali, si girò un po’ e poggiò il piede nudo sulle mie gambe, guardandomi fisso negli occhi. Misi un po’ di polvere nella mano e la passai piano, sotto le dita del piede, sulla pianta. Ebbe un brivido. “Mi fai il solletico.” La sua voce non era la solita. Non era squillante, allegra, quasi canzonatoria. Presi una scarpa, nera, elegante, col tacco alto, leggera. L’aiutai a calzarla. “Anche l’altra, per favore.” Chiese con voce bassa, roca, e mise l’altro piede sulla mia gamba, facendolo scivolare come una carezza. Presi ancora il talco e questa volta passai la mano anche sul dorso, tra le piccole dita, sorreggendo alta la gamba. Salii verso la caviglia. Quasi a controllare che tutto fosse in ordine, alzai il suo piedino all’altezza dei miei occhi. La gonna le si sollevò quasi del tutto, scorgevo le mutandine, bianche come il reggiseno. Letizia non mi sembrava più una ‘grande’, era tutto nuovo e diverso. Lasciava fare senza dire nulla. Si teneva con ambo le mani aggrappata al divano, forse temendo di scivolare. Le faci calzare anche l’altra scarpa, sempre tenendo ben in alto la sua gamba e guardando il merletto delle mutandine. Mi venne in mente di dirle una cattiveria. Almeno così credevo. “E’ un modello carioca anche quella?” E indicai sotto la gonna alzata. Fece un cenno affermativo con la testa, senza dire nulla. Si alzò e andò al grande specchio per vedere come le stavano le scarpe. “Mi stanno bene, vero?” Cercava di essere normale, cordiale, ma aveva perduto la sua spavalderia. Ero rimasto sul divano. In effetti le scarpe sembravano disegnate per lei, glielo dissi. Mi guardò con un lieve sorriso sulle labbra. Venne verso me, lentamente, mettendo un piede innanzi l’altro, come in una sfilata di mode. Quando mi fu di fronte, alzò la gonna e si mise sulle mie gambe, a cavalcioni. Era qualcosa che non avevo mai provato prima, neppure immaginato. Quel calore, quel profumo, quel seno… Avvicinò le sue labbra alle mie, sentii le sua lingua penetrare nella mia bocca, cercare la mia lingua, carezzarla. Non sapevo bene cosa stessi facendo, mi accorsi che con una mano le stringevo il seno e con l’altra salivo lungo le sue gambe, scostavo le mutandine, sentivo il palpitare d’un batuffolo di seta che si schiudeva accogliendomi in un meraviglioso tepore… S’alzò di scatto. “Basta, non possiamo, non dobbiamo, non l’ho mai fatto… Non immaginavo di poter mai… Basta!” Riabbottonò la blusa, si chinò a baciarmi ancora. Fece scorrere le sue dita su di me, incontrò la mia eccitazione, mi strinse forte, fino a farmi male. “Basta, andiamo via.” “E le scarpe?” “Non posso prenderle, non ho i soldi per pagarle, sono troppo care per me. Mio padre non di darà la somma necessaria. Andiamo via,” Questa volta fui io a sfiorarle le labbra che si dischiusero, golose, assetate, a stringere il seno con la mano, a carezzare il suo meraviglioso corpo, a soffermarmi tra le sue gambe. Fui io a stringere, lì, sentendola palpitare. Presi le scarpe e le incartai in un foglio che era sul tavolo. “Prendile, sono tue, te le regalo.” Regalo! Strani nomi si danno a certi gesti. Da quel giorno, le mie amiche, le ragazze che abitavano nel mio stesso edificio, le vidi in una luce completamente diversa. Luciana, occhi di gatto, con le treccine, era una bella fanciulla bionda, con un personalino niente male. Liliana era veramente splendida, occhioni neri, profondi, meravigliosi, capelli corvini. Le scuse per andarla a trovare, al piano di sopra, aumentarono vorticosamente. E Lydia, anche lei una ‘grande’, non m’incuteva più soggezione, anzi! La salutavo con ostentata confidenza, quasi con superiorità, sbirciandole le tette. Né m’ero mai accorto quanto fosse bella mia madre. Quanto le donava la tenue tristezza che le abbelliva il volto. Mio padre era stato costretto, per servizio, ad andare molto lontano. Improvvisamente sentii di volerle un bene immenso, di comprendere le sue preoccupazioni, la sua pena per essere così divisa e distante dal suo uomo, con sulle fragili spalle la responsabilità dell’insegnamento, della casa, dei figli. Le sarei stato più vicino, le avrei dimostrato quale e quanto affetto aveva per lei il suo figlio maggiore. Per la prima volta mi sentivo orgoglioso di avere quella mamma. Quando rientrò dalla riunione della GIL, dove s’era parlato delle colonie estive, le corsi incontro, abbracciandola forte, baciandola con profonda tenerezza. Mi strinse al suo cuore, mi prese sottobraccio, s’incamminò lungo il corridoio dicendo, con dolcezza: “L’uomo della casa!” Mi preparavo per andare a Roma, al corso per ‘Capo Centuria’. Un mese in tenda. Lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche. Avrei avuto un moschetto, vero, di quelli con baionetta ribaltabile. Avrei sparato, con pallottole vere. Avrei conseguito il grado che m’avrebbe posto al comando d’un reparto d’Avanguardisti, durante le adunate. Detti alla notizia la massima diffusione e mi mostravo indaffarato per i preparativi che, in sostanza, si riducevano a mettere nello zaino un po’ di biancheria, il maglione grigioverde e la tenuta da ginnastica. Marcella era orgogliosa e nello stesso tempo dispiaciuta. Il suo compagno era stato scelto per quel corso, sarebbe tornato coi gradi d’oro, ma doveva restarle lontano per tutto un mese. Marcella era imprevedibile, passava dalla dolcezza tenerissima all’acredine astiosa. Era stranamente generosa. A qualcuno avrebbe dato tutto quello che aveva, ad altri nulla, neanche ciò che per lei era superfluo. Era possessiva, voleva sapere tutto di tutti. A me domandava non solo cosa avessi fatto, dove fossi andato, perché, con chi, ma anche cosa stessi pensando. Aveva sempre da chiedermi qualcosa, sia pure una semplice informazione, specie se stavo parlando con un’altra ragazza. Io non dovevo preoccuparmi di passare gli appunti alle altre compagne, ci avrebbe pensato lei, ma poi dimenticava sempre il quaderno a casa. Facevamo lunghe chiacchierate e, con la complicità di qualche sua amica, riuscivamo a stare un po’ vicini su una panchina di Pratogiardino, una di quelle nascoste dalle siepi. Qualche volta riuscivamo a sedere vicini al cinema. Era bella Marcella, e su di lei avrebbe fatto uno sconvolgente effetto la parure carioca. I saluti tra la mamma e me, al piccolo treno azzurro che doveva portarmi nella capitale, davano l’impressione che stessi partendo per un pericoloso fronte di guerra. Baci e abbracci, occhi lustri, e tutto un tirare sù col naso. Non ero al mio primo allontanamento da casa. Ero andato, da solo, a trovare gli zii ad oltre ottocento chilometri di distanza. Ora c’erano anche gli altri compagni, l’ufficiale che ci accompagnava. Ma compresi tutto, e un nodo mi serrò la gola quando la mamma mi disse che, partito anch’io, lei restava completamente sola, per tutto un mese. Avrebbe chiesto alla nonna di venirle a fare compagnia, però non era la stessa cosa. Marcella era lì, con gli altri. Mamma la chiamò con la mano. Quando fu vicina, le disse: “Vieni, Marcella, salutiamolo insieme e attenderemo insieme il suo ritorno, vero? Vienimi a trovare, t’aspetto:” Marcella portò il fazzolettino al naso e assentì con la testa. Mi tese la mano, e restammo così, guardandoci negli occhi, senza parlare. Letizia arrivò trafelata, proprio nel momento che stavo per salire in vettura. Salutò la mamma, mi baciò sulle guance, con naturalezza. Il treno cominciò a muoversi lentamente. Dal finestrino vedevo la mamma sorridermi, Marcella salutarmi con la mano ma con una strana espressione sul volto infiammato, sentivo Letizia che gridava di mandarle una cartolina, e forse si sarebbe messa a correre a fianco del convoglio se non avesse calzato quelle anacronistiche scarpine nere, col tacco altissimo. Era la seconda domenica che trascorrevo al campo. Uno degli allievi del corpo di guardia venne a dirmi che mia cugina m’attendeva nella tenda dell’ingresso, dovevo vestirmi per la libera uscita e presentarmi all’ufficiale di picchetto. Strano, la mia unica cugina che abitava a Roma aveva quattro anni. Non appena entrai nella tenda, Letizia si precipitò verso di me, abbracciandomi e baciandomi, con esuberanza, dicendo ad alta voce che il suo cuginone stava veramente bene, che dovevamo sbrigarci perché a casa ci attendevano tutti, che suo padre, mio zio, era stato chiamato al Ministero, benché fosse domenica. Per questo non era venuto lui. Era stata sua mamma, mia zia, a telefonare al Comando del corso per ottenere il permesso per me. Fino all’ora del silenzio. Aveva parlato tutto d’un fiato. La guardavo stordito. “Prima di uscire” -dissi- “devo prendere una cosa nello zaino, torno subito.” L’ufficiale di picchetto mi sollecitò a sbrigarmi. Lui, una cugina così non l’avrebbe lasciata neppure per un istante. Letizia sorrise civettuola. Andai a prendere i soldi, i miei risparmi, quello che rimaneva dopo aver pagato le scarpine regalatele. Ma non era pochissimo. La storia che Letizia mi raccontò, mentre andavamo verso il capolinea del tram, aveva del romanzesco. A casa aveva sostenuto di dover incontrare la Direttrice dell’Accademia d’Orvieto che era con alcune allieve allo stadio dei cipressi, alla Farnesina. Il padre, di turno, era bloccato in ufficio. Il fratello era impegnato dallo studio e dal giornale. La madre non ci pensava proprio ad affrontare tutto quel caldo. Lei sarebbe partita col primo treno del mattino e tornata in serata, con quello che arrivava alle dieci e mezzo. Se l’andavano a prendere alla stazione avrebbero saputo subito le novità. Appena giunta a Roma, dal bar del Piazzale Flaminio aveva telefonato al Comando del Corso, spacciandosi per mia zia. Chiedeva scusa se non era il marito a rivolgere personalmente quella preghiera, ma l’Eccellenza lo aveva convocato al Ministero. Poi, aveva preso il tram fino a Ponte Milvio e aveva fatto la non breve scarpinata, molto lentamente, per non giungere sudata, perché la cosa non avrebbe fatto fine. Avevamo dieci ore da trascorrere insieme. No, non le interessava visitare Roma. Era venuta per me, non per Roma. Aveva anche un po’ di soldi. “Sai” -disse- “dal treno ho visto un laghetto tanto carino, poco più di uno stagno, ma con un boschetto verde e tante canne intorno. Poco discosta c’é una casetta con dei tavoli fuori, forse é un’osteria. E’ a sole tre fermate da qui, perché non ci andiamo? Questa sera, da quella stessa stazioncina riprenderemo il trenino; io per casa, tu per il campo. Purtoppo…” Quando giungemmo alla stazione, il treno azzurro stava per partire. Comprammo i biglietti e salimmo sull’ultimo vagone. Era quasi vuoto. Sedetti al suo fianco, vicinissimo a lei, e sentivo il prepotente desiderio di abbracciarla, di baciarla, di toccarla. Le presi la mano e la tenni tra le mie. “Sei contento di vedermi? che sono venuta a trovarti?” “Non immaginavo di incontrarti qui, a Roma. Non ti nascondo che lo desideravo tanto ma sapevo di illudermi. Ho pensato che per te non significo nulla, che hai certamente un ragazzo, che alla tua età alcune donne stanno per sposarsi, che sono troppo giovane per te.” “Allora, sono vecchia?” -disse maliziosamente- “Ti senti a disagio ad andare con una vecchia?” Divenne seria. “La differenza di età che ci divide” -continuò- “non é evidente. Ma anche se si nota, a me non interessa, non sento di dovermi rimproverare perché ti amo, perché é così ti amo! Nei miei pensieri e nei miei desideri ci sei tu e solamente tu. Vorrei tanto essere in quei paesi, che molti considerano incivili, dove potremmo già vivere insieme, per conto nostro. L’unico mio incubo é il timore di esserti indifferente. Quanto é accaduto tra noi, per me ha segnato la scoperta della vita. Si, alla mia età c’é chi si sposa, e anche chi é già madre, per questo il mio amore per te non é una sentimento superficiale, una ‘questione da ragazzini’, ma é qualcosa di molto serio e importante, di maturo, di essenziale. E’ la ragione della mia vita. Se ho sbagliato, dimmelo per favore. E quando arriveremo alla stazione del laghetto io non scenderò con te, proseguirò fino a casa.” La mia presunzione di avere una mente adulta si dimostrava infondata. Non riuscivo a intendere completamente quel discorso. Quelle parole mi facevano capire quanto fossi impreparato ad ascoltarle. (O avevo paura di comprenderle?) Non leggevo romanzi sentimentali, non conoscevo il linguaggio giusto, cosa avrei dovuto rispondere per dirle quello che avrei voluto farle sapere. Ma quella, indubbiamente, era la ‘donna’ che mi faceva sentire ‘uomo’, che mi aveva trasformato senza che me ne accorgessi. Anche mamma aveva detto che ero l’uomo di casa. Forse non c’é un’età per divenire uomo, per comportarsi da uomo. Mi immaginai unito a Letizia, per sempre, in un paese lontano. Non ero stupito, e ancor meno spaventato. Forse, però, sarebbe stato più bello se al posto di Letizia ci fosse stata Marcella. Letizia avrebbe scacciato Marcella dai miei pensieri? Marcella non mi aveva mai parlato così. Del resto, come avrebbe potuto fare, Marcellina. Ogni nostro timido accenno al futuro, al nostro futuro, si riferiva a tempi che sarebbero giunti tra tanti anni. Letizia parlava del presente, di oggi. Era qui, era venuta per me. Di fronte a noi non sedeva nessuno. Le poggiai la mano sul grembo caldo. “Stiamo per giungere al laghetto” -disse- “prepariamoci.” L’osteria era abbastanza affollata, ma sul retro, dalla parte della cucina, c’era ancora un tavolo libero. La padrona fece cenno di sederci là, sarebbe venuta subito. “Allora, belli giovani” -disse allegramente- “cosa ve porto? Li giovani devono da magnà, vero? E voi lo sete giovani, caspita! Ce so’ le fettuccine ar sugo e er pollo allo spiedo, vinello fresco e gazosa ar ghiaccio. Ve va bene?” Non attese risposta e s’allontanò verso la cucina. Avevo tolto la giubba, sperando di sembrare più vecchio. Letizia sedette dando le spalle alla cucina e disse di mettermi di fronte, perché voleva vedermi sullo sfondo della campagna, dove alte canne si muovevano appena prima degli alberi frondosi. Mi tornò alla mente la scena di un film: lui e lei, poco più che adolescenti, in campagna, cercavano d’appartarsi, di sfuggire gli altri, per dirsi il loro amore. Questa volta, però, il protagonista ero io. Letizia allungò la mano, attraverso il tavolo, e l’appoggiò sulla mia. “T’amo e ti voglio bene.” La guardai interrogandola con gli occhi. “Ti amo come una donna ama il suo uomo, ti voglio bene come la mamma vuole bene a suo figlio.” Feci di sì con la testa, ma c’era qualcosa che non capivo bene. Il pranzo fu ottimo e abbondante, ed ebbe l’accoglienza di due giovani, sani e robusti, che avevano trascorso diverse ore dal precedente pasto. Volli pagare io, assolutamente, e dovetti risentirmi dire che ero il tipico ‘maschio prepotente’. “Andiamo verso il lago. E’ bello. C’é aria, vedi come si muovono le foglie degli alberi, come ondeggiano le canne.” Era piena di luce, negli occhi. Mi prese per mano e s’avviò verso il viottolo che conduceva al laghetto. Le canne lambivano l’acqua e giungevano fin dove iniziava il boschetto. La vicinanza dell’acqua consentiva all’erba d’essere verde brillante. Gli alberi ombreggiavano il terreno. Il silenzio era percorso dal lieve bisbigliare delle foglie e dal discreto sussurrare delle canne. Stesi sull’erba la mia giubba. Letizia mi guardò con gli occhi socchiusi. Vi si sedette sopra e mi fece cenno, con la mano, di mettermi accanto a lei. Si sdraiò e poggiò la testa sulle mie gambe. Si sollevò strofinandosi la guancia. “E’ ruvido, pizzica.” Prese dalla borsa un piccolo foulard bianco e azzurro, lo aggiustò sui miei pantaloni. Tornò a posarvi il volto, guardandomi con un leggero sorriso. La carezzai lievemente, le passai le dita sulle labbra. Prese la mia mano, baciò le dita, le mordicchiò, le tenne pressate sulla bocca, e s’addormentò. Così. L’alzataccia per dover prendere il primo treno, la lunga camminata per giungere al campo e tornare al capolinea del tram, la stanchezza, il pranzo, il vinello fresco e invitante… Il volto era sereno, esprimeva rilassata contentezza, il seno s’alzava ritmicamente in un respiro regolare e profondo. Non fu facile ritirare, piano, senza farla svegliare, la mano che tenevo vicino alle sue labbra, e ancor fu più difficile alzare il foulard dove poggiava il viso e deporlo lentamente sulla giubba. Si mosse appena, portò un pollice in bocca e continuò a dormire. Pensai di andare sulla riva del laghetto, ma poi decisi di rimanerle vicino. Mi sdraiai accanto a lei, avvicinai il viso ai suoi capelli, le poggiai la mano sul seno… Non so quanto tempo dormii. Quando mi svegliai Letizia dormiva ancora. S’era rannicchiata tra le mie braccia. Sotto la sua testa la mia camicia era bagnata di sudore, come la sua blusa, sul seno, dove le mie dita sentivano il turgore del capezzolo. In quel momento si svegliò. mi guardò teneramente. “Abbiamo dormito insieme, é il mio sogno di sempre.” Si mise su me e prese a baciarmi il volto. Piccoli baci, rapidi, sulla fronte, sugli occhi, sulla bocca, sul collo. Sentivo il suo peso, il suo calore, il suo muoversi, il suo carezzarmi con tutto il corpo, sempre più freneticamente, quasi con violenza. E restò così, col respiro affannoso. Poi scivolò, piano, al mio fianco. Il sangue pulsava nelle mie tempie, ero eccitato come non m’era accaduto mai, neppure nei miei sogni erotici. “Vieni vicino a me” -sussurrò- “ti sento, amore, e ti voglio anch’io. Ma per ora non si può. Vieni qui, mettilo tra le mie gambe. Sta attento, però, a…. ‘non andare oltre’, anche se lo desidero tanto. Non dobbiamo, per adesso. Ma… se… non sei d’accordo… sono pronta a fare quello che tu vuoi.” Fu una cosa bellissima, che mi travolse, e fu arduo non perdere il controllo. Strinsi i denti, tremando, per ‘non andare oltre’. Le mie dita si aggrapparono ai suoi capelli, la mia lingua cercò la sua. Quando giacqui supino, lei prese il piccolo foulard e lo strinse tra le gambe. “Qui ci sei tu, amore.” -disse con voce affannata- “Lo porterò sempre con me.” III Il ritorno a casa, dopo il corso, fu quasi un trionfo. Vennero ad attenderci alla stazione, parenti, amici, un reparto della GIL. E tutti insieme andammo a festeggiare i gradi d’oro che luccicavano sul berretto alpino, alla Casa del Fascio. Mamma mi salutò, “Ciao, comandante”, e mi serrò forte al suo cuore. Marcella abbozzò un impacciato abbraccio, rossa in viso, sfiorandomi il volto con le sue labbra di fuoco. Le cinsi la vita e la strinsi a me. Non vidi Letizia, ma non domandai nulla. La GIL mi regalò dieci biglietti per Lo Stabilimento termale e per l’autobus. Riuscimmo ad organizzare una gita. Marcella e un’amica convinsero i genitori a dar loro il permesso di andare alle Terme insieme alla professoressa di educazione fisica. In effetti, l’insegnante vi andava quasi tutti i giorni, a istruire sul nuoto, e trovò naturale ‘dare un’occhiata alle ragazze’, tanto raccomandatele dalle mamme. Quando Marcella apparve sull’uscio dello spogliatoio, non fui il solo ad ammirarla, a restarne colpito, a seguirla con lo sguardo, ma fui il solo ad essere felice, perché veniva verso me, sorridente, radiosa, col suo andare morbido e flessuoso. Anche Giulia era bella, ma non quanto la mia Marcella, il cui splendore non traspariva in tutta la sua meravigliosa essenza dagli abiti d’ogni giorno. Era diversa da Letizia, Marcella, meno aggressiva, meno violenta, meno spettacolare, meno popolare. Era bellissima, elegante, raffinata in ogni suo gesto, classica, statuaria, aristocratica. Eppure così passionale. “Sei più bella di Venere.” Le sussurrai. Mi sorrise e spalancò gli occhi, per dirmi che era felice di piacermi. Andai a prendere tre coni-gelato. Li gustammo in silenzio, sul bordo della piscina da dove si levava forte l’odore dello zolfo. “A proposito” -disse Giulia, fissandomi- “sai che Letizia é stata quasi per morire, a causa del tifo? Non te l’ha detto Marcella?” Seguitai a mangiare il gelato, senza apparente emozione. “No, non glielo ho detto.” Intervenne freddamente Marcella. “Adesso, come sta?” Chiesi. Giulia, notando la mia indifferenza, aggiunse, acida, che ‘quella’ aveva sette spiriti come i gatti e che da un momento all’altra sarebbe tornata in circolazione. Rimasi a guardare l’acqua azzurrognola e calda. Letizia era stata ‘per morire’. Quel corpo splendido, palpitante, pieno di vita, di slanci, di passione, che fremeva alle mie carezze, dunque ‘poteva morire’. Un pensiero che non m’aveva mai sfiorato. Quel seno meraviglioso, che ammiravo affascinato, che vedevo sollevarsi nel ritmare del suo respiro, poteva restare inerte. Il battere tumultuoso del suo cuore, che avevo percepito con le mia dita, poteva arrestarsi, per sempre. Ero sgomento. E questo poteva accadere anche a Marcella, anche a me. Tutto poteva scomparire, ogni persona, ogni cosa che ci circondava. Per sempre. O, mio dio, poteva accadere. Finire tutto, irreversibilmente. Presi la mano di Marcella, la strinsi forte. Mi sorrise, dolcissima. Cosa avevi fatto, Giulia! Mi avevi costretto a pensare, per la prima volta, che anche i giovani possono morire. Ma mi avevi anche spiegato l’essenza del carpe diem. “Noi andiamo a bagnare i piedi nel ruscello.” Lo avevo detto a Giulia, senza guardarla. Mi alzai dal bordo, sempre tenendo per mano Marcella e mi avviai verso il varco della siepe. Giulia alzò la testa. “Se, per caso, viene Letizia, posso dirle dove siete?” Marcella rispose prima di me: “Certo, mandala da noi.” Il ruscello d’acqua calda era dietro l’edificio principale. In alcuni tratti era contenuto da un muretto di tufo, dove sedemmo lasciando che l’acqua ci sfiorasse i piedi. Misi un braccio intorno alla vita di Marcella e lei appoggiò il capo sulla mia spalla. ‘Come dal Bulicame esce ruscello….’, cominciò a declamare, ma si fermò di colpo. “Noi non moriremo, vero?” Mi chiese stringendosi a me. V’era una nota di paura nella sua voce. Una domanda che non attendeva risposta o, forse, voleva l’unica risposta impossibile. La baciai sugli occhi. “Tocca a tutti, Marcella, ma a noi capiterà quando saremo tanto vecchi e dopo aver vissuto pienamente la nostra vita, insieme.” Alzò le spalle, come a volersi rifugiare tra le mie braccia per sentirsi protetta. Aveva gli occhi pieni di pianto. “Io voglio morire prima di te.” Disse, e scosse la testa come a scacciare qualcosa che la turbava. Le nostre bocche s’incontrarono. Un bacio lungo, appassionato e tenero, spontaneo, come se lo avessimo fatto sempre. Ed era la prima volta. Tutto cambiò, da quel giorno. Letizia era il proibito che si poneva al di fuori della regola. Non dovevo parlarne con nessuno, specie con la mamma. La sognavo, rivivevo il suo voluttuoso sbiancarsi nel volto mentre mi copriva di baci, avvinghiata a me. Rivedevo la sua mano stringere al grembo il piccolo foulard e poi portarlo alle labbra. Marcella era l’ordine. La mamma mi aveva dato il permesso di invitarla a casa, qualche volta, per ripassare le materie, in vista della riapertura della scuola. Lei raccontava di me, ai suoi, del suo compagno di classe, il più bravo, di ottima famiglia, educato, che era anche Capocenturia… E non l’avrebbe smessa se la madre non l’avesse interrotta, con un sorriso, dicendole che aveva capito tutto perché, ormai, io ero l’unico oggetto della conversazione della figlia. Marcella, però, non la sognavo mai. Avevo cercato Letizia, feci in modo di incontrarla. Era smagrita, con grandi occhi nel volto pallido, i capelli non più simili alla seta, i vestiti larghi. ‘Carioca’ non doveva sforzarsi per accogliere quanto conteneva. Sarebbe andata da una zia suora, in un convento ai confini con la Svizzera, dove avrebbe trascorso un periodo di convalescenza. L’Accademia, almeno per l’anno in corso, era sfumata. “Tornerò presto, amore” -sussurrò con un sorriso triste- “e andremo ancora sulla riva del laghetto, su quell’erba verde. Ti amo da morire, e ho temuto di morire perché non ti avrei più rivisto. Ti penserò continuamente. Guarirò per te, per noi.” Frugò discretamente nella blusa. “Guarda, ti ho sempre con me.” E mi mostrò il piccolo foulard bianco e azzurro. Senza curarsi dei passanti, mi sfiorò le labbra con le sue. Aride. “Povera Letizia!” -disse Marcella, apprendendo che doveva rinunciare all’Accademia- “speriamo che riacquisti presto la salute, l’allegria di sempre, e che quando tornerà smetta di farfalleggiare e trovi un bravo ragazzo. Lei, ormai, é più in età di marito, che di Accademia.” Aprì il libro alla pagina dov’era l’esercizio da fare per l’indomani. L’anno scolastico era cominciato. Pochi giorni dopo arrivò una voluminosa lettera da mio padre. Mia madre la lesse e rilesse, felice in volto ma piangendo. Pagine coperte da una grafia che, a quanto potevo sbirciare, diveniva sempre più irregolare, Mi porse la prima pagina, le altre le piegò accuratamente e le serbò nella scollatura del vestito. La scorsi velocemente, saltando qualche parola, tornai a leggere con la massima attenzione. Restai bloccato, paralizzato, da un pensiero: ‘Marcella’. E altri mille m’assalirono, confusi, contraddittori. Prima della fine dell’anno avremmo raggiunto mio padre. La famiglia si ricomponeva. L’uomo e la donna si riunivano, ubi Gaius ibi Gaia, e con loro i loro figli. Un ricongiungimento biblico, quasi un esodo per noi, andavamo in una terra ricca di promesse. Avrei lasciato la scuola, i compagni. Avrei lasciato Marcella. Un nuovo Paese, nuove genti. Avrei vissuto coi miei genitori, con tutti e due. Era per questo che s’erano sposati, per vivere insieme, avere dei figli, formare una famiglia. Lo avevamo letto nell’ora di religione: l’uomo e la donna avrebbero lasciato padre e madre per vivere insieme la loro vita. Come l’avrei detto a Marcella? Fu il primo dei drammi della mia vita. “Vado ad Addis Abeba” -scrissi a Letizia- “e posso portare con me solo dei ricordi. Neppure un foulard.” Non riuscii a versare una lacrima, né ad asciugare quelle di Marcella. Mamma comprese il mio stato d’animo. Mi consolò dicendomi che la nostra assenza sarebbe durata solo un paio d’anni, che due anni passano in fretta, che al ritorno sarei stato un vero uomo, a tutti gli effetti. Intanto, mi diceva, avrei fatto un’esperienza preziosa, avrei conosciuto terre nuove dove, volendo, potevo tornare per svolgervi la mia attività professionale, per veder crescere la mia famiglia. Mi fu di aiuto, anche se non mi convinse, perché usai le sue argomentazioni, con Marcella. “E’ come se andassi a fare il servizio militare un po’ lontano.” Ma lei scuoteva la testa. Marcella ed io non facevamo nulla sulla spinta degli impulsi. La nostra intesa era perfetta. Sapevamo sempre cosa volevamo e perché. Lo decidemmo insieme. “E’ la nostra prima volta” disse Marcella, serenamente, con molta calma- “e non può accadere che tra noi. Lo desidero, sono pronta. Sento che non facciamo nulla di male, perché nulla di male può esserci nell’amore, in quello vero, quello che ci unisce. Non temo niente, né per oggi né per il futuro. Sono cosciente di tutto. Ho un appoggio preziosissimo, insperato, inimmaginabile, Marisa, mia sorella. C’inviterà a pranzo nella sua villa di Bagnaia, di domenica. Nel pomeriggio andrà a Soriano, col marito, e noi saremo soli. Non credevo che avrebbe condiviso la mia decisione, che potevo contare sul suo aiuto. Immaginavo che mi avrebbe trattata da ‘poco di buono’ e mi avrebbe dato anche qualche ceffone. Mi ha abbracciata, mi ha detto che sì, certe cose bisogna farle con chi si ama per non rischiare di doverle subire dalle circostanze. Marisa non ha sposato per amore quel panzone di Amulio.” Al convento di Santa Rosa chiesi una di quelle scatolette argentate che usavano per mettere piccoli pezzetti della tonaca che era stata a contatto col corpo della Santa. Una scatoletta vuota. Mi fu facile averla, con una piccola bugia, anche perché le suorine mi volevano bene. Io avevo fatto tanti piccoli lavori, per loro. Avevo scritto e ciclostilato tante cose. Quando partii per Addis Abeba, in quel piccolo reliquiario conservavo un minuscolo ciuffo bruno. La lettera di Marcella fu la prima a giungermi. Alcune parole erano sbiadite dalle lacrime. “Se per te sono solo una piccola parte di quello che tu sei per me, puoi comprendere quanto il mio dolore sia simile al tuo. Ricorda che non sei solo, non lo sarai mai. Vorrei esserti vicina, per tentare di dimostrarti quanto e come vorrei riempire il vuoto che ha lasciato in te la perdita della tua adorata mamma. Rabbrividisco nel rileggere la tua descrizione dell’incidente. Ricorda, amore, quando sedevamo vicini, nel banco, il mio primo tentativo di baciarti al tuo ritorno da Roma, il Bulicame. Ricorda Bagnaia, i momenti che attendo ardentemente di rivivere. Stringi sul tuo cuore la scatolina che contiene una piccola parte di quella che é stata e sarà per sempre la tua Marcella.” No, Marcella, non ho più nulla con me, é tutto in fondo al lare, al mar Rosso, anche quella scatolina. Mi resta solo la profonda tristezza del presente, l’incognita del futuro. I miei ricordi sono sbiaditi come se fossero trascorsi secoli, come se l’acqua che col suo scrosciare ha invaso la nave ferita, squarciata, li avesse scoloriti. Devo sforzarmi per rivivere Bagnaia. Mi sembra d’essere ubriaco. Nulla é come prima, e nulla potrà mai più esserlo. Devo curare Mario e Carla. Sì, c’é l’attendente, il personale di colore, ma sono io che li accompagno alla Consolata e poi torno a casa, solo, nel grande autobus vuoto. C’é la notte che non passa mai. Non sogno più. Non so neppure se sono vivo, se quello che mi circonda é reale. Non scrissi niente di tutto ciò, mi limitai a dirle che tutto sarebbe stato diverso se lei fosse stata con me. Ma era vero? La scuola che avrei dovuto frequentare non era stata istituita. Ne sari stato l’unico alunno. Dovevo studiare per conto mio e sperare in una speciale sessione d’esami. Ma non avevo libri, Tutto era stato ingoiato dall’acqua. Cercavo d’imparare la lingua locale. Era abbastanza agevole parlarla, ma molto difficile scriverla. Mi aiutavo con una grammatica in caratteri latini. Il non far niente mi faceva rimuginare continuamente lo stato delle cose. Restavo solo, a casa, con la compagnia di Lebèn e di Finfìn, la coppia nera che cercava di aiutarci nei lavori di casa, e di Ancì, la loro figlia dodicenne. Finfìn si chiamava così perché, appena nata, la madre l’aveva lavata nelle acque cade di Finfinni. Leggevo, sul rozzo divano di cuoio sulla veranda, qualche testo scolastico reperito qua e là, qualche libro di narrativa, la grammatica amarica, ma soprattutto le lettere che Marcella mi faceva pervenire due volte la settimana. Mi raccontava dettagliatamente le sue giornate, mi diceva quanto le mancavo. Si soffermava sui particolari perché, diceva, voleva che io vivessi con lei, com’era stato nel passato. A scuola, per la strada, a Bagnaia. Sembrava come se avessimo trascorso insieme tutta la vita. In effetti, da quando avevamo capito di vivere eravamo stati sempre uniti. Quegli scritti, però, non colmavano la distanza che ci separava: infinita. Erano voci e pensieri che mi giungevano da un mondo lontanissimo. Mi chiedevo se la città dalla quale partivano quelle lettere esistesse davvero, se vi avessi realmente vissuto, se Marcella fosse realtà o frutto della mia fantasia, interlocutrice inventata per non sprofondare nella più disperata solitudine. E questo mi faceva rispondere, anche lungamente, senza riuscire, però, a dirle quanto intensamente ricambiavo il suo profondo sentimento. Le parlavo della terra dov’ero, della gente che incontravo, dei poverissimi neri che poco o nulla avevano compreso degli avvenimenti in cui s’erano trovati coinvolti, delle loro misere capanne. Ma forse erano felici così, certo più felici di me, che ero senza futuro. Marcella rispondeva che lei era il mio futuro e io il suo. Non le avevo detto, certo, il modo col quale Ancì aveva creduto di potermi consolare, vedendomi così triste e avendone saputo il motivo. Era entrata, silenziosa come un gatto d’ebano, nella mia camera, mentre dormivo, aveva fatto cadere lo sciamma sul pavimento e s’era infilata nel mio letto, prufumata di selvaggio, con la pelle di seta, appena uscita dal caldo corso del Finfinni, un cui rivolo scorreva nel nostro giardino. Mi diceva cose che non capivo, forse le stesse che Marcella mi aveva scritto nella sua prima lettera: se ti fossi vicina ….. Ugo Roberti non riusciva a trovare chi gli disbrigasse il lavoro di segreteria. Il personale locale non conosceva l’italiano e tanto meno la macchina per scrivere. Spedire un telegramma era per loro un’operazione sconosciuta. Far venire dall’Italia elementi di modesto livello impiegatizio era antieconomico. Era la maglia debole nella struttura tecnico-commerciale, dell’industria che forniva la quasi totalità dei mezzi di trasporto all’AOI. Fui accolto con speranzoso scetticismo poi venni festeggiato come il salvatore. Quell’attività fu la mia droga. Riusciva a farmi dimenticare la realtà, per qualche ora. Ma non mi rese più socievole. Ce la mettevo tutta, ero disponibile e pieno di buona volontà. Il mio tratto fraterno col personale indigeno me ne fece acquistare la loro piena fiducia. Bahalà Debòc, ‘Baccalà’ per gl Italiani, il capo della maestranza di colore, che parlava un ottimo francese, cercava in ogni modo di dimostrarmi la sua simpatia. Lo stipendio era superiore a quello che in Italia guadagnava un preside. Osservavo un regolare orario d’ufficio. Un pomeriggio, all’uscita, venni fermato dal proprietario-autista di un autocarro. Era disperato, aveva urgente necessità di una serie di iniettori. In sede gli avevano detto che, anche ordinandoli telegraficamente e facendoli venire per via aerea, ci voleva almeno una settimana per riceverli. Avrebbe perduto lucrosi viaggi, sarebbe stato un grosso danno. Chiedeva il mio aiuto. Tornai in azienda, cercai Ceccarelli, il capo magazziniere, gli raccontai che un mio parente era fermo per mancanza di iniettori. Mi guardò in modo inquisitorio, ma ressi quell’occhiata indagatrice ed ebbi gli iniettori. Per dar maggior credibilità alla cosa, lo pregai di ordinarne telegraficamente un’altra serie, perché il mio parente aveva più automezzi e desiderava mettersi al sicuro da sorprese. L’indomani avrei pagato, in cassa, quelli che mi aveva dato. Costantino, il proprietario-autista, m’aspettava, come d’accordo, vicino al caffè Armen. Gli avevo detto che non gli promettevo niente, ma avrei provato ad aiutarlo. Quando mi vide col pesante involucro, sorrise soddisfatto. Mi dette il prezzo di listino degli iniettori, vi aggiunse alcuni Talleri d’argento e mi regalò due bottiglie di ‘triple sec’. Portai a casa il liquore. L’indomani pagai gli iniettori. Trattenni i Talleri. Era iniziato il mio ‘terzo mercato’ dei ricambi. La busta dello stipendio passava nelle mani di mio padre, che non mi chiedeva neppure se avessi bisogno di qualche spicciolo. A Marcella scrissi su carta intestata della ditta. Le dissi di quell’occupazione, gonfiandone l’importanza e anche un po’ la retribuzione, e aggiunsi che non avevo ancora deciso se continuare a studiare o dedicarmi totalmente al lavoro. La risposta non si fece attendere. Per Marcella, io ero nato per lo studio e per un posto almeno da Direttore. Ma come, si chiedeva, ambizioso e presuntuoso com’ero, avrei deciso di non essere più ‘comandante’? Possibile una simile trasformazione in così poco tempo? Avevamo scelto insieme la facoltà che avrei dovuto frequentare e la Banca di cui sarei divenuto Direttore per l’AOI. Lo avevo dimenticato? Se questo era il mio modo di mantenere i miei propositi e le mie promesse lei doveva essere veramente preoccupata! Concludeva: “Ti scrivo dalla villa di Marisa, a Bagnaia, ma tu non sei qui con me.” Bahalà s’incaricò di vendere i Talleri a un cambio superiore al corso ufficiale. Li avrebbero acquistati alcuni commercianti del luogo, poiché per loro era difficile procurarseli in banca. Anche in questo settore cominciò un mercato parallelo. Dall’ufficio partivano numerose e pesanti raccomandate. Il loro contenuto era della massima importanza, e si temeva che il fattorino di colore potesse perderle prima di arrivare all’ufficio postale. Decisi di andarvi personalmente, era anche una scusa per uscire un po’, la mattina. Dal libro dei francobolli prendevo quelli che ritenevo necessari per l’affrancatura, li incollavo sulle buste. All’ufficio postale mi chiedevano una certa differenza, ma le somme indicate sulle ricevute comprendevano anche l’importo dei francobolli da me in precedenza attaccati. In cassa mi rimborsarono quanto indicato dalle ricevute, molto più di quanto avevo effettivamente esborsato. Fornitura urgente di ricambi, traffico di Talleri, ‘differenza’ sulla spedizione delle raccomandate, mi consentivano guadagni non del tutto leciti ma consistenti. Non mi piaceva fumare, ma ostentavo ogni tanto una ‘Principe di Piemonte’. Acquistavo molte cose nella rosticceria fiorentina, e le portavo a casa. Qualche volta mi fermavo al bar, a bere un liquore che penavo per mandar giù. Mi venne l’idea di mandare delle somme a Marcella. Alla Banca feci un ‘assegno non trasferibile’, intestato a lei. Le scrissi che comprendevo come le spese per l’affrancatura dovessero necessariamente comportarle la rinuncia a qualche piccolo capriccio, a qualche divertimento, a qualche giornale. Desideravo farle un modesto dono, qualcosa che le parlasse di me. Non potevo spedire nulla, però, da dove stavo, perché non c’era niente da inviarle. Avrebbe dovuto acquistare lei ciò che le piaceva, mi avrebbe fatto felice, mi sarei sentito vicino a lei. “Quando ho aperto la raccomandata, dai fogli é caduto l’assegno che hai voluto inviarmi. Sono rimasta perplessa. Dapprima, anche se non ne comprendevo il motivo, mi sono sentita quasi offesa. Poi un nodo di pianto mi ha serrato la gola. Hai spedito a me, a me tesoro, parte del tuo guadagno. Sono stata invasa da una dolce tenerezza, da un brivido, come se tu mi carezzassi, e più cocente é stato il dolore d’esserti lontana. E’ un gesto meraviglioso, che mi fa sentire la tua donna. Ma sono troppi soldi, però. Se dovessi usarli tutti per i francobolli, significherebbe che non ti vedrei mai più. Avevo deciso di serbarli, di attendere te e di andare insieme a comprare il dono che vuoi farmi. Poi, ho riletto la lettera. Mi dici che devo comprarmi qualcosa, per farti felice. E io non desidero che renderti felice. Mi scrivi che t’ho donato tutto e tu nulla hai donato a me. Non puoi immaginare, amore mio, la gioia che ho provato nell’offrire a te ciò che mai più, a nessuno, potrò dare. Vorrei sentirti sempre con me, in me. Vorrei essere nella piccola teca che hai con te, che contiene solo qualcosa di me, ma che é tutta me stessa. Quante cose vorrei. Ancora una volta ho interrogato Marisa, le ho detto quello che hai scritto tu e cosa penso io. Mi ha risposto che devo fare quello che vuoi lui. Siamo andate da Caporossi, l’orefice. Sono stata fortunata: una spilla ovale, un medaglione bellissimo, semplice, elegante, con incisa la facciata di Villa Lante. Dietro vi ho fatto scrivere Bagnaia, e una data. Marisa ha ritirato la spilla, poi é venuta a casa e ha detto alla mamma che l’aveva comprata per sè ma che, a guardarla bene, non le piaceva troppo e preferiva regalarla alla sua sorellina. E’ sempre con me, giorno e notte. Mentre dormivo, la spilla s’é aperta e mi ha punto il seno, a sinistra. Una piccola goccia ha arrossato la bianca camicia che indossavo. E’ meraviglioso: sei tu che hai fatto gemere quella stilla vermiglia. Non la toglierò più. Ho nascosto la camicia in un luogo sicuro, vicina al mio diario, alle tue lettere.” Al di fuori del lavoro il tempo scorreva, perché ero condannato a vivere. Erano giunte dall’Italia un paio di ragazze, mie coetanee. Abitavano poco distante dal nostro chalet. Avevano sorelle e fratelli più piccoli, e qualche volta Mario e Carla andavano da loro. Io restavo a casa, sul piccolo divano di cuoio, col piccolo gattopardo che faceva le fusa ai miei piedi, e Ancì, gelosissima di quel gattone selvatico. Nel taschino della sahariana i soldi aumentavano. Era logico che quella situazione non potesse durare a lungo. Fu deciso il rimpatrio. Ma dove andare? Dove stabilire i resti di quella che era stata una famiglia? Proposi di tornare nella città da dove eravamo partiti. Mio padre scosse la testa. Saremmo stati circondati da ricordi dolorosi, ad ogni passo, senza risolvere il gravissimo problema dovuto alla mancanza della mamma. Si tornava in Italia. Per il momento saremmo stati ospitati dagli zii, a pochi passi da Napoli. Poi si sarebbe visto cosa fare. Informai subito Marcella: “Non scrivermi più, torno in Italia, torno da te.” Il telegramma, inatteso, fu aperto da mio padre. “Ti aspetto contando i minuti. Marcella” “Già” -disse papà- “Marcella, il motivo per cui volevi tornare nella precedente residenza. Capisco, ma non é possibile, almeno per ora. Non so cosa faremo…” E uscì in giardino respirando profondamente.
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