Io e Carolina eravamo membri del Collettivo operai-studenti che aveva deciso di fare politica in tre settori: i disoccupati, gli operai del cementificio e i marinai delle navi traghetto delle ferrovie dello stato. La questione non era casuale, ma rispondeva ad una teoria e ad una linea d’azione da essa discendente, almeno nella nostra testa, e bisogna dire che poi i risultati dimostrarono che avevamo perfino ragione. Sia come sia, le continue distribuzioni di volantini davanti alla fabbrica, in corrispondenza della scadenza del contratto collettivo, avevano portato all’evento sorprendente che i nerboruti operai, una sera, ci avevano detto che andava bene ciò che scrivevamo sui volantini e che quindi volevano fare una riunione con noi per discutere sul da farsi. Noi del collettivo, c’erano in effetti alcuni giovani operai, oltre alla maggioranza di studenti, avevamo un’età media di forse vent’anni solo perché io che ne avevo ventiquattro e Carolina che ne aveva ventidue, alzavamo la media e, sebbene io pensassi che, fossi stato uno degli operai della fabbrica, non mi sarei fidato degli sbarbatelli che gli stavano davanti, dato che stavamo in ballo, raccolto tutto il coraggio possibile da luoghi che neanche avevo saputo che esistessero, mi ero acconciato a fare il dirigente operaio. Per fortuna non c’era molto da decidere: c’era da organizzare la lotta, soprattutto i picchettaggi per gli scioperi e quello lo sapevamo fare, essendoci divertiti per un anno all’università. Inoltre lo sapevano fare anche gli operai che vedevano in noi, sia un appoggio esterno, che i sindacati sembravano per chissà quale oscura ragione, non volergli dare, sia una carica di giovane ottimistica incoscienza che molti di loro avevano perso. C’è da dire che anche se in estrema minoranza, c’erano anche giovani operai che questa carica l’avevano esattamente come noi, cosa che favorì la simpatia ed anche alcune amicizie che poi durarono per anni.Erano otto anni che al cementificio non avveniva più uno sciopero, e l’ultima volta era finita male perché l’occupazione della fabbrica, che era entrata nella storia della città per la durezza dello scontro e per il coinvolgimento di tutte le realtà proletarie della zona, non era riuscita ad impedire il ridimensionamento del personale. Certo gli operai che c’erano stati raccontavano con fierezza di quella lotta, ma poi, gira e rigira, avevano la consapevolezza di aver perso e ciò non rafforzava il morale. La prima sera dello sciopero organizzammo i picchetti perché sapevamo che alcuni crumiri sarebbero rimasti dentro dall’ultimo turno, e altri avrebbero tentato di entrare alla fine dello stesso. Io e Carolina, avevamo l’appuntamento alle dieci, avevamo deciso di andare a mangiare al ristorante e poi sulla mia macchina, una 850 coupé, eravamo andati all’entrata del cementificio. Io e Carolina non avevamo nessun rapporto sentimentale, ma si eravamo simpatici l’uno con l’altro anche se lei, a dire la verità, aveva una storia con un altro del gruppo. Non avevamo mangiato tanto, pochi spaghetti alle vongole, frittura di paranza, insalata e neanche bevuto molto, una bottiglia di Corvo di Salaparuta che non avevamo neanche finito, ma eravamo euforici. Forse era la combinazione del vino, della conversazione brillante che avevamo tenuto durante la cena, dei nostri odori e della sfida che stavamo per affrontare, fatto sta che già nel posteggiare la macchina ero finito con una ruota in un tombino scoperchiato. Gli operai mi avevano dato una mano e avevamo tirato fuori la macchina. Poi, dato che non ci eravamo fatti niente né noi né la macchina, la cosa divenne motivo di ilarità che contribuì ad allentare la tensione e a cominciare a creare un clima di solidarietà.Nelle prime ore di permanenza davanti ai cancelli non successe niente. Scambiavamo battute, per rompere un silenzio imbarazzante, alcune discrete, altre orrende e ci conoscevamo. Era un bella serata di ottobre inoltrato e noi cominciammo a tralasciare il gergo politichese che era di prammatica nelle nostre riunioni per parlare il vernacolo popolaresco del luogo. Gli operai si contenevano, perché c’era una donna, ma quando parlavano dei crumiri non riuscivano a trattenersi e poi si scusavano. La questione precipitò a mezzanotte, quando ci fu il cambio del turno. Gli operai che uscivano erano sorridenti e si fermarono a parlare con i loro compagni dell’andamento della protesta, ma un gruppetto, soltanto cinque o sei, in realtà, erano arrivati e volevano entrare. All’inizio, quando avevano visto la ventina di operai che facevano il picchetto, erano rimasti sul limite del piazzale, seminascosti nell’ombra. Poi avevano cominciato ad avvicinarsi.Quando avevano deciso di entrare a lavorare erano arrivati decisi, senza fretta. Non guardavano nessuno in faccia e i compagni di lavoro del picchetto li guardavano, sibilavano insulti, ma nessuno osava fare niente. Fummo io e Carolina che davanti all’ingresso della portineria ci prendemmo per mano e cercammo di impedirne l’entrata. Gli aspiranti crumiri si fermarono, ma uno continuò a venire avanti. Era un uomo di mezza età, alto e nerboruto. Pensai che mi avrebbe ammazzato se fossimo venuti alle mani. Avanzò come se non esistessimo e quando venne a contatto con le nostre braccia continuò a spingere senza metterci troppa violenza. Io guardavo Carolina ed ero fiero di lei. Mi sembrava che fossimo Lancillotto e Ginevra alle prese con Meligeant, ma non ero sicuro di chi fosse Lancillotto. Lei era bella, impavida. La stretta della mano mi si comunicava al cervello. La mano era calda e asciutta. Carolina ansimava soavemente. In quelle condizioni di grazia non avremmo fatto passare nemmeno un carro armato. Io sussurrai all’operaio: “Ora ti hanno visto che tu hai provato ad entrare e noi non te lo abbiamo permesso. Puoi desistere. Non sei potuto passare”. L’operaio insisteva ancora, ma con sempre minore forza. Finché qualche giovane del picchetto si unì a me e Carolina. Fu un trionfo. Vennero tutti e la catena divenne un muro. L’operaio che aveva tentato di forzare il blocco si ritirò piangendo e io sentii una gran pena per lui. Gli operai ridevano, parlavano l’uno sopra l’altro, si sentivano di nuovo di essere quelli che nel 1960 avevano occupato la fabbrica per quaranta giorni tenendo in scacco padroni, capetti e polizia. Io, ma soprattutto Carolina, divenimmo gli eroi della serata. Io ero rimasto prigioniero dei suoi occhi e non riuscivo più a togliermi dall’estasi.Più tarsi, eccitati dall’impresa, decidemmo di andare a tagliare le gomme delle macchine dei crumiri che non erano usciti al cambio del turno: “Così dovranno ripagare quello che guadagnano col crumiraggio”, fu la ragione della sentenza. Carolina volle partecipare, sebbene le avessi chiesto se volesse andare a casa e l’attuazione del piano ci rese ancora più euforici.Carolina era rossa per l’eccitazione e per la consapevolezza di essere ammirata sfrenatamente da un tale insieme di maschi guerrieri. Alle quattro di mattina, arrivato il cambio, per noi, mi accinsi ad accompagnarla a casa, ma l’eccitazione era tanto che non sentii nessuna remora a chiederle se voleva venire a casa mia. E lei nessuna, almeno apparentemente, ad acconsentire. Cercammo di fare piano, tentando di soffocare con poco successo le risate e quando fummo in casa ci liberammo dei vestiti spargendoli per tutto il pavimento. Facemmo all’amore appassionatamente e disordinatamente e, soprattutto, allegramente. Ogni carezza era motivo di risa, ogni trasgressione ci rendeva più euforici. Quella notte potevamo fare tutto senza esitazione. Era come se conoscessimo i nostri anfratti e le nostre protuberanze da sempre. Tutto il resto della notte e tutta la mattina seguente continuammo a fare l’amore. Ci addormentavamo, ci svegliavamo e ricominciavamo. Molto prima che finissimo mi era finito lo sperma; provavo un orgasmo veloce e intensissimo e non usciva niente. Carolina ricambiava strenuamente. Quando ci alzammo alle tre del pomeriggio, entrambi, ancora esilarati, avevamo fatto il conto e risultarono diciassette scopate. Entrambi eravamo stupiti perché avremmo pensato, prima della performance, che ciò fosse impossibile, ma nello stesso tempo eravamo fieri e felici per il record, almeno personale, di entrambi, che avevamo battuto.La storia tra me e Carolina è continuata. Lei ha seguitato ad essere bella, intrepida e determinata. Ogni tanto le ricordo del numero delle scopate di quella notte e lei sorride e arrossisce. Non abbiamo mai trovato nessuno che abbia vantato un simile primato che, neanche noi, d’altronde, abbiamo più uguagliato. Una volta ad una cena con degli amici molto cari, eravamo ormai alticci per le numerose libagioni, dissi, si parlava di sesso, che mi ero fatto, una volta, diciassette scopate di seguito. Tutti mi prendevano in giro. Carolina, nonostante l’alcool, era arrossita e guardava in terra. Ma quando io dissi: “E’ inutile che sghignazzate, ho il teste. È vero quello che dico, Carolina?” Lei ancora più rossa, turbata e vergognosa disse con un filo di voce, ma chiaramente, in modo che nessuno potesse dire di non aver udito: “Si, è vero, c’ero anche io!”
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