Eravamo partiti dall’Italia con quintali di mobili, masserizie, effetti personali, infiniti oggetti. Tornavamo con qualche valigia semivuota. Leben scuoteva la testa, sul marciapiede della stazione. Appena il treno, sbuffante, ansimante, cominciò a muoversi, lo inseguì correndo, fino a quando poté, seguito da Ancì col gattopardo al guinzaglio. Poi il Nuovo Fiore scomparve alla vista. Fu come in un film che avanzava a scatti. Il treno, il lungo viaggio. Gibuti e la difficoltà di alloggiare, perché eravamo Italiani. La nave al largo, la risalita del mar Rosso, il Mediterraneo, l’accoglienza dei parenti. I vestiti neri. Per tutti. Consegnai a mio padre parte dei soldi che avevo da parte. Non mi chiese nulla. Il resto lo divisi in due piccoli gruzzoli, uno sempre in tasca e l’altro in fondo a una valigia. Quest’ultimo fu trovato dalla zia che lo prese, ‘per conservarlo’ -disse-, pronta a restituirmelo a poco a poco, a mano a mano che mi fosse servito. Avevo scritto a Marcella che non potevo darle un indirizzo preciso, ci muovevamo in continuazione. Ma sarei andato da lei molto presto. Appena a Roma, dissi che andavo a salutare i miei vecchi compagni. Non mi rispose nessuno, come se non avessi parlato. Partii da Termini, la stazione vicina al nostro alloggio, presso parenti. Scesi a Porta Romana e mi avviai verso Fontana Grande. Poco prima di giungervi, scorsi Giulia che mi veniva incontro. Il volto triste, gli occhi pieni di lacrime. Certo, in quella stagione, a quell’ora, uno tutto vestito di nero, non poteva destare altro sentimento. Non s’era ancora fermata che scoppiò a piangere: “Che disgrazia, che destino infame…” Non riusciva a dire altro. “E Marcella?” Chiesi. “Ti aspettava come il deserto attende la pioggia…” “Mi aspettava?” -interruppi- “Perché, adesso non mi aspetta più?” Giulia mi guardò cogli occhi sbarrati, gridò: “Allora non lo sai, non sai nulla, non sai che Marcella é morta. E’ morta domenica scorsa!” Non credetti di aver compreso bene. La fissai in silenzio. “Si” -seguitò a gridare- “Marcella é morta! affogata! Nel lago!” Era come se una potente mazzata si fosse abbattuta sulla mia testa. E’ così che si uccidono i vitelli. Andai a sedermi sulle scale della fontana, Giulia venne vicino a me, rimase in piedi, tirava su col naso, si asciugava le lacrime. La voce rotta dai singhiozzi. “Era andata coi genitori, Marisa, il cognato e altri amici a fare una gita sul lago. Lei voleva restare a casa, perché ti aspettava sempre, ti attendeva da un momento all’altro. Da quando le avevi scritto che saresti venuto non si staccava dalla finestra. Sul grande barcone, che poteva trasportare tante persone, era stato preparato il pranzo. Avevano deciso di mangiare in barca. Avevano già consumato il pasto e stavano tornando dall’isola. Qualcuno dormiva, qualcun altro canticchiava o giuocava a carte. Nessuno s’era accorto del temporale che stava rapidamente sopraggiungendo. Le acque divennero improvvisamente livide, le onde s’ingrossarono sotto la rabbia delle raffiche impetuose del vento. Marcella se ne stava tutta sola, a prua. La barca ebbe un violento sobbalzo, Marcella perse l’equilibrio, tentò di aggrapparsi all’ancora, ma fu sbalzata fuori. La corda dell’ancora l’avvolse e la trascinò sul fondo. Altri due caddero in acqua ma furono subito soccorsi dalle barca che erano andate in aiuto. Lei é stata ripescata il giorno dopo. Sembrava dormire, bella più che mai. Va a trovare Marisa, vuole vederti.” Mi rialzai, facendo ‘sì’ con la testa. Giulia mi prese per mano. “Andiamo, io e mio fratello ti accompagneremo. Ci porterà lui, con la sua auto.” La seguii come un automa, sempre annuendo col capo. Lo studio del padre, dove lavorava anche il fratello, era poco distante. Non volli salire. Fabio scese subito. Mi fece sedere accanto a lui, Giulia si mise dietro. In pochi minuti fummo alla villa di Marisa. Ci venne incontro, mi abbracciò stretto, piangendo. Amulio, come al solito, non c’era. Entrammo in casa, sedemmo intorno al tavolo del tinello. Il racconto di Marisa fu dettagliato, atroce, con particolari che non avrei mai dimenticato, che vivevo come se fossi presente alla sciagura. Era ancora l’acqua a strapparmi quanto avevo di più caro. L’acqua per la quale era morta mia madre, nella quale la piccola teca, con una minuscola parte di lei, aveva preceduto Marcella. Volevo scappare, andar via al più presto, per sempre. No” -disse Marisa- “devi tornare, i miei vogliono vederti, oggi sono a Roma, dal medico, per la mamma. Ma devi tornare. Aspetta un momento.” Si alzò e andò alla scala che conduce al piano superiore. Tornò do poco. Aveva in mano un fazzoletto orlato con un antico merletto. Mi venne vicino, mi tese il piccolo involto. “E’ tua. Marcella non l’aveva lasciata, la stringeva nella sua piccola mano di cera, vicino al suo cuore che non batteva più.” Lo presi, ne sollevai lentamente un lembo. La spilla d’oro. L’ovale con Villa Lante. La girai. Sul retro era inciso: Bagnaia, e la data che sarebbe rimasta nel mio cuore e nella mia mente anche dopo la mia morte. Entrai di nuovo in una scuola, in una classe. Incontrai volti nuovi. Seguitavo a percorrere il mio tunnel. Sentivo di suscitare più curiosità che interesse. Questo accadeva dovunque. Nella casa di mia zia, che aveva messo a disposizione di mio padre e mia una camera nella quale dormivamo e avevamo riposto le valige del ritorno, non erano mai andate tante amiche e conoscenti a farle visita. Volevano vedere il nipote coinvolto nel naufragio dove aveva perduto la madre, e che aveva vissuto tra i selvaggi, tra gli zulù. ‘Gesù’ -dicevano- ‘povero figlio.’ E se ne andavano contente, come se avessero visto un fenomeno da baraccone. Per questo cercavo di stare in casa il meno possibile e di trovare mille ragioni per rimanermene nella camera buona per tutti gli usi. A scuola era lo stesso. Venivano dalle altre classi, con una scusa, per vedermi. Decisi di frequentare le lezioni saltuariamente e, in quelle occasioni, di starmene all’ultimo banco, per conto mio. Studiavo solo le materie che m’interessavano. Delle altre non acquistai neppure i libri. Sul libretto delle giustificazioni facevo la firma di mio padre meglio dell’originale. Problemi di quattrini non ne avevo. Ogni mattina mi davano una somma: per il tram di Napoli, perché per quello provinciale avevo l’abbonamento; per la colazione e per mangiare qualcosa, all’uscita dalla scuola, in quanto sarei tornato a casa abbastanza tardi, specie quando c’era anche lezione nel pomeriggio. Ricevevo più del necessario, e bastava sapersi regolare per disporre di quanto poteva servire per qualche passeggiata in barca, o per il cinema. A Napoli, certe sale aprivano alle dieci del mattino. Il primo tema in classe chiedeva di parlare di una vacanza. Dissi della mia lunga vacanza in Etiopia, del tragico viaggio d’andata, dell’incredibile fine della mia compagna di banco, Marcella, del mio imperioso volere, adesso, andare in barca sul mare, sull’acqua che odiavo, che mi perseguitava fin da bambino, quando ero costretto a villeggiare in riva al mare. Il professore, un Sardo meraviglioso, lesse in classe il mio tema. S’interruppe più volte, commosso. Molti compagni mi guardarono cogli occhi lucidi. Alla fine della lezione, Rosetta, la bella bionda del primo banco, mi venne vicino, mi tese la mano, mi chiese: “Le volevi bene, vero?” Feci di sì con la testa. “Quando non vieni a scuola, dove vai?” La sua voce era calda. Non era curiosità, la sua. “A spasso per la città al cinema, in barca a Mergellina.” “Perché non vieni a scuola? Vorremmo averti con noi.” “Noi chi?” “Io!” “E allora, vieni tu a passeggio con me.” “Non posso, mio padre é vice questore, molti agenti mi conoscono, potrebbe esserne informato. E poi, chi mi firmerebbe la giustificazione?” “Dopo la prima ora puoi dire di non sentirti bene e che devi tornare a casa. Provaci domani.” Rimase silenziosa, a testa bassa. Stava entrando la professoressa di tedesco, un’austriaca che parlava sempre del fratello farmacista. La materia non era tra le mie preferite. Andai alla cattedra, salutai educatamente, dissi all’insegnante che dovevo uscire perché stavo male. In effetti, non davo l’impressione d’essere in perfetta salute. Tornai al banco a prendere i due libri che avevo portato quella mattina. Passai vicino a Rosetta. Feci finta di leggere qualcosa sul suo quaderno e le sussurrai pianissimo: “Domani, dopo la prima ora. All’ingresso principale del Museo. T’aspetto.” Uscii. Rosetta camminava con aria sbarazzina, sorridendo. Mi vide subito. Mi salutò con la mano. Era senza libri, come me. “Ho detto al vice preside che dovevo andare dal dentista. I libri li ho dati a Mariella che me li porterà sotto casa quando esce dalla scuola.” Assunse un’espressione misteriosa, come stesse cospirando. “E’ la prima volta che faccio una cosa del genere,” -proseguì- “la prima volta. Ma andiamo via da qui, c’é troppa gente. Andiamo a Mergellina, in barca…” “No!” -l’interruppi, spaventato- “No, tu in barca no!” Si rattristò in volto. “Scusa, non dovevo dirlo, hai ragione, ma tu mi hai detto che spesso ci vai in barca.” Le presi la mano, cercai di sorridere. “Scusami tu, perdona se sono stato brusco. Sono sempre così teso… Io vado in barca, sì, ma é una sfida, e una speranza. Un odio imbevuto di tristezza. Odio il mare, l’acqua, la barca. Sono i simboli del mio tormento, che mi riportano alla mente le persone fino ad oggi più care della mia vita. Questa mattina sento che s’apre un nuovo cammino per me. E’ una giornata piena di sole, che ne diresti di andare alla Floridiana?” Mi strinse la mano, sorrise deliziosamente, con i suoi meravigliosi ‘occhi di cielo’ che mi fissavano, velati di commossa tenerezza. “Si” -disse- “andiamo alla Floridiana, e non m’importa se qualcuno mi vedrà con te, a quest’ora.” Andammo verso Port’Alba. Da una piccola pasticceria usciva un profumo tentatore. “Io ho fame” -le dissi- “non puoi farmi mangiare da solo.” In mente mi venne una frase letta non ricordo dove: ‘ed essi si divisero il pasto’: Rosetta mi guardò con aria canzonatoria. “Sono golosa anch’io. Altro che fame.” Le sfogliatelle furono deliziose. Attraversammo Piazza Dante e proseguimmo per la Funicolare di Montesanto. Ci portò vicino al parco dal quale si dominava Napoli. Sembrava come se ci conoscessimo da sempre. Si mise sottobraccio, mi parlò della sua famiglia. Una sorella frequentava il ginnasio, il fratello le elementari. Erano di Firenze, dove lei era nata, e stavano a Napoli da oltre sette anni perché suo padre era stato trasferito a quella Questura. Si sentiva un po’ napoletana, ma soprattutto fiorentina. Eravamo sul grande terrazzo. Il cielo era limpido, dal Vesuvio a Posillipo. Mi prese la mano. “Teniamoci così, fissiamo un punto qualunque, contiamo, e al tre, insieme, diciamo quale.” Cominciò: “Uno… due.. tre…” Dicemmo insieme: “Capri!” Mi strinse forte la mano, senza voltarsi proseguì sottovoce: “Amare non é guardarsi l’un l’altro, ma guardare entrambi nella stessa direzione. Lo dice Antoine Saint Exupéry. Credi che sia vero?” Rimasi con gli occhi che carezzavano il confine tra cielo e mare. Assentii con la testa, senza parlare. Si avvicinò ancor più, poggiò la testa sulla mia spalla, coi lunghi capelli biondi che mi coprivano il braccio. Mi chiese piano, con la sua voce calda e carezzevole. “Cosa farai oggi?” “Non lo so.” “Studierai?” “Non ne ho voglia.” “Domani c’è compito in classe di matematica, verrai?” “Credo di si.” Le cinsi la vita. Era bellissimo stare con lei. “Dimmi tu quando dobbiamo tornare.” -dissi- “Dove abiti?” “Possiamo rimanere ancora un po’ qui, sto benissimo. Non m’ero mai sentita così, leggera, serena, avvolta in una nuvola magica. Abito vicino alla scuola, in via Duomo. Tu sei dai tuoi parenti, vero? In un paese a pochi chilometri. Mio padre m’ha detto che sono persone importanti, che tuo zio é un ‘pezzo grosso’ della politica. Vero?” La guardai sorpreso. Aveva un aspetto incantevole. “Hai parlato di me con tuo padre?” “Si, gli ho detto che nella nostra classe era venuto un nuovo compagno. Ha voluto sapere come ti chiami, che aspetto hai, come ti comporti. Il solito interrogatorio di poliziotti…” “E che aspetto ho, come mi comporto?” Sorrise maliziosamente, stringendosi al mio fianco. “Gli ho detto la verità, che sei un orso. Ma non gli ho detto che sei un bell’orso.” “Quindi formiamo la classica coppia: ‘la bella e la bestia’.” “Al Circo Gleich c’era un orso che abbracciava teneramente la ragazza che… lo teneva al guinzaglio.” ” E tu, l’hai portato il guinzaglio?” “Anche se lo avessi non credo che con te funzionerebbe. Lo strapperesti con un morso e fuggiresti lontano, anche da me. ” Divenne seria. “Perché sei così lontano da tutto e da tutti?” “Non sono lontano da nessuno, perché non ho nessuno. Sono solo. Questo non lo tiene presente il tuo autore francese?” “Sei solo anche in questo momento?” “No.” “E’ così, non sei solo. E non lo sarai mai, ricordalo. Io sono con te dal primo momento che sei apparso sulla porta della classe. Sono con te sempre. Anche quando non stiamo insieme. Non immaginavo di provare questo sentimento e ancor meno di rivelarlo.” “Forse é pietà.” Si staccò da me, mi strinse il braccio con forza, mi guardò con occhi di fiamma, rossa in viso. “Orso, non capisci niente, o non vuoi capire niente.” L’abbracciai. Poi, con la mia mano sulla sua spalla, andammo lentamente verso l’uscita. Sulla strada, si mise di nuovo sottobraccio. Tornammo a Piazza Dante, Piazza Cavour. All’angolo di via Duomo ci salutammo. Che sguardo sognante, pieno di dolcezza, quello di Rosetta. Mi tese la mano. “Grazie!” Disse. E s’avviò verso casa. Feci un tratto di Forìa. Tornavo a casa. Scesi verso Porta Capuana, verso la piccola stazione delle vicinali. Non mi fermai alla solita pizzeria. Dovevo avere una strana espressione perché qualcuno si voltava a guardarmi. Forse muovevo le labbra quando nella mente ripetevo: “Sono solo, Marcella, solo…” Forse non ero sincero. Il professore di matematica salì faticosamente sulla predella trascinando la sua gamba di legno. Si accomodò nella larga poltrona, batté sulla cattedra il bastone col puntale di gomma. Guardò in giro. Mi vide. “Ah” -esclamò- “oggi abbiamo l’onore della presenza del libero discente dell’ultimo banco.” Mi alzai, abbozzai un inchino, sedetti. Mi aspettavo un coro di risa e sghignazzi. Non fiatò nessuno. “Lo sa la primula nera che oggi abbiamo compito in classe?” Mi alzai di nuovo e sventolai il foglio di carta commerciale che avevo portato. Proseguì sarcastico, impietoso. “E’ stato veramente fortunato nell’ultima interrogazione. Ha indovinate le risposte, ma erano domande molto facili. Vedremo cosa saprà fare oggi.” Mi fece cenno, col bastone, di sedere. Chiamò Soriani, gli dette un foglietto e gli disse di copiarlo sulla lavagna. Era il compito. C’erano due ore di tempo, s’era fatto cedere l’ora di religione. Strappai un foglietto dal quaderno e vi scrissi, rapidamente, le soluzioni, complete di procedimento e calcolo. Era passata solo mezz’ora. Piegai il foglio grande, quello commerciale, sul quale avevo copiato quanto era scritto sulla lavagna, e vi scrissi nome e cognome. Mi alzai. Passando dinanzi al banco di Rosetta le chiesi di prestarmi il libro di storia e intanto lasciai cadere il foglietto con le soluzioni. Mi avvicinai alla cattedra e consegnai il foglio, in bianco. “Non lo so fare” -dissi- “posso uscire un momento, per favore?” Annuì con la testa. Rientrai quando il professore, col fascio di compiti sotto braccio, arrancò fuori della classe. Tornai al mio posto. Molti si misero a parlottare tra loro. Qualcuno mi guardava. Rosetta venne a sedere vicino a me. “Perché ti sei comportato in quel modo?” “Così potrà mettermi zero, e sarà contento. Voglio farlo felice, poverino. Questa volta, il suo odio verso il prossimo lo ha riversato su di me. Lo sento come se mi avvolgesse materialmente. E’ come se volesse incolparmi di essere causa della sua mutilazione. Me lo immagino, brandire la matita blù e mettere un grosso zero, sottolineato, sul foglio che gli ho consegnato.” Entrò l’insegnante di storia, Rosetta andò al suo banco. “Vediamo se c’é qualcuno che vuole dirci i motivi per cui Colombo ottenne il finanziamento del suo primo viaggio verso le Indie occidentali.” Tolse i piccoli occhiali di metallo e rimase in attesa. Mi alzai, mi fece cenno di andare vicino alla cattedra. “Allora?” Mi chiese. Parlai a lungo, senza essere mai interrotto. Descrissi la situazione politica ed economica dell’Europa, in quei tempi. Citai le esplorazioni geografiche dell’epoca, i conflitti, le ambizioni, la sete di guadagno, le conquiste sui mari. Sulle acque che inghiottivano uomini e cose, senza pietà. Ricordai che Colombo chiese alla popolazione locale dove fosse giunto, quando approdò alle Azzorre. Mi ascoltarono tutti con molta attenzione. Alla fine, il professore mi chiese dove avessi raccolto quelle notizie che non erano contenute nel libro di storia. Gli dissi che quando non andavo a scuola ed era cattivo tempo, passavo molte ore nella Biblioteca comunale. “Non posso dirti bravo per le tue assenze, per il fatto che preferisci la biblioteca alla scuola, ma posso dirti ‘bene’, anzi ‘benissimo’, per la tua esposizione. Va pure a posto.” Rosetta mi tese la mano, quando passai vicino al suo banco. Il professore vide e scosse la testa, sorridendo. All’uscita, Rosetta mi disse che teneva dei biglietti per il Santa Lucia. Aveva chiesto al padre di poter invitare anche il suo nuovo compagno di classe. Le aveva risposto sì, ma doveva andarci anche con la sorella minore. Solitamente, rincasavo in ore abbastanza strane, con la scusa che restavo a studiare in biblioteca. O anche senza scuse. Mai tardi, però. Quella volta decisi di andare da mio padre, nel suo ufficio. Gli dissi che ero stato invitato al cine, da un compagno, e che di conseguenza sarei tornato a casa più tardi del solito. Chiesi il suo permesso e se, per favore, poteva portare lui, a casa, i pochi libri che avevo con me. Mi rispose che andava tutto bene. I libri dovevo lasciarli sul piccolo tavolo di fronte a lui. Con Rosetta avevo appuntamento al portone della sua casa. La sorella, Fiorenza, due anni meno di lei, era carina. Un volto sbarazzino, vivace. Il Santa Lucia era abbastanza lontano. Fiorenza propose di andarci a piedi, percorrendo Toledo, così poteva vedere le vetrine. Tanto, anche se ci mettevamo un’ora, non faceva niente. Lei lo aveva detto, alla mamma, che ci voleva tempo per andare, vedere lo spettacolo e tornare. Mise la sorella nel centro, e le strizzò l’occhio quando vide che la presi sottobraccio. Mi piaceva sentire quel morbido tepore, così intimo. Prima di giungere a San Ferdinando, c’era una famosa e rinomata pasticceria. Rosetta non voleva entrare, disse che lo avremmo fatto al ritorno, ma Fiorenza osservò che se, poi, avessimo preso l’autobus… I ‘Santarosa’ furono squisiti. Giungemmo al cine poco prima dell’inizio dello spettacolo. Rosetta affermò che lei vedeva meglio da lontano, Fiorenza avrebbe preferito le file a metà sala, ma quando la sorella le sussurrò qualcosa non sollevò più obiezioni. Rosetta sedette alla mia destra, tra me e Fiorenza. Appena spensero le luci, ancor prima dell’inizio del documentario, prese la mia mano e vi appoggiò la guancia, con delicata tenerezza, con dolce gentilezza. Sentire le mie dita sul suo volto e farmi percepire il suo calore. Avvicinò le labbra al mio orecchio. “Lo senti che non sei solo, orso?” Una dichiarazione, non una domanda. Le sue labbra mi sfiorarono appena, quasi un bacio. Mi voltai e le nostre bocche s’incontrarono. Le nostre dita s’intrecciarono. Era bellissima, col capo sulla mia spalla, gli ‘occhi di cielo’ che guardavano lo schermo, senza vederlo. Non mi saziavo d’ammirarla. ‘E’ meraviglioso, Marcella, ma non dovrebbe esserlo.’ Lacrime silenziose scorrevano sul mio viso. Rosetta mi guardò, avvicinò le sue labbra ai miei occhi, bevve le mie lacrime, unendole alle sue. Quando si riaccese la luce, Fiorenza ci guardò con aria provocante: “Dovete aver riso da matti. Comico, il film, vero?” Comprai le caramelle. Rosetta ne dette alla sorella. “Mangia, così terrai la bocca chiusa.” Al ritorno prendemmo l’autobus. Molto affollato. Ero dietro Rosetta che, per mantenersi in equilibrio, si poggiava su me, quasi fosse senza forze, trasmettendomi deliziosamente i sussulti della vettura. Le bisbiglia nell’orecchio: “Vorrei che questo viaggio durasse in eterno.” Se abbandonò ancora di più, si fece sentire ancora più vicina. Spostai in avanti la mano che le tenevo sotto l’ascella. Le baciai i capelli. Al portone, Fiorenza mi salutò raccomandandomi di non ridere troppo e dicendomi che se avessi voluto sapere la trama del film me l’avrebbe raccontata. Corse avanti, per le scale. Entrai con Rosetta. Mi carezzò il viso, mi baciò sulle labbra. Tenne a lungo le sue mani tra le mie. “Grazie!” Disse, e scappò via. Mi piaceva stare con Rosetta. Era bella, dolce, affettuosa, gentile, premurosa. Mi guardava coi suoi grandi ‘occhi di cielo’ e mi perdevo nell’infinito della loro profondità. Mi sfiorava con l’oro dei suoi capelli, col velluto del suo viso, con l’ardore delle sue labbra. S’abbandonava tra le mie braccia con la tranquilla serenità di chi si sente sicura, protetta. Un pomeriggio incontrammo mio zio, a Rettifilo, vicino l’università. “E’ Rosetta” -dissi presentandola- “la mia compagna di classe.” La domenica successiva zio venne a trovarci, al paese. Mi prese da parte, come se ci fosse un segreto tra noi, e sorridendo compiaciuto mi disse: “Bellissima e fine ragazza la tua compagna di classe. Veramente di classe.” Certo non poteva paragonarsi alle ‘signorinelle’ che venivano dalla zia, con aria annoiata, ostentando la presunzione che fondavano sul loro patrimonio familiare. In primavera dovemmo studiare molto. In effetti era Rosetta che studiava molto. Io l’aiutavo nei compiti, le preparavo gli appunti per il ‘ripasso’, le ‘sentivo’ le lezioni per l’indomani. Ero spesso a casa sua. Evidentemente, le informazioni raccolte dal padre continuavano a favorirmi. Fiorenza aveva smessa l’aria canzonatoria dei primi tempi. La mamma era gentilissima e consentiva di ‘fare un giretto’, ma sempre con Fiorenza al seguito. Come quando si andava al cine. Quel giorno la mamma di Rosetta mi disse che la figlia stava preparandosi, sarebbe venuta tra poco. Ne profittava, disse, per chiedermi qualcosa che avrebbe voluto domandarmi da tempo, ma non lo aveva fatto per tema di urtare la mia suscettibilità. Mi considerava serio ed educato, mi assicurò, e lei credeva di potermi trattare come un proprio figliolo, con sincerità, senza infingimenti. Le sarebbe piaciuto, dunque, sapere perché io, che scrivevo i temi per Rosetta, che le facevo i compiti di matematica, che le rendevo più facile lo studio della altre materie, mi comportavo, a scuola , in un modo che mi faceva rischiare di essere respinto. Cosa mi ripromettevo di fare, in avvenire? Rimase a guardarmi, in attesa d’una risposta che non credeva di avere. E, invece, le risposi. Serenamente, sinceramente. Quello che studiavo, quello che facevo, era solo perché mi piaceva farlo, era per me. La scuola non mi interessava. Certo che mi avrebbero respinto, anche se in alcune materie i voti erano ottimi. Nella scuola gli insegnanti si preoccupano solo delle risposte alle interrogazioni, dei compiti in classe, anonimamente, aridamente, non s’interessano degli alunni in quanto esseri umani. Cosa avrei fatto in futuro? Non lo sapevo. Alla peggio, c’erano sempre le forze armate che offrivano l’arruolamento. Non ambivo neppure i gradi. Tutto ciò lo avevo già detto a Rosetta. “Allora” -disse gelida- “non t’interessa neppure Rosetta.” Era il colpo basso che aveva tenuto in serbo. Rimasi in silenzio per qualche istante. Speravo che Rosetta venisse a trarmi d’impaccio, ma era evidente che attendeva un segnale della madre, per entrare. Volevo rispondere, perché non credesse d’avermi messo in difficoltà. Ero certamente rosso in viso, più di quanto avessi voluto. Ma riuscii a non modificare il normale tono della voce quando le dissi: “Rosetta mi ha perfettamente compreso e mi ha accettato così come sono. Lei m’interessa tanto, così com’é. Anzi, null’altro m’interessa, al di fuori di Rosetta. E le sono grato per come mi considera e mi tratta. Se, però, Rosetta ha sbagliato, se non merito la sua cordialità, se la deludo, se vi deludo, se vi spaventa il fatto che io sia respinto, a scuola, scusatemi. Non lo sapevo. Comunque non posso dire cosa farò domani, perché non lo so, perché forse non ho domani, e per me tutto finisce oggi.” La donna s’alzò, mi venne vicino e mi passò la mano sui capelli, s’avvia verso il corridoio. Sull’uscio si fermò, si voltò, mi disse, sorridendo: “Rosetta ti vuole bene, la capisco. Viene subito.” Chissà se Rosetta era al corrente di quanto la madre aveva deciso di fare, se era d’accordo. Nella mano, in tasca, stringevo la spilla che portavo sempre con me. Che ne dici, Marcella? Marcella mi parlò con voce calma, incolore, senza il vibrare della sua passionalità, della sua possessività. Mi rassicurò. Rosetta non ne sapeva niente. Rosetta mi voleva bene. Non quanto lei, però. I risultati scolastici non fecero notizia. Nessuno se ne interessò. Solo Rosetta piangeva, singhiozzava, come se la respinta fosse stata lei. Era disperata: non saremmo stati più nella stessa classe. Non sapevamo ancora che non saremmo stati più nella stessa scuola, nella stessa città. Prima dell’inizio del nuovo anno scolastico le nostre strade si sarebbero divise, allontanate. Mio padre si risposava, e ci trasferivamo nella residenza della sua consorte, cercando di ricostituire la famiglia. Suo padre era stato destinato a Firenze, come questore. La famiglia di Rosetta sarebbe andata a passare qualche giorno con la sorella della madre, a Pisa Quando ci salutammo eravamo convinti di rimanere divisi per due settimane, e ci sembrava un’eternità. Ci saremmo rincontrati ventotto anni dopo. V I documenti scolastici dicevano chiaramente che ero ‘ripetente’. Eravamo in due ad esserlo, ma io ero ‘quello nuovo’ che veniva da un’altra scuola. Fui accolto con cordialità, con calore, dagli altri nove compagni di classe e dall’unica ragazza, Elisa, veramente bruttina. I professori erano simpatici, ci trattavano con familiarità. Tutti sapevano la mia storia. Mio padre l’aveva raccontata al preside e lui, certamente, ne aveva parlato cogli altri. Forse s’erano messi d’accordo tra loro, ma tutti gli insegnanti mi chiamarono a conferire, per accertare, dicevano, il mio grado di preparazione. “Ditemi cosa ricordate.” Aveva detto la professoressa di matematica. La pregai di farmi delle domande. Alla fine si dichiarò meravigliata che mi avessero dato un pessimo voto nella sua materia. Insufficienza che aveva concorso all’essere respinto. (All’epoca con tre insufficienze si ripeteva l’anno.) La stessa cosa capitò anche con qualche altro insegnante. La mia assoluta ignoranza del tedesco non fu scoperta, perché in quella scuola non v’era scelta per la seconda lingua straniera, si insegnava l’inglese ed io lo conoscevo discretamente avendolo studiato per mio conto. Gli alunni venivano da tutta la Provincia, qualcuno era ‘interno’ presso il locale Convitto Nazionale, altri erano ‘a pensione’ od ospiti di parenti. Ci si vedeva spesso, tra di noi, per studiare, per passare il tempo. Si andava a casa di qualcuno o ci si dava appuntamento lungo il Corso principale. A casa mia c’era sempre qualche compagno. Sì, tornavo ad avere una casa, una vera casa, e sentivo che la moglie di mio padre (non l’ho mai indicata come matrigna per il valore negativo che si attribuisce a tale nome) ci voleva veramente bene, come fossimo suoi figli. Era lei che ogni domenica mi dava qualcosa per le mie spese personali. Soldi che m’era difficile spendere: qualche giornale illustrato, un gelato quando il clima lo consentiva. Ai cinema non pagavo, perché lei ne era comproprietaria. Il vivaio delle studentesse, e per giunta delle più carine, era l’Istituto Magistrale, che sorgeva all’altra estremità del Corso. L’incontro con le ragazze avveniva a metà strada, dopo che s’era usciti dall’edificio della propria scuola. Le più abbordabili erano le ‘pendolari’, che venivano dai Comuni viciniori e quelle che stavano ‘a pensione’, anche perché erano le meno controllate. Frida era ospite della sorella sposata. Non tornava spesso al paese, anche se non distava troppo dal capoluogo, perché era un piccolissimo centro di montagna senza nessuna attrattiva se non paesaggistica, e lei di quel panorama ne aveva a sufficienza. Era con le altre sue compagne vicino alla bella fontana del giardino dinanzi al Municipio. L’esercizio di matematica che dovevano fare per l’indomani le preoccupava. Lo avevo sentito chiaramente. Mi accostai a loro e mi offrii di aiutarle. “Perché, tu lo sai fare?”, chiese Frida. “Certo” -risposi senza sapere di cosa si trattava- “datemi il libro, faccio l’esercizio e ve lo riporto nel pomeriggio. Adesso devo andare a casa, mi aspettano per il pranzo.” Si consultarono tra loro, poi Frida mi porse il suo libro. “Mi chiamo Frida, ti aspetto qui alle tre e mezzo.” “Io mi chiamo…” Frida m’interruppe. “Lo sappiamo come ti chiami. Sei quello che viene da Napoli. So anche dove abiti, perché é vicino a casa di mia sorella, dove abito io.” E mi disse l’indirizzo. Per fortuna l’esercizio non era difficile, ci misi poco tempo a farlo, a copiarlo bene su un foglio a quadretti. Dissi che andavo a portare un libro a un compagno. All’ora stabilita giungemmo contemporaneamente al bordo della vasca. Mi salutò sorridendo, in quel suo modo particolare. Un sorriso che partiva dagli occhi. Guardò il foglietto che avevo messo nel libro. “Hai una scrittura molto chiara, si legge benissimo. Grazie.” La fissai incuriosito. “Lo dici spesso ‘grazie’?” “Certo, sono abbastanza educata, e quando mi si fa una cortesia uso ringraziare. Perché, tu non lo fai?” In effetti, la mia domanda era stupida. Cercai di rimediare. “No, é che mi ricordi un amico che mi diceva ‘grazie’ ogni volta che ci separavamo.” La mia spiegazione doveva sembrarle più sciocca della domanda. “Io vado al cinema” -aggiunsi- “vuoi venire?” Quasi scoppiò a ridere, poi mi guardò con fare canzonatorio. “Ma che, scherzi. Al cinema con te, a quest’ora? A parte che non ho un centesimo, ma lo sai che qui al cinema insieme non ci vanno soli neppure i fidanzati ‘ufficiali’? Noi non ci conosciamo neppure mi proponi di andare al cinema con te. A quest’ora!” Le feci cenno con le mani di star calma. “Andiamo con ordine” -risposi- “A quest’ora perché é il primo spettacolo e poi si può andare a studiare. Soldi non ne servono perché al cinema io non pago e neppure chi mi accompagna. Ho il palco di famiglia. Il resto é discutibile. Comunque, facevi più presto a dire chiaramente che al cine non vuoi venirci. Punto e basta.” “E invece no” -disse con foga- “non posso, perché a me piacerebbe venirci:::” “Con me?” Fece sì con la testa, e non c’era ironia sul suo volto. “Va bene” -proseguii- “niente cinema per adesso. Si va a studiare. Possiamo fare un pezzo di strada insieme, visto che andiamo dalla stessa parte, o ci sono altre regole da rispettare e limitazioni in proposito?” Alzò le spalle. “Quanto sei antipatico. Hanno ragione le mie amiche: antipatico e scostante. Andiamo insieme fino a dove la strada é uguale per entrambi.” Al momento di salutarci le dissi: Senti, Frida, domani é sabato. Ci incontriamo, tra amici, a casa di Lucio. Ci sarà anche qualche ragazza. Ascoltiamo i nuovi dischi. Vieni anche tu, e fa venire con te qualche tua compagna. Lucio abita in via Chiari, appena all’inizio, primo portone a destra. Alle quattro del pomeriggio. Ti aspetto.” Me ne andai senza attendere risposta. Lucio aveva spostato in un angolo il tavolo, e coperto col pesante tappeto scuro, che di solito era al centro della stanza, vi aveva poggiato sopra un grammofono portatile, a manovella, una scatola di puntine, dei dischi. Incontrai Nick davanti al portone, con due dischi americani, avuti per vie traverse dai suoi cugini di Rochester, io avevo comprato delle paste. Nino ci aveva preceduto, con una bottiglia di liquore ‘casareccio’, Luigia e Viviana avevano fatto i biscotti alle mandorle. La mamma di Lucio aveva preparato il latte alla portoghese. C’erano anche Gigino ed Emilio. Bussarono alla porta. Fremevo dal desiderio di sapere chi fosse, ma non mi mossi. S’udì la voce della mamma di Lucio: “Entrate, entrate, sono tutti qui.” Sulla porta apparve Frida con una delle ragazze che erano con lei presso la vasca del giardino, Elda. Indossava un abito semplice e molto elegante, o era lei a farlo apparire così. Blu, con piccoli risvolti di merletto ecru sui taschini, una cinta leggermente più chiara, dello stesso colore delle scarpe. Le labbra appena truccate. Elda era in celeste, a sottolineare i suoi capelli chiari. Ci conoscevamo tutti, almeno di vista. Andai incontro a Frida, le presi una mano e la feci girare su sé stessa. “Sei uno splendido figurino, una ‘signorina grandi firme’.” “Sono un’aspirante maestrina rurale.” Rispose, con quel suo particolare modo di sorridere. Lucio aveva messo uno slow, e qualche coppia cominciava a ballare. Frida mi guardava, certo aspettando che la invitassi. Eravamo nel vano della finestra. Le poggiai la mano sul fianco, come se volessi ballare, ma restai fermo. “Non so ballare” -dissi- “e non mi piace ballare, non voglio farlo solo per aver modo di abbracciare una ragazza, una qualunque. A me interesse tu, non le altre. Se vuoi, però, balla pure. Non posso impedirtelo. Resterò a guardarti, seduto su quel divano, nell’angolo.” Divenne improvvisamente seria, si accostò a me per dirmi qualcosa anche con quel contatto, qualcosa molto importante, essenziale. Poggiò la mano sul mio braccio. “Io vorrei che tu me lo impedissi, puoi farlo, devi solo dirmelo. E resterò anch’io a guardare gli altri, su quel divano nell’angolo. Vicina a te.” Era tesa, la sentivo irrigidirsi, stringermi il braccio, le labbra serrate, gli occhi come impauriti. Cingendole la vita, la condussi verso il divano. Sedemmo vicini. Mi guardò con occhi illuminati, sfavillanti, raggianti. “Ho capito” -bisbigliò- “non vuoi chiedere, agisci senza parlare, deciso, sicuro.” Allungai il braccio sulla spalliera del divano, vi appoggiò la testa e rimase così, con gli occhi chiusi. Le carezzai i capelli. Voltò il viso verso me. “Mi sento strana” -disse- “una voce, ma solo una debole e timorosa vocina, mi dice che sono più le cose che ci dividono che quelle che possono farci credere di unirci. Mi dice che la ragazza di montagna sta illudendosi. Mi invita alla realtà del presente, a immaginare il futuro. Mi sembra di naufragare, ma il naufragar m’é dolce in questo mare. Ritirai bruscamente il braccio da sotto la sua testa. Mi guardò spaventata. Cercai di sorriderle. “Scusa” -dissi- “ma la parola naufragio mi sconvolge: mia madre é morta in un naufragio e una mia compagna di classe é affogata in un lago…” Le si riempirono gli occhi di lacrime, scosse la testa, sconsolata. “Sbaglio sempre, riesco sempre ad allontanare da me ciò che, invece, desidero avere vicino. Te l’ho detto, sono una rozza montagnola.” Era bellissima. La strinsi forte a me. “Devi scusarmi tu la reazione che non sempre riesco a controllare. Tu non sbagli. Non so cosa volessero dire le tue parole, ma a me non capita di ‘allontanare’ chi desidero avere vicino. Vedi, non ti faccio allontanare, ma ti avvicino ancor più a me.” Gli altri seguitavano a ballare. “Perché non andiamo a comprare le sigarette?” Proposi. “Ma tu non fumi.” “Non importa, andiamoci lo stesso.” Ci alzammo. “Ehi gente” -dissi al gruppo- “andiamo a comprare le sigarette.” Appena scendemmo l’ultimo gradino, la luce a tempo si spense e fummo avvolti dalla penombra dell’immenso portone. La sorreggevo per un braccio. Prima di aprire il battente mi voltai verso lei e la strinsi tra le braccia, la baciai. Ricambiò con dolcezza, deliziosamente spontanea, appassionata, dopo un istante d’indecisione che era solo l’incertezza dell’attesa. I miei giorni scorrevano regolari, pur sempre improntati da una certa agitazione interiore che pur riuscivo a non far trasparire. Non era possibile dimenticare il passato, ma il mi presente mi offriva una casa comoda, tranquilla. Ero circondato da premurose cure, affetto. Il luogo dove vivevo. le usanze, le tradizioni, le superstizioni, non agevolavano la soluzione dei sempre più pressanti problemi propri della mia età. Ufficialmente, non si doveva parlare di attrazione sessuale, di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio o del ‘casino’. Ragazzi e ragazze si sentivano attratti sessualmente, ma ne parlavano poco, quasi per niente. Solo alcuni osavano lasciarsi andare a complicati e insoddisfacenti… ripieghi. Non sapevo se era normale, ma per me sesso e amore erano cose del tutto distinte. Non avevo idee chiare, e cercavo di comprendere, di spiegare a me stesso il mio pensiero confuso. L’amore era la persona con la quale avrei voluto essere sempre insieme, giorno e, soprattutto, notte. Era Marcella. Ma che significava, allora, Bagnaia? Era amore anche quello? O forse tutto era accaduto perché non riuscivo a capire i miei sentimenti? Frida mi piaceva, desideravo carezzarla, baciarla, sentirla vicina, passeggiare con lei, andare al cine con lei, avrei anche desiderato ripetere l’esperienza di Bagnaia. L’amavo? Avrei voluto porre la domanda, ma a chi? Avrei voluto chiedere, ‘credo che non ci sia amore senza sesso ma che possa esserci sesso senza amore, é vero?’ Lidia aveva qualche anno più di me, s’era sposata ancora adolescente. Aveva messo al modo due figli, a brevissima distanza di tempo. Poi il marito era stato richiamato alle armi, era andato lontano, oltremare. Arrotondava quanto riceveva dal Governo venendo ad aiutare la mia famiglia nel disbrigo delle faccende domestiche. Era una femmina giovane e bella, carne palpitante, fremente per l’insostenibile lunga vedovanza di fatto. Un corpo fiorente, il volto del desiderio, occhi lampeggianti, narici vibranti; fianchi e petto provocanti. Nessuno era riuscito a portarsela a letto. Era troppo rischioso. Se si fosse risaputo in giro, sarebbe stata la fine per lei. Non era nemmeno facile organizzarli, i convegni dei quali lei soffriva indicibilmente la mancanza. La cosa accadde una domenica mattina, mentre tutti erano fuori casa ed io ero rimasto pigramente a poltrire, semiaddormentato. Lidia indossava una specie di camice, abbottonato sul davanti, ed evidentemente non altro. Entrò nel mio letto come una furia. Non dovette fare molto per eccitarmi. Lo ero già, e molto! Si scatenò senza curarsi di me, delle mie reazioni. Come chi, arso dalla sete, scorga una fonte e vi si getti sopra ingordamente, bevendo lunghe, golose sorsate, senza neppure riprendere fiato, senza pensare al dopo. Volle rifarsi del troppo lungo digiuno, divorandomi completamente. Quando, sfinita, si ravviò i capelli, si passò la lingua sulle labbra, si chinò a baciarmi voluttuosamente, facendo scendere la mano su di me, come volesse assicurarsi di qualcosa. Allargando le narici mi sussurrò: “Dovete venire a casa mia, quando volete, ma dovete venire. Vi aspetterò sempre. Il pomeriggio sono sola, mia madre é al lavoro e i bambini sono all’asilo. Dovete venire, siete bellissimo, io vi voglio…” Io la volevo più di lei- La tenni supina, mi afferrò il sesso e, cupida, lo indirizzo alla sua vagina bagnata, che palpitava golosa. Alzò il bacino per ricevermi meglio, andò sempre più dimenandosi, non riuscendo a soffocare il gemito che usciva dalle sue labbra dischiuse. Era bellissima, gli occhi chiusi, il nero sei capelli sparso intorno, le sue prosperose tette che carezzavano il mio petto coi due grossi capezzoli che sembravano volermi graffiare. Mi mungeva impetuosamente e quando si sentì inondata dal mio seme, s’abbandonò del tutto. Non immaginavo una tal furia in una femmina. Ma era bellissimo. Mi guardò rapita, mi baciò voluttuosamente. Si alzò e si rivestì. Lidia fu, per me, la scoperta della donna, forse é più esatto dire della femmina. Mi piaceva vederla nuda, baciarle il seno, carezzarla, nascondere il mio volto nel tepore accogliente del suo grembo, sentirmi in lei, sentirla su me, gemere, perdere ogni controllo, abbandonarsi sfinita. Mi piaceva il suo respiro affannoso che andava acquietandosi pian piano. Mi piaceva come mi spogliava, come mi lavava, mi asciugava, mi rivestiva. Ma non sentivo di amarla. Forse era così anche per lei. Non mi mancavano i soldi, ma cercai lo stesso di fare qualche lavoretto. Avrei realizzato qualche economia per l’estate, avrei fatto qualche regalino a Lidia. Non mi fu difficile. Nelle ore libere, riordinai una biblioteca, collaborai con l’esattoria comunale d’un paese vicino, che mi dava del lavoro da fare a casa, riportai sui registri d’un ufficio pubblico i dati delle schede di rilevazione. Nel contempo, studiavo intensamente perché, senza averlo ancora detto a nessuno, intendevo recuperare l’anno perduto. C’erano, poi, le passeggiate e il cinema con Frida, le sempre più audaci carezze, il sempre più condiviso desiderio di fare l’amore. C’erano le piacevoli, appaganti e liberatorie visite a Lidia. Il diploma fu conseguito con voti lusinghieri. Mi accorsi, allora, che non c’erano motivi validi per restare in quella città. Non era lì che volevo lavorare, e volevo iscrivermi all’università. Un programma ambizioso nel quale, però, non c’era posto per Frida. Lidia, invece, me la volevo tener buona per le volte che sarei tornato in famiglia, anche per questo le feci un bel regalo, e le promisi che sarei tornato spesso, proprio per lei, e che la distanza avrebbe acuito il desiderio e reso ancora più belli i nostri appassionati incontri. Frida, in attesa di fare la maestra rurale in una frazione del suo paese, era assistente in una colonia estiva. Con tanti aiuti e un po’ di fortuna trovai un posto nella città che sognavo e mi iscrissi all’università. Dopo appena una settimana, Lidia venne a trovarmi, e passammo la notte nella modesta camera d’un alberghetto, nei dintorni della stazione. L’aveva trovato lei, appena scesa dal treno, prima di presentarsi al mio ufficio. Aveva messo il vestito che le avevo regalato io. Aveva inventato una scusa, alla madre, le aveva detto che doveva andare a vedere perché non le aumentavano l’assegno di sussistenza. Fu più scatenata che mai, una vera piovra, insaziabile. Non volle che l’accompagnassi al treno perché qualcuno avrebbe potuto vederci insieme. Volle pagare tutto lei. Prima di lasciarci, alla stazione, mi disse fremente che sperava di restare incinta, avrebbe voluto un figlio da me, “come voi”, concluse, “e non m’importa della gente”. Non mi aveva mai dato il ‘tu’. Ho incontrato ancora l’esuberante Lidia, sempre più decisa a voler concepire il ‘figlio d’un signore’, ma l’ooforite l’aveva resa sterile dopo la nascita della seconda bambina. Dal giorno che andai nella grande città non ho più smesso di lavorare. A un certo punto la Patria in guerra decise che dovessi servirla, mi chiamò e disse che ero ‘volontario’. Misi poche cose nella valigia, in tasca la spilla di Marcella, e viaggiai verso la caserma che sorgeva ai bordi d’una vasta distesa d’acqua. Erano trascorsi tanti anni da quando ero entrato in quella caserma. Anni durante i quali la guerra era passata come un vento distruggitore, su tutta la penisola, su gran parte dell’Europa. Tante cose non c’erano più. Tante persone non rispondevano all’appello. Scomparsa la casa dove avevo abitato prima di andare in Etiopia. Scacciati gli Italiani dall’Africa. Eliminato il regime che aveva governato per oltre vent’anni. Scacciata la monarchia. Minati i campi intorno alla scuola rurale di Frida. Scomparso il marito di Lidia. Sparpagliati in cimiteri di guerra e in altre sedi i miei compagni di scuola, i miei compagni d’arme, i miei soldati. Ricostruiti i paesi diruti, restituiti alle messi i campi devastati. Distribuita qualche medaglia al valore, anche a chi la meritava veramente. Era la mia prima visita alla sede di Firenze della società della quale ero a capo da alcuni giorni. Nell’incontro coi dirigenti locali, i programmi che avevo esposto erano piaciuti, e le persone s’erano dichiarate liete d’essere coinvolte nella loro realizzazione. Uscendo dalla grande sala dell’antico palazzo patrizio, mi sembrò di scorgere, nell’ufficio di fronte, attraverso la porta socchiusa, qualcosa che mi faceva fare un lungo salto indietro nel tempo. Ma forse era solo immaginazione. Erano passati tanti anni. Mi avvicinai piano, spiai dentro. Era con la testa china su un voluminoso incartamento e, con la matita colorata tra le dita affusolate della mano delicata e curata, andava sottolineando qua e là. Lo stesso colore di capelli, la stessa linea del volto. Alzò il viso verso me. Sorrise. Lo stesso sorriso, gli stessi ‘occhi di cielo’. Credetti sognare. “Rosetta!?” Si alzò e mi vene incontro, come faceva allora, come se ci fossimo lasciati ieri. La strinsi con infinita tenerezza tra le braccia, sentii la sua guancia sul mio volto. La stessa voce. “Sapevo che eri tu il nuovo grande capo. L’ho appreso subito. Ho letto la tua lettera di saluto e buon lavoro a tutti. Ne ho riconosciuto lo stile, lo stesso dei temi che scrivevi per me. Ho chiesto in giro, a chi era venuto da te, dell’amministratore delegato, ed ho avuto la conferma che eri tu, sempre tu, il mio ‘orso’, ma non ti sono venuta a cercare. Oggi, ho volutamente disertato il meeting. Perché rivederti se non sei più mio? Ho anche pensato di chiedere il trasferimento in un altra società del gruppo.” “Rosetta. Incontrarti. Il più bel dono che abbia mai avuto.” “Più della spilla che portavi sempre con te?” “E’ tutto diverso, Rosetta. Se riuscissi a spiegarmi, a farmi comprendere, accetteresti la spilla che ho sempre con me, e la terresti tu, da ora in poi, per sempre. Mi accorgo d’essere egoista. Dico cose che interessano solo me, Avrai una tua famiglia, non sei come me. Io ero e sono restato l’orso solitario della Floridiana.” “Non ho nessuno, orso. I miei genitori sono stati scavati dalla macerie dopo giorni e giorni di ricerca. Fiorenza insegna a Padova, Mio fratello é negli Stati Uniti.” “E dove abiti?” “Ho una piccola villa ad Arcetri. Una donna la tiene pulita e cura i miei fiori. Io passo le mie serate tra i libri. Perché non vieni a vederla? Ma già, tu sei abituato agli alberghi di gran lusso…” Bussarono alla porta. Rosetta disse di entrare. Entrò il Direttore di Firenze. “Dottore, vogliamo andare a colazione? Vedo che lei ha avuto occasione di conoscere la nostra brillante e preziosa ‘esperta finanziaria’, la nostra Rosetta che ha disertato il primo incontro con lei. Mi auguro che l’abbia giustificata.” “La conosco da anni, ingegnere, eravamo compagni di classe, e non ci vedevamo da allora. Spero che vorrete comprendermi e scusarmi se vi prego di andare voi, a colazione. Ci incontreremo qui domattina, per concludere i nostri lavori, ai quali parteciperà certamente anche Rosetta. A domani.” Falsetti era una persona discreta e gentilissima. “A domani, dottore. E buon ritorno ai ricordi d’un tempo.” Uscì e chiuse la porta dietro di sé: Rosetta guidava calma. Io dovevo farmi forza per non toccarla, stringerla a me, carezzarle i capelli. Il tempo non sembrava trascorso per lei. La giovane studentessa s’era trasformata in una donna ancor più splendida, sulla quale gli anni erano scivolati come un balsamo vivificante. “E’ veramente una donna di classe”, aveva detto mio zio. Quasi non credevo che potesse essere Rosetta, era troppo giovane, forse era sua figlia. Glielo dissi. “Se avessi avuto una figlia non poteva essere che la tua, orso.” La guardavo ammaliato, incantato. Condusse l’auto presso l’antico ristorante, lasciò le chiavi al ragazzo che le venne incontro, salimmo al piano superiore, sedemmo al tavolo vicino alla finestra dalla quale si dominava la valle. “Ti affidi a me?” E mi carezzò la mano. Senza attendere risposta ordinò il mio piatto preferito. Non aveva dimenticato nulla. “Parlerò io” -proseguì- “perché so bene quanto non ti piaccia parlare , e so anche che non ami quelli che parlano troppo. Mi domando, però, come fai nelle riunioni a convincere tutti, a incantare tutti, quasi senza dire motto.” E mi raccontò i suoi studi, le sue ricerche. Gli ‘occhi di cielo’ mi fissarono intensamente quando parlò della sua scelta di restare sola, di non aver mai accettato neppure una parola galante. “Tu mi comprendi” -disse- “ma io non avevo neppure una spilla da stringere, e la collana di corallo, quella che mi volesti regalare a Torre del Greco, é restata sotto le macerie.” La villetta era molto bella, tenuta con la massima cura. “Se vorrai tornare in albergo ti accompagnerò io. Ma questa sera ceni con me, poca cosa. Ti preparerò una pizza come quella che mangiavamo insieme, da Mattozzi. Forse sarà meno buona.” Ero sul divano a fiori, le tesi la mano, l’attirai sulle mie ginocchia. “Non tornerò in albergo, Rosetta, voglio restare qui. Mi accontenterò di questo divano. Fammi restare qui.” Le labbra di Rosetta erano infuocate, le sue dita mi carezzarono il volto. S’alzò, salì al piano superiore. Dopo un po’ mi chiamò: Era dinanzi alla bella porta di legno che portava nella vasta camera appena illuminata da una morbida luce che filtrava dai lumi sapientemente disposti. Fuori della finestra il cielo era scuro, carico di nuvole. L’imponente letto di ottone aveva le coperte rivoltate, da entrambi i lati. Su una poltroncina, ai piedi del letto, era poggiata una candida e vaporosa camicia da notte; sull’altra una elegante vestaglia rosso bordeaux. “Mai nessuno ha dormito tra queste lenzuola” -disse Rosetta- “mai nessuno ha indossato quella camicia. Quella vestaglia ti attende da sempre.” L’amavo pazzamente e desideravo sentirla mia. Sì, é così, tra un uomo e una donna non c’é completo amore senza sesso. Rosetta guardò il letto, in silenzio. Volse la testa verso la finestra, dove il cielo andava sempre più incupendosi, mi guardò con profonda tenerezza. “Mai nessuno ha mai dormito con me, orso. Fino a questa sera.” Al mattino, ancora presto, sentimmo bussare insistentemente al portoncino d’ingresso. Picchiavano con la mano, col battente di bronzo. Cercai di accendere la luce, la lampadina restò spenta. “Rosetta” -le sussurrai nell’orecchio, baciandole i capelli- “c’é qualcuno alla porta. Manca la luce. Posso andare io a vedere chi é.” Si voltò sorridendo, ancora presa dal sonno che era durato troppo poco. Stava ricordando…. ebbe un bagliore nei suoi splendidi ‘occhi di cielo’… lo percepii anche se la camera era quasi buia. Mi baciò forte sulle labbra, stringendosi a me col tepore della sua pelle. “Grazie, amore, grazie.” Cominciò ad alzarsi, svogliatamente. Splendidamente nuda nella penombra della camera. “Indosserò la tua vestaglia. Torno subito. Aspettami, non alzarti. Dopo indosserò la camicia da notte e tu vi appunterai la spilla che porterò sempre con me. Aspetta, amore.” Sentii scricchiolare la scala di legno, l’aprire della porta, e una voce, alterata, spaventata, che gridava: “l’Arno é straripato, Firenze é invasa dall’acqua, c’é pericolo che scompaia, l’acqua sta cancellando tutto…” L’acqua
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