Mi agganciò affannosamente, con irruenza, per il braccio. Sobbalzai letteralmente, immerso com’ero nei miei pensieri. Stavo percorrendo, per la solita passeggiata, la piazza principale della mia città. Era il solito meriggio autunnale. Il selciato era ricoperto dalle foglie rinsecchite dei ficus beniamina, che leggermente crocchiavano sotto le scarpe. Il sole dardeggiava i suoi ultimi strali di fiamma sulla cupola più alta degli alberi. Io mi godevo quei momenti, anche se, talora, improvvisamente, il mio cuore si stringeva di tristezza forse più che di malinconia. Era bella, superbamente bella. Una giacca indiana di camoscio con le falde sfrangiate su una gonna lunga anch’essa di camoscio come gli stivaletti che calzava ricopriva un fisico snello, flessuoso, alto, qualche centimetro più di un metro e settanta. La giacca, leggermente schiusa, lasciava intravedere una camicetta bianca a fiori azzurri. Aveva i capelli biondi come il grano maturo, tagliati due, tre dita sotto le orecchie, e gli occhi, che mi parlarono imploranti, erano d’un azzurro più terso d’un cielo d’estate a mezzogiorno. L’ovale del viso era perfetto e le labbra piene, carnose, che spiccavano come due rose in mezzo ad un fascio di margherite bianche, arricchivano quel viso spaventato d’un velo arrogante di sensualità. “Per piacere, signore, non si giri, faccia finta di essere mio padre”, disse precipitosamente con affanno. Se le sirene avevano davvero una voce tale da incantare il più refrattario dei naviganti, quella voce appena arrochita sicuramente le superava nel canto. Non aveva certamente più di vent’anni e mai mi era capitato di vedere esplodere un fulgore di giovinezza in modo così straripante dall’aspetto d’una donna. “Poco distante da noi c’è un teppista che mi ha assediato con le frasi, gli atteggiamenti più volgari, tentando di ghermirmi dappertutto. Le persone lo vedevano, sentivano le mie intimazioni di lasciarmi in pace, ma nessuno è intervenuto. E’ quasi un quarto d’ora che mi assilla. Ho il cuore che mi scoppia più per la rabbia che per la paura e le volgarità subite. Ho visto lei e, istintivamente, ho sentito che potevo fidarmi, che poteva essere il mio rifugio. La prego, faccia finta di essere mio padre”. E, senza darmi il tempo nemmeno di replicare, mi allacciò le braccia al collo e mi sfiorò la guancia con un bacio. Chiunque ci avesse osservato avrebbe creduto di vedere in quella giovane donna una ragazza che sicuramente si trovava ad avere un appuntamento col padre. Portavo più che bene i miei cinquantaquattro anni, ma quella bellissima fanciulla si era aggrappata a me con il medesimo atteggiamento, con lo stesso affettuoso slancio, con cui una figlia si sarebbe aggrappata a un padre. E come padre e figlia continuammo, senza girarci, a camminare. Io dovetti fingere che lei non mi aveva messo al corrente del teppista, anche se avevo voglia di girarmi, vedere in faccia il tipo e magari rompergli la faccia. Ero ancora in grado di farlo, nonostante la mia età. Continuavo ancora a frequentare la palestra di shorinji-kempo e il mio fisico era ben allenato e scattante. Avevo lasciato l’Alitalia da circa dieci anni, e per venti avevo fatto il pilota di linea. Per un paio d’anni avevo lavorato in un’agenzia di viaggi. Poi mi ero stancato e mi ero messo in “pensione”. Mi ero rifugiato nella mia villa, costruita sul cocuzzolo di una collina, tra le più panoramiche, che attorniavano la mia città, e, in quella serenità accarezzata dal fruscio degli alberi e, a partire dalla primavera, dal trillare degli uccelli, incominciai a scrivere delle guide turistiche relative ai tanti paesi che avevo conosciuto nella mia attività di pilota. Avevano avuto successo e, benché non avessi un grande bisogno economico, mi davano una grande gratificazione morale e intellettuale. Di tanto in tanto allacciavo qualche relazione sentimentale, ma schivo com’ero, finiva rapidamente, com’era accaduto così in tutta la mia vita. Era quasi un impormi di innamorarmi, ma, proprio perché si trattava di un’imposizione, la donna che mi stava accanto finiva per intuire che c’era nel profondo del mio cuore un piccolo lago di ghiaccio che non si lasciava sciogliere. Così il rapporto smoriva, come un tramonto in un cielo imbronciato. Avevo conosciuto l’amore, quello che ti incanta, che ti scuote il cuore e ti lascia raggiante dentro l’anima anche quando lei non è vicino a te. La avevo conosciuta tra i ventitré e i venticinque anni, proprio al tempo in cui avevo vinto il concorso all’Alitalia e fui trasferito di botto a Linate, l’aeroporto di Milano, ad un galà di matrimonio di un mio carissimo amico. Era un sogno di una notte di mezza estate. Fu un amore a prima vista, così intenso da parlare subito di matrimonio. Lei era la figlia unica di un imprenditore di laterizi. Era iscritta in lettere classiche e voleva specializzarsi in archeologia. Non potevo rinunciare al mio sogno di pilota. Io mi ero da poco laureato in ingegneria elettronica e lei voleva che rimanessi in città, dove, tramite suo padre – anche se questi avrebbe preferito che la figlia si sposasse con il figlio del suo socio,- avrei trovato subito occupazione in una fabbrica abbastanza importante di apparecchiature elettroniche e con uno stipendio per nulla inferiore a quello che avrei percepito come pilota. Avevo sognato da bambino di fare il pilota. Se lei mi avesse davvero amato, avrebbe potuto, una volta laureata, seguirmi a Milano e lasciarmi realizzare il mio sogno. Così mi dicevo. E lei a tentare di farmi capire che la professione di pilota era incompatibile con il nostro amore e i nostri progetti matrimoniali. Che io sarei rimasto più nei vari alberghi del mondo che nella nostra casa di sposi. E che lei non avrebbe potuto sopportare di vivere giorni e giorni in solitudine e con la paura che, magari, sedotto da qualche bella hostess, avrei finito per lasciarla, lontano dalla sua famiglia e con qualche figlio in più. “Ma, se tu dovessi riuscire a lavorare come archeologa, il tuo sogno da bambina, che faresti, rinunceresti?”, obiettavo io. “Nel modo più assoluto. Quello era il sogno che facevo prima di incontrare te. Il mio sogno ora sei tu. Cercherò un posto al museo, ai beni culturali, farò l’insegnante, ma certamente non me ne andrò alla ricerca di tombe lontane”. Non capivo o non volli capire. O forse fu lei che non volle capire. Con la morte nel cuore, con gli occhi scavati dall’insonnia e dal dolore, con le lacrime che grondavano dai suoi occhi come fiumi in piena, lei mi lasciò. Io scelsi l’aviazione e partii. Ma la parte più profonda di me rimase lì, legata a quell’abitacolo d’argilla che madre natura aveva fatto donna bellissima, appassionata e caparbia. Lei si era presa la mia anima e io non riuscii più a farmela restituire. Non seppi più nulla di lei o, meglio, non volli saperlo. Ma, se le mie mani, le mie labbra, il mio sesso conobbero donne magnifiche, donne che avrebbero persino toccato il cuore dei serafini, quello mio rimase chiuso. Schiudeva la porta ai primi chiarori dell’alba, ma, appena capiva che il sole voleva forzarne l’uscio e sciogliere il gelo che ne costringeva la parte più nascosta, scorbuticamente la rinchiudeva.Come dicevo, ci incamminammo e ci mettemmo poi a discutere del più e del meno. Era iscritta in Scienze politiche, al corso di giornalismo, e desiderava, un giorno diventare giornalista di “Repubblica” e, se i tempi fossero cambiati in meglio, alla Rai. Parlava con me come se mi avesse conosciuto da sempre e io mi abbandonavo alle confidenze come se davvero fosse stata mia figlia. Il fatto era che ero abbagliato dalla bellezza, dall’intelligenza e dalla semplicità di quella ragazza. E, forse, nel mio cuore, la sua immagine, i suoi discorsi, la sua gioventù, il suo semplice abbandono, fece riaffiorare l’amore mai dimenticato. Quando giungemmo davanti al portone del palazzo in cui abitava, mi resi conto che non avrei potuto più fare a meno di lei. Non mi sentii, però, il coraggio di chiederle un appuntamento. Non tanto per la notevole differenza d’età, quanto per non apparire approfittatore. L’avevo salvata da un molestatore, per prenderne il posto travestito da buon samaritano. Era troppo meschino. Quando, però, le tesi la mano per salutarla, ancora una volta inaspettatamente, lei mi abbracciò e mi sfiorò con un bacio la guancia. “Certamente domani ci vediamo”, mi disse. “Le va di cenare insieme con me? Il posto scelga lei. Mi fido”. Restai lì per lì senza parole. “Aura, io”, balbettai. “Sicuro, mi viene a prendere qui domani sera alle sette e mezza. Sia puntuale, mi raccomando, comandante”. “Ci puoi scommettere, dolcissima fanciulla, ci puoi scommettere” e ricambiai il suo bacio. Chiuse il portone alle sue spalle e io rimasi imbambolato a fissarlo per qualche minuto, quasi a volermi rendere conto che quanto era accaduto era stato reale e non un frutto di un mio sogno agognato. II Da quella sera io e Aura cominciammo a vederci ogni giorno e ogni volta che mi si schiudeva dinanzi agli occhi era un tuffo al cuore. E sentivo che la medesima cosa era di lei. Gli occhi le brillavano come le cupole birmane al riflesso del sole a mezzogiorno. Tutto gioiva in lei soltanto nel vedermi. Eravamo forse perdutamente innamorati? Per parecchi giorni e settimane non ci ponemmo questo problema. Sapevamo che era un bisogno più forte di noi quello di stare insieme. Avevamo bisogno di parlarci, di raccontarci le cose più banali o di intrecciare discussioni di alto livello politico, storico, filosofico. E non ci accorgevamo di altro. I suoi occhi, il suo sorriso, il suo agitare deliziosamente le mani mentre parlava o i miei occhi che la bevevano incantati e sorridenti, il mio fermarmi per rimirarla per lunghi minuti mentre discutevo accalorato, le mie mani che istintivamente la trattenevano per il braccio, questo solo contava. E gustavamo, sorseggiandoli esasperatamente, i minuti che ci vedevano passeggiare per il viale, sul lungomare, nei giardini pubblici, nella speranza che durassero all’infinito. Quando, dietro il portone del palazzo in cui abitava, lei scompariva, era come se il mondo si fasciasse di nero. Di colpo, una coltre di tristezza invadeva il mio cuore e mi sentivo sfinire. E la medesima cosa, mi accorgevo, accadeva a lei. Le sue guance, così accese di porpora, si incupivano, gli occhi si velavano di malinconia e anche il suo cuore si colmava di tristezza. Era come se non ci fossimo dovuti vedere il giorno dopo. Ma non era così. Ogni pomeriggio, alle sei, ero dietro il portone ad aspettarla, ogni sera alle sei del pomeriggio lei era davanti al portone ad aspettarmi. “Aura” ed era un sospiro gridato il mio. “Livio” ed era un sospiro gridato il suo. “Che hai fatto oggi?” la reciproca domanda. E di lì a centellinare i pensieri, le sensazioni, i fatti che avevano scandito tutti gli istanti del tempo che non ci avevano visto insieme.”Livio”, mi disse un pomeriggio, qualche minuto dopo che ci eravamo incamminati, “non aspettarmi più dietro il portone. C’è mamma, che, avendo capito che esco con qualcuno, muore dalla curiosità di vederti. La conosco. Sostiene di essere aperta. Se vedrà che sei così molto più grande di me, mi tormenterà per giorni. Io le voglio tutto il bene del mondo e non me la sentirei di polemizzare ogni giorno con lei. Oh, se tu fossi più giovane, sarebbe meno apprensiva. Quelle rarissime volte che ho fatto amicizia con dei ragazzi, lei li ha voluti conoscere presto e ha voluto sapere di loro vita, morte e miracoli. Capisco la sua apprensione. Conosci ormai la nostra vita. Non ha fiducia negli uomini. ‘Gli uomini in una donna cercano essenzialmente una cosa. Noi, se amiamo saremmo disposte a rinunciare a tutto pur di vederli sorridere. Loro no. Sarai la loro nutrice, la loro madre, la loro amante, ma non la parte complementare della loro vita. Se deve mettere sul piatto della bilancia il lavoro sognato o che da’ prestigio e potere e l’amore per la propria compagna, un uomo opta senza titubanze per il primo. Gli uomini amano solo col il pene, figlia mia. Il lavoro, i soldi, il prestigio, il potere, sono solo questi coboldi a stregare il loro cuore. Del resto si dimenticano, o, come preferiscono dire loro, si distraggono. Vedi tuo padre: dice di smaniare per te, ma quando ti cerca? Solo quando ha un momento di vuoto nella sua vita o ha bisogno di qualcosa. Soprattutto, se ha qualche decimo di febbre. Allora, Aura sola riesce a farlo vivere, Aura sola è la luce dei suoi occhi, ‘che farei senza Aura?’. Piccini, eternamente piccini, e incommensurabilmente egoisti’. Così, ogni tanto sentenzia mia madre. E’ anche vero che mio padre non fa sforzi eroici per vedermi. Ma so che mi vuole davvero molto bene, anche se mia madre non è di questo avviso. Mio padre è così, pigro, indolente, ha bisogno d’una compagna materna, che è poi quella che, infine, si è scelta e, forse, non ha avuto tutti i torti nel divorziare da mamma. Non si sentiva amato davvero. E, oggi, che sono in grado di comprendere, so che aveva ragione. Lui avrebbe voluto altri figli, quelli che l’attuale compagna gli ha dato. Mamma non ne ha voluto più, di figli. Di qui, la sua indolenza, che diventò solitudine. Mamma è stata sempre molto dura con lui. Credimi, da quando sono stata in grado di ragionare con la mia testa, mi sono sempre chiesta, e, talora, l’ho chiesto pure a mia madre, che è stata sempre evasiva su questo, perché si fosse sposata con mio padre, se non ne era innamorata. Mi è difficile pensare che lo abbia fatto per interesse. No, non ti ho ancora detto che mio padre era il figlio del socio di mio nonno, sì proprio il figlio. Certo, si sarà forse pensato che il matrimonio fosse stato contratto per interesse. Tuttavia, non riesco, conoscendo il carattere di mia madre, a vederla sposata per interesse. E, però, non capisco perché abbia sposato mio padre. Sta di fatto che, da quando si separò, non c’è stato un uomo nella vita di mia madre. Non so se ne sarei stata gelosa, però, quante volte l’ho consigliata di uscire dalla sua diffidenza verso gli uomini e pensare ad un nuovo compagno. Non c’è stato nulla da fare. E’ chiusa nella sua corazza di acredine verso gli uomini, e un po’ di questo suo risentimento finisce per riversarlo sulle persone di sesso maschile che mi frequentano. Davvero, Livio, ignoro le ragioni del risentimento di mia madre nei confronti degli uomini. Non sono, comunque, da addebitare a mio padre. Se persona c’è che dovrebbe essere risentita è proprio lui, non viceversa. Il suo risentimento nasce da ragioni profondamente diverse, che non ha mai voluto parteciparmi. Figurati, se vedesse che mi accompagno con te. Non capirebbe. No, non capirebbe proprio. Così, evitiamo che lei se ne crucci e che crocifigga me: ci incontreremo molto lontano da qui. Ne convieni?”. Ero rimasto così preso dal suo discorso che quasi sobbalzai per il silenzio scaturito, finito che ebbe di parlare. Aura scambiò il mio silenzio per disappunto. “Me ne vuoi, per questo?”, chiese titubante con una nota di preoccupazione nella voce. “Non pensarlo nemmeno, mia bellissima fanciulla. Ci possiamo vedere in qualsiasi luogo. Se mi fosse dato di volare insieme a te sulla stella più bella e più lontana, per la gioia soltanto di starti vicino e solo contemplarti, volerei con te su quella stella. No, riflettevo. Aura, non mi hai ancora detto come si chiama tua madre”. “Viviana”, rispose sollecita lei, con un interrogativo nella voce. “Viviana, e poi? Il cognome intendo”. “Martelletti. Perché ti interessa il cognome di mia madre?”. Come facevo a dirglielo. Mi comportai da vigliacco e mentii. “Sai che sono vissuto in questa città fino a quando non dovetti andare via per la mia professione di pilota. E mi chiedevo se tua madre fosse una delle ragazze che allora frequentavo”. Era stato uno straccio nel tempo, abbagliato da un fulmine violento. Suo nonno, il figlio del socio di suo nonno. Non era possibile. Ero visibilmente stordito e tentai di tutto per non farglielo capire. Come avrei potuto confessarle che sua madre era la donna che mi aveva abbandonato per il mio sogno di volare. Come avrei potuto spiegarle che il risentimento, la diffidenza per gli uomini risalivano certamente a quel lontano giorno in cui, tra lei e il volo, io scelsi quest’ultimo? Aura per me era diventata la mia “aura”, il mio respiro. Riempiva il vuoto della mia anima. Quel buio, quella macchia nera, che affogava il mio cuore nella sua parte più segreta, s’era stemperata, quasi scomparsa, e il merito era suo. Io non sapevo se era la sua gioiosa giovinezza, la sua straordinaria bellezza unita alla sua semplicità nel mostrarla, la sua incantevole cultura, o il fatto che ne fossi perdutamente innamorato, – perché come avrei potuto definire quella sensazione di raggiante esplosione di benessere, di gaudio, nel mio petto, se non col termine amore?- che mi costringevano a bere il suo respiro, il suo sorriso, le sue parole, la sua presenza. So solo che senza di lei la mia vita sarebbe definitivamente declinata nel nulla, nell’insignificanza del banale. Sarei sicuramente morto d’inedia e di disperazione. Che senso avrebbe avuto vivere, dopo avere conosciuto la luce del paradiso. Si, perché se il paradiso è gremito di angeli, certamente quello più fulgido era sceso sulla terra e mi stava facendo da custode. La custode della mia anima. Che bizzarria del destino. Chi avrebbe potuto immaginare che in una città di oltre duecentocinquantamila abitanti avrei dovuto incontrare la figlia della donna che trent’anni prima avevo immolato sull’altare della mia ambizione o del mio sogno? Avrei, forse, in modo così cocente dovuto pagare la mia colpa? O forse il fato mi stava porgendo una seconda occasione? Sì, quella di sposare la figlia della donna che un tempo aveva rapito il mio cuore e che non lo aveva più lasciato. Viviana, Viviana. Che avrebbe fatto quando avrebbe saputo? Non avrebbe certamente incentivato la figlia a frequentarmi. Si sarebbe ferocemente opposta. Rimanendo con Aura, prima o poi avrei dovuto fare il conto con il mio passato. E Aura avrebbe saputo. Era necessario che sapesse. Solo quando, però, fossi stato convinto che il nostro legame ormai era totalmente infrangibile e, comunque, molto prima che lo apprendesse da sua madre. Perché Aura mi amava – non avevo dubbi su questo, o almeno ero presuntuosamente convinto che uscisse con me solo perché ne era innamorata : non mi passava nemmeno lontanamente per la mente che avevo più di trent’anni di lei, e che si potesse accompagnare con me per tutte le ragioni possibili, tranne l’amore – e, nel tempo, quest’amore sarebbe diventato immenso. Avevo bisogno di esserne convinto. E, allora, conoscere la verità sul rapporto tra sua madre e me non avrebbe inficiato il nostro amore. Sì, doveva essere così. Al momento, quindi, era meglio tacere. Anche se questo mi costava. La lealtà era un punto d’onore per me. Io stavo compiendo un atto sleale. Ma non le stavo mentendo: stavo solo tacendo un fatto, anzi procrastinando. “Mi chiedevo solo se rientrava nell’ambito delle mie conoscenze d’allora”: così le ho risposto. In fondo non ho mentito. Le ho solo taciuto che rientrava nelle mie conoscenze – e che conoscenza!- Volevo così tacitare il mio senso di colpa, di insincerità. “Avevi un nugolo di ragazze allora, eh. Sei un bell’uomo oggi, figuriamoci quando eri più giovane”. Che ragazza squisita, dolce, toccante. Non sottolineava i trent’anni e passa d’età tra me e lei: diceva solo ‘quando ero più giovane’. “Prima o poi dovrai dire a tua madre che mi frequenti. Vorrà sapere chi sono, come mi chiamo, cosa faccio”. “Sì è vero. Ma, perché affliggerci con ciò che è ancora da venire. Quando decideremo di farlo, troveremo certamente il modo più adatto per farlo. Pensarci ora è stupido. Godiamoci serenamente queste ore che passiamo insieme. Anzi: perché non mi porti a casa tua? Lo sai che non mi hai ancora invitata a visitarla? Mi hai tanto parlato di questa tua meravigliosa villa, ma non mi hai invitato a venirci”. “Figurati, se non mi piacerebbe che ci venissi. Mi sembrava fosse sconveniente. Che tu ti potessi offendere. Che potessi pensare male di me. Un maturo signore che potrebbe volere approfittare della ingenuità di una ragazza così giovane”. “Sei delizioso e dolcissimo. Sei rosso come un peperone. Ti voglio bene comandante, ma proprio tanto. Mi sento solo protetta da te. I tuoi occhi esprimono solo pulizia dell’anima e un affetto grande almeno quanto il mio. Allora che facciamo, andiamo?”La mia villa la incantò. Era grande, perché a me piaceva sentirmi respirare, circondato da grandi spazi, come quando il mio aereo fendeva il cielo e io mi sentivo allargare il cuore dalla luce, dagli spazi infiniti d’azzurro. E la luminosità era il trionfo del mio rifugio sulla collina. Gli alberi gli facevano da freschi custodi, fin quasi ad accarezzarlo con le loro larghe cupole di verde e i cesti di fiori, che tappezzavano il viale che portava all’ingresso della villa col loro splendore, innalzavano un inno alla luce. Aura e la luce della mia casa. Era così bella e radiosa che mi sembrava composta della stessa polvere di stelle di cui si favoleggia siano intessute le minuscole fate dalle ali d’argento. Mi capitò parecchie volte di sorprendermi con il timore che di colpo si dissolvesse col pulviscolo riverberato dai raggi del sole. Stringerla, serrarla al mio petto, soltanto per sentirla gravare sul mio cuore e poterla cingere teneramente avvinta, soffiarle la stessa dolcezza infinita che irraggiava dall’intera sua persona. E, nel silenzio ovattato del mio salone, fermare il tempo e assaporare quella appagante tenerezza per gli infiniti attimi che compongono l’eternità. Per lei era istintivo, naturale, abbandonarsi tra le mie braccia e restare così immobile a cullarsi nel mio calore. Uscimmo, la mano nella mano, sulla veranda, e ci accostammo alla ringhiera, un lungo filare multicolore per i fiori vari che vi si intrecciavano. Sotto, in lontananza, si scorgeva un largo panorama della città e, più lontano, il mare. E poi il cielo, che si coricava sul mare e vi si confondeva. Nessuno dei due, nel lasso di tempo che ci eravamo frequentati e così teneramente legati, aveva detto all’altro “ti amo”. Quasi che ci legasse, trattenesse, la paura. Paura che tutto svanisse. Come se l’amore ci riportasse alla materialità della carne e ci sradicasse dalla rarefatta aura degli affetti più puri, più sacri. Non che io non scorgessi le rigogliose curve del suo seno, le labbra tumide e imploranti, le orbite ricolme d’un azzurro che ti stordiva e che pareva volerti risucchiare nelle plaghe più segrete degli abissi del cielo. Oh no. Tutto questo lo sentivo e mi turbava più che profondamente. Baciare, seppure con un sospiro, quelle labbra mi pareva profanare qualcosa di troppo puro, che era solo da venerare. E lei, certo aveva compreso questo mio atteggiamento, ma non se ne adontava. Però, quel giorno, a ridosso della panciuta ringhiera, luccicante di fiori, sulla veranda, sospesi come sembravamo tra mare e cielo, sollevò gli occhi verso i miei e, con la voce leggermente arrochita, mi chiese – e fu quasi un sussurro di un angelo: – “Che cos’è l’amore?”. E reclinò il capo sulla mia spalla, quasi spossata dalla stessa domanda. Abbassai gli occhi verso il suo viso e, accarezzando con lo sguardo e con le mani i morbidi capelli, risposi: “E’ trasparenza, è luce”. Sollevò il capo dalla mia spalla e, guardandomi rapita negli occhi, mi disse: “Allora tu leggi nel mio cuore, lo puoi vedere come trabocca di infinita gioia, quando mi stringi a te. E, non scorgi la mia pelle abbrividire, quando le tue carezze trascorrono il mio viso, e mi abbandono esausta sul tuo petto? Non senti lo scroscio del mio sangue, il suo violento gorgogliare, in ogni vena e inondare come la lava di un vulcano ogni anfratto della mia carne tremula. Sono una donna, Livio, non una scultura di purissimo cristallo, che temi di infrangere e sporcare. O, se vuoi, una coppa di cristallo, colma di un vino che agogna d’essere bevuto e d’inebriarti fino allo stordimento. Le mie labbra aspettano che tu le baci, che le faccia tue con la tua bocca”. Si sollevò, così, verso il mio viso e mi porse le labbra schiuse, tremolanti e luccicanti come una rosa rorida di brina. Il mio sguardo si stupisce, si inchina, il mio cuore ad uno ad uno schiude e poi spalanca i suoi cancelli e contempla in estasi, ammaliato, quelle stelle che tremolano, un miracolo. Dio quant’è bella! Con le mani che mi tremavano, non so se incerte nel correre dietro ad un frutto così ostentato di tumida passione o nell’intaccare la trasparenza di quel purissimo diamante ch’era il suo viso, lo raccolsi tra le mie mani grandi e le mie labbra conobbero le sue. E dimenticai i sogni almanaccati nelle mie malinconie, i cento volti di donne, che ne rincorrevano ossessivamente solo uno, i miei anni protesi a cavalcare il tempo e a fiaccare il cielo, le mie miserie di uomo, le mie albagie ostentate, tutto si annebbiò e si disperse nell’oblio dissolutore di quel bacio. E si riscosse, come destata da un sonno profondo, la mia essenza d’uomo. E lei, pronta la colse, serrando il suo bacino contro il mio, strusciandolo vigorosamente contro. Aghi di piacere schizzarono violenti dal basso ventre verso il mio cuore che si ingolfò di palpiti. Le mie mani la percorsero tutta, bramose di riempirsi della voluttà delle sue forme, e le sue non furono meno temerarie e sollecite a cercare le parti più appetite del mio corpo, a scoprire e a trattenere frenetiche e vogliose la fragranza del maschio. Tremava, come fosse scossa da una febbre violenta. La sua mano, che era affondata sotto i miei boxer, era rimasta quasi intorpidita, nella sua immobilità, a stringere il mio pene. Era evidente che era la prima volta che scopriva così tangibilmente il sesso di un uomo, e questa consapevolezza mi fece fremere ancora maggiormente tutto il corpo e tese prepotentemente il mio sesso. Posi, così, la mia mano sulla sua e l’aiutai a scorrerla su tutto il mio genitale. Poi, mentre con le mie labbra, con la punta della mia lingua, accarezzavo e dardeggiavo i punti più sensibili del suo viso, del suo collo, le mie mani si diressero una verso il suo seno, sopra la camicetta, l’altra verso il suo sesso, sopra la curva declinante del jeans, lentamente palpando. Volevo cogliere sotto le mie mani, velato dal diaframma della stoffa, il suo piacere che si inturgidiva. Il turgore di quel pube, roso da fiamme di desiderio, mi incendiava la mano trasognata. Volevo sentire scorrere dentro di me, come le onde leggere sulla battigia d’un mare d’estate, le increspature deliziose che percorrevano ogni fibra del mio petto, delle mie braccia. Volevo che, poco alla volta, per me e per lei, quelle onde diventassero ondate, poi cavalloni, infine marosi travolgenti come montagne. Il suo seno. Nemmeno il marmo pario dell’Afrodite di Cnido era così marmoreo e vellutato. I suoi capezzoli inturgiditi sino all’esasperazione trafiggevano il mio palmo come stimmate, e una fiumana di delizia ingorgava torcendolo il mio stomaco e slargava il mio cuore. Lentamente, con una esasperazione mortale, ruotavo la mia mano ora su un seno ora sull’altro, mentre, lì, in basso, le mie dita premevano sfrontate sul solco nascosto della sua vagina. Le sue labbra scorrevano sul mio petto ormai nudo come sulla superficie dell’acqua fresca di un fiume, su cui avidamente andava a dissetarsi. A un tratto, per reciproca empatia, le nostre guardinghe effusioni si fermarono e i nostri occhi, carichi di struggente desiderio e di passione, si scrutarono intensamente. Trascolorammo. Le nostre braccia si sollevarono lentamente e le nostre mani, incontrandosi nell’aria, a mezza strada, all’altezza del nostro cuore, si adagiarono l’una sull’altra. Fu come se una corrente a dodici volt si sprigionasse dai nostri palmi, trapassasse da una mano all’altra. Le nostre dita si intrecciarono con forza, spasmodicamente aggrappandosi le une alle altre, e un flusso incandescente si irradiò, serpeggiando, in ogni nostra fibra. Le nostre braccia si attirarono l’uno verso l’altra, finché il dorso delle nostre mani non spiovve sui nostri petti semivestiti. Le dita di entrambi si lasciarono. Eravamo come in trance. Le nostre labbra inaridite palpitarono tremanti. Poi, fu come se una un fiume tumultuante, trattenuto a forza da una diga poderosa, di colpo, si fosse liberato in tutta la sua possanza e ogni nostro sentire logico, ogni remora morale furono disastrosamente in un subito travolti. Le nostre bocche impazzite dardeggiavano furenti su ogni parte del nostro viso, finché si incontrarono e si assalirono irrequiete, bevendo l’una nell’altra, violente, insaziate. Le nostre lingue divennero un viluppo, le nostre labbra due ventose di fiamma. Ci staccammo di botto, ansavamo come mantici annaspanti alla ricerca dell’aria che manca. Le nostre mani corsero irrequiete, veloci, a spogliarci. La sua camicetta di seta capitolò insieme al suo minuscolo reggiseno e le sue mammelle si distesero eburnee e morbide appena sotto il mio cuore a sussultare a ridosso dei suoi battiti assordanti e frenetici. Quel seno stupendo, sogno rarefatto di un mangiatore d’oppio, gravava come un proibito frutto degli dei sopra il mio petto. Rovesciai il capo leggermente all’indietro e, con gli occhi chiusi, lasciai, per attimi eterni, che la mia mente si cullasse, stordendosi, di quelle voluttuose, incomparabili, sensazioni. Bello, bello. Così, certamente, sognavano i mussulmani il seno delle loro Urì. Per questo non temevano la morte. Per l’eternità col viso incastonato in quelle soffici colline di carne lussureggianti e voluttuose. Mi liberò dei miei ultimi indumenti, io dei suoi. Il suo corpo nudo, nel declinare del giorno, sembrava trasparente, rarefatto, la sua perfezione si intarsiava nella luce ovattata come il sogno raggiunto del pittore più ispirato. La sindrome di Stendhal. La mia vista caracollava con la mente. Quel corpo era un’opera d’arte. Aura, Aura, fosti un delirio dei sensi e dell’anima, allora; oggi, un delirio di nuda follia. Ti girai, quel pomeriggio, in quel fitto traslucido di sole calante, e ti avvinsi, le tue spalle serrate sul mio petto, strettamente tra le mie braccia. Un sogno, luminoso, inebriante come la verità assoluta, che paventavo svanisse dalle mie braccia. Sicuramente la tua mente non sciabordava tutte queste mie emozioni. A te piaceva sentire la mani dell’uomo che amavi riempirsi delle tue forme, sentire il turgore prepotente del maschio pigiare sui tuoi glutei, stordirti della tua voglia del maschio mai prima assaporata. Un ragazzo della tua età non avrebbe mai potuto accedere alle rutilanti emozioni di un uomo ormai maturo, che non vede solo il bello delle forme della donna, ma il fulgore accecante delle giovinezza, di quella giovinezza che irrimediabilmente ha perso. La tua bellezza, fusa con la tua gioventù così sfrontata, mi imbambolava e, nel contempo, centuplicava la mia passione. E i tuoi seni, più agognati dei pomi del giardino delle Esperidi, divennero frutti bramosamente da trafugare. La tua nuca reclinata sulla mia spalla, assaporavi il torrente di infiniti aghi di piacere, che i tuoi seni, i tuoi capezzoli, tormentati dalle mie mani, dalle mie dita instancabili a bearsi di quelle cupole di carne, facevano rifluire in ogni tuo neurone, allagandolo di voluttà. Aspettavi il piacere, che si facesse largo e torrido come lava, prima che ti abbeverassi al mio piacere. E io non ti delusi. Le mie dita scorsero su ogni poro del tuo corpo, costringendolo a pulsare come un cuore scalmanato: brividi e aghi di fuoco ti dardeggiarono fino a farti torcere come lingue di fiamme. La tua fica fu sfibrata dalle mie dita e, novella lira, impennò, in uno spasimo struggente, le sue note più alte e più sublimi e tutte le tue grotte più profonde trasudarono a torrenti tutto il loro pregiato miele. E cominciò la girandola impazzita dei nostri corpi, delle nostre mani, delle nostre labbra. Gli istinti più belluini, primitivi, animaleschi, ci sommersero e si cercarono, furoreggiando, a soddisfarsi. La tua fica e il mio cazzo chiedevano le nostre bocche. Ti sollevai, all’in piedi com’ero, come un fuscello, rovesciandoti a testa in giù. Con le gambe ti agganciasti sulle mie spalle, intrecciandole attorno al mio collo, e, mentre la tua bocca ricadeva sopra il mio pene, io mi ritrovai – con le mani ti sostenevo per i fianchi,- a rovistare con la mia bocca sulla tua fica di sogno, sulla tua sessualità scomposta e, come Tantalo, l’assetato, bevvi il nettare che ne fluiva, all’unisono con te, che, fatta esperta, mentre con una mano sfregavi i miei testicoli, con l’altra trattenevi nella bocca la mia asta infoiata, e, come una bimba al seno della madre, ingorda, succhiavi, fino a liberare la linfa compressa nelle gonadi esasperate. Fu un momento lancinante di piacere che ci squassò entrambi. Ti discesi per terra e ci rotolammo sopra il grande tappeto cremisi. E ricominciammo inesausti la nostra rincorsa affannata al godimento. Rotolammo l’una sull’altra come dementi che lottano all’ultimo sangue e compulsammo ogni punto sensibile del nostro corpo sino al parossismo. Sentirti, istante per istante, sulla mia pelle, esasperava all’infinito i miei sensi. Con le dita e la lingua sfibravo ogni terminazione nervosa della tua pelle, fino a stordirti in una sinfonia di godimento. Sfiancata sino al deliquio dal piacere, alla fine, senza vergogna, implorasti, come vittima la morte al suo carnefice, che trafugassi la tua verginità. Volevi il cazzo disperatamente, che rovistasse spietato la tua fica. Era un lamento lancinante di lussuria, di un desiderio ormai senza confini: “Prendimi, prendimi, lo voglio. Ora, subito, dammelo, lo voglio”. Ed esponevi come bocca insanguinata il sesso e con la mano aggrappata come a gomena al mio cazzo, velo trascinavi. Io, ti allontanavo, liberandomi, la mano, fingendo di esaudire il tuo tormento, ma, quando lo adagiavo sulla soglia fragrante del tuo giardino lussurioso, con la mano lo facevo ruotare solo sul vestibolo scintillante di rugiada, eccitando a più non posso il tuo clitoride. E poi, scivolando un po’ più in giù, lo puntavo sul tuo buchino più arricciato. E, pure lì, ormai invasata e disinibita, purché il mio membro ormai ti penetrasse, immolavi il tuo sfintere. E io, armeggiavo invece con le dita nella fica e dentro il tuo sfintere, fino a quando ti vidi preda non più controllabile di convulsi singulti di piacere, balbettando, soffocata, “il cazzo, il cazzo”, come solcata dall’epilessia. Allora e solo allora, appagai la tua richiesta, che tu accogliesti come fosse un dio. Avanti e indietro, le tue gambe abbarbicate sul mio collo, avanti e ancora indietro, lento e veloce, sempre più lento e sempre più veloce. E il tuo urlo lacerò la stanza come una bestia sanguinante a morte. Sussultammo entrambi, con spasimi sublimi. Poi fu l’oblio, la pace del feto concepito, che, senza sogni, galleggia, placido, nel liquido materno. III Da quel pomeriggio furono quindici giorni di torridi incontri. Ci incontravamo ora di mattina, ora di pomeriggio. Era una sorta di febbre che ci travolgeva, qualcosa che non avevo mai provato e che non credevo esistesse. Sapevo che non avrei potuto reggere quel vortice di vita. Avevo costantemente le occhiaie come burroni scavati sotto gli occhi e dimagrivo in modo vertiginoso. Sì, perché lei mi dava le vertigini. Non era solo passione, non era solo eccesso d’amore, era un contagio, una droga, una malattia dei sensi e dell’anima. Dei sensi, perché li investiva come un herpes tropicale che ti si irraggia istantaneamente come una ragnatela e decompone le carni; dell’anima, perché con lei esplodeva di estasi, di rapimenti quasi mistici, di cui non potevo più fare a meno. Quante volte, in quei giorni, chiedevo a lei: “Ma, pure tu avverti questa irrefrenabile frenesia, appena mi vedi, questa sorta di disperazione febbricitante di gettarti nelle mie braccia, di quasi annullarti dentro di me? Talora, quando tiri il mio sesso con violenza per infilarlo nel tuo, è come se me lo volessi strappare, è come se volessi farmi, con esso, entrare in te tutto intero col corpo”. “Si, è così. Quando ti ritrovo vicino è come se di colpo mi ritrovassi su di un abisso che lascia vedere paradisi lussureggianti di piaceri incommensurabili. E’ come se si sprigionasse una luce abbagliante che ti avvolge come una rete inestricabile e ti sprofonda con struggenti delizie in quell’abisso. E’ vero, vorrei fonderti con me. Quando entri in me e mi estenui di languori e di piacere, il tuo pene è come se si attaccasse alle radici del mio utero. E’ come se subissi una metamorfosi: io mi sento te e vedo te mutarti in me. Ti giuro: ti vedo con le mie fattezze, col mio stesso pallore travolto da stupore estatico. Il mito dell’androgino, ricordi? Le due metà staccate e prossime a morire, che infine si ritrovano e divengono una cosa sola e così sbocciano alla vita. E tutti i nostri ginnici accoppiamenti, i più funambolici e più strani, tendono ad un solo fine: essere una cosa sola. Non è forse a questo che, inconsciamente, tendiamo, quando stiamo per ore con il tuo sesso dentro il mio? Appena lui sta perdendo di rigidità, un tremito, un vibrare, che è solo istintivo, tuo e mio, lo riporta alla rigidità di prima. Così ci ritroviamo come una cosa sola. Il feto attaccato alla madre attraverso il cordone ombelicale. Io sono tua madre, tu mio figlio, il tuo ‘cazzo’ ciò che indissolubilmente ci lega. Vedi, questo qui” e, mentre parla, con la mano dolcemente raccoglie il mio sesso “non è che un mezzo, un delizioso strumento per fare di noi due una cosa sola. Il padre, il figlio e…”. “Non bestemmiare, ti prego”. “Sai che non concepisco la bestemmia. No, è solo un’analogia, scesa al livello dei nostri due involucri di creta: uno spirito santo fatto di carne, che rende noi a un tempo uno e trino”. “E’ vero, se fosse possibile resterei dentro di te fino alla consunzione. Aura, forse il nostro amore è qualcosa di distruttivo. Perché tanta disperazione, perché tanto affanno violento nei nostri rapporti? Se tu stessi qui con me tutto il giorno, bellissimo amore mio, ti scoperei in tutte le tue parti del corpo, fino a sputare sangue dal mio sesso e morire col sapore del tuo sulle labbra e la tua immagine negli occhi, col capo affondato in mezzo ai tuoi seni di velluto. Mi dicevo nei primi giorni che questa intemperanza era una sorta di desiderio vampiresco della tua giovinezza. Succhiarla spasmodicamente da te, perché io l’avevo persa. Ma oggi so che non è così. Sì, è come se volessi trovare il modo di fondermi con te e l’impossibilità di riuscirci materialmente mi spinge, ci spinge, a quella tregenda dei sensi. Mi chiedo, se questa non è pazzia. E perché, perché? Non ci è più che sufficiente ubriacarci d’amore, vivere gioiosamente la nostra sessualità, fermarci talora alle sole coccole? Forse non è vero che il cuore mi trabocca di felicità, quando, seduti sul divano, ti abbandoni sul mio petto, in un silenzio religioso che contempla solo le mie carezze sui tuoi capelli, sulle tue guance e che accoglie commosso i battiti sereni dei nostri cuori? Cos’è che di colpo scatena questa dolcezza in furore dei sensi? Cos’è questo ciclone che, improvviso, travolge la nostra mente e ci spinge in quella sarabanda sfrenata, forsennata, di amplessi straripanti e stravaganti, sicuramente impensabili da ogni coppia normale? Sei talmente bella che basterebbe vederti muovere, danzare nuda per casa, per provare un diletto sublime. E questo io lo provo; solo che, dopo alcuni minuti, quello stato di pura contemplazione estetica si trasforma in desiderio ruggente, incontenibile di possedere le tue carni e divengo un satiro ossesso, e tu una menade in preda ad un orgiastico delirio, che ti porta talora a farmi sanguinare, merito delle tue unghie affilate, le spalle, il petto, il mio sesso”. “Mi sono ripromessa di tagliarle fino all’estremo per non farti del male. Sono consapevole di essere passionale, ma non avrei immaginato che la bramosia di averti finisse con il trasformare parti del tuo corpo in piaghe. Hai detto “disperazione”. Non so se il termine è proprio; certamente è come se volessi trattenerti per sempre su di me. E non è ingorda passione dei sensi, furia da ninfomane repressa. E’ come la ricerca di un rifugio, di un porto sicuro, in cui attraccare la mia piccola vela, ancorarla in modo non sradicabile. E’ amore, amore assoluto. Sai in questi giorni mi ritrovo a cantare un antico lamento d’amore siciliano: ‘Mi votu e mi rivotu suspirannu, passu l’interi notti senza sonnu e li biddizzi toi vaiu cuntimplannu, ti pensu di la notti sinu a jornu. Pi tia nun pozzu chiù a ripusari, paci nun aiu sta sempri afflittu u cori. Lu sai quannu ca iu ti ai lassari: quannu la vita mei finisci e mori’. Scusami se parlo male il dialetto. Questa canzone mi viene costantemente in mente, perché esprime abbastanza quello che penso e sento per te. E’ proprio così. Solo la morte può staccarmi da te, solo la morte”. “Se gioia ci può essere nel morire, posso tollerare l’inesorabile signora solo se, mentre sto per chiudere gli occhi, tu mi terrai la mano, e il mio cuore schianterà di gioia, perché il tuo viso, lo splendore dei tuoi occhi, mi terranno compagnia e mi aiuteranno nel trapasso all’altra dimensione. No, non dire nulla. Tranne che non trovino l’elisir dell’immortalità, sarò io, dovrò per forza esserlo, non fosse che per la mia età, a doverti forzatamente lasciare. Spero che mi sia consentito almeno dopo aver fatto l’amore con te”. Restammo in un malinconico silenzio. Era giunto il momento di dirle di me e di sua madre. Dovevo farlo, non fosse altro, perché lei potesse essere più accorta, quando si incontrava con me. Anche se per strada non camminavamo abbracciati – quante volte lei voleva che ci tenessimo per mano e quante volte mi sono dovuto fare violenza per impedirmelo, proprio perché spaventato che qualche conoscente della famiglia di Aura non andasse a riferirlo alla madre, – prima o poi Viviana, indispettita di essere tenuta all’oscuro dalla figlia, avrebbe tentato di pedinarla, per conoscere la persona con cui si accompagnava e, qualora mi avesse visto, mi avrebbe riconosciuto e sarebbe scoppiato il dramma. E questo non doveva capitare, almeno fino al momento in cui Aura non avesse deciso di vivere definitivamente con me. Lei amava sua madre e non avrebbe voluto spezzarle il cuore. Ma così sarebbe accaduto, se lei avesse deciso di vivere con me. Ma noi due non avremmo più potuto dividerci. Come aveva detto Aura, eravamo ormai uno e trino. Sì, lei doveva sapere. Sarebbe stato un trauma, certamente, ma non mi avrebbe lasciato. Intanto, lei si era ridiscesa sul letto. Il suo corpo nudo era talmente luminoso nella sua bellezza da sembrare immiserire le pur immacolate lenzuola che l’accoglievano. Mi guardò con gli occhi lucidi, colmi di languore e di desiderio e, allungandomi le braccia, mi disse “Vieni, ti voglio, con dolcezza. Accarezzami, piano, piano, più lentamente che puoi, con le mani, con le labbra, con i baci”. Come resistere a quel richiamo ineludibile. Mi chinai sopra i suoi piedi, che sembravano cesellati dalle mani d’uno scultore provetto, e cominciai a baciarli, a solleticarli con la lingua, a mordicchiarli teneramente, cominciando dalle dita. Sentivo già la sua carne sussultare, la pelle incresparsi. Risalii centimetro per centimetro le sue gambe tormentando con voluttà ogni angolo delle stesse, fino a quando raggiunsi, dopo un tempo interminabile, l’interno delle sue cosce. Armeggiai nel modo più esasperato possibile su quei luoghi intimi con le dita, con la bocca, con la lingua. Lei inarcava leggermente la schiena e assaporava tra le labbra schiuse il piacere. Affondai l’intero volto sul vello dorato e cominciai a trafugarlo scompigliando deliziosamente il folto tappeto luccicante come pagliuzze di oro. Sentivo la sua fica pulsare come un cuore infartato e i miei occhi ammiravano rapiti le rosee labbra del sesso ingrossarsi dall’affluire precipite del sangue, la punta del suo clitoride sbocciare dall’ingorgo di quelle labbra come un piccolo rubino. Il suo pube era teso al massimo, esposto come un peccato. Il mio sesso era turrito. Lasciai scivolare le mie gambe sotto le sue, intrecciandole e, poi, lentamente, tirandola per le cosce verso il mio bacino: vedevo il suo sesso accostarsi sempre più al mio, finché la punta del mio pene incontrò il vestibolo della sua vagina. Mi fermai di colpo. Lei, allora, pronta si sospinse in avanti sulle reni e col culo costringendo il suo sesso ad accogliere il mio, che tenevo abbassato con le dita. Un lamento di piacere uscì dalle sue nari, cominciando a sollevare e ad abbassare il bacino. Io la lasciai fare, mentre con una mano pigiavo sopra il suo sesso. Il suo volto si tingeva di porpora. Godeva, anche se quella ginnastica sicuramente la stancava. Distolsi le gambe dalle sue e mi sollevai sedendomi tra le mie gambe. La sollevai per i glutei e incominciai a stantuffare prima lentamente, poi aumentando gradualmente la velocità. Sentivo distintamente nel silenzio segnato solo dai suoi flebili lamenti il risucchio della sua vagina, e lo schiaffo dei miei testicoli sul suo perineo. Era semplicemente bello. Era così desensibilizzato il mio pene che avrei potuto lasciarlo scorrere per ore dentro di lei. Non avevo vent’anni e già era la terza volta che impegnavo il mio sesso in quella serata. Ma, sentivo il suo piacere e questo soltanto mi esaltava e mi appagava. Lo so che è quasi impossibile raccogliere visibilmente il piacere di una donna. Trovarla bagnata, non significa di per sé una trafila di orgasmi continuati. Per fare contento il suo uomo la donna può fingerli. Ma il viso di Aura era il ritratto, l’incarnazione della pregustazione della voluttà. I suoi orgasmi non erano certo mimati per farmi contento. Poi si sollevò di colpo a sedersi. “Io voglio che tu goda, nella mia bocca. So che ti piace da morire sentire la mia bocca ripiena del tuo sesso, le mie labbra che più morbidamente della mia fica vi scorrono sopra. E io godo che tu godi”. Mi adagiai con le spalle sul letto e lei affondò il viso in mezzo alle mie cosce, scompigliando il mio pube come prima avevo fatto col suo. Mi leccò voluttuosamente i testicoli, mentre, come uno scettro, la sua mano serrava il mio sesso. Inghiottì nelle sua bocca, sino alle radici, i miei testicoli, e li sballottava con la lingua da una guancia all’altra. Sentivo il piacere diffondersi nelle mie ghiandole sessuali. Sempre più veloce, sempre più veloce. Poi li lasciò scivolare dalle labbra, raccogliendoli dentro una mano, che delicatamente li mungeva, per inghiottire il mio pene, in un andirivieni, fasciato e stimolato da sottili giuochi di lingua, fino a quando l’impossibile eiaculazione cominciò a montare fino a esplodere in un sussulto ricco soltanto di povere gocce di sperma, che lei trascorse tra le labbra quasi fossero gocce d’ambrosia. Mi sentivo realmente il midollo prosciugato, dalle basi della nuca fino all’osso sacro. Appagato, ma schiantato. Se volevo goderla e amarla per tutto il resto della mia vita, dovevo diradare assolutamente le nostre lotte d’amore. Le lunghe discussioni riuscivamo a farle solo per strada, ma, in casa, ci trovavamo in perenne stato di eccitazione. E, allora, fino a quando, forse, i nostri sensi non si fossero un poco acquietati, dovevamo diluire i nostri incontri in casa. In quella letargia post-coitale, mi rivenne in mente il discorso che avevo abbozzato nella mia mente sopra sua madre. Sarei riuscito finalmente a farlo? A letto, denudati, era impossibile. Dovevamo prima ricomporci, vestirci e, poco prima di riuscire, le avrei parlato. “Ti amo, disperatamente e con voluttà ti amo. Amo il tuo cazzo, amo la tua voce, amo i tuoi pensieri, amo il tuo sguardo, le tue carezze, la tua dolcezza, la tua calda e sicura protezione. Amo quando mi fotti nella fica e nel culo, amo quando mi baci e mi scomponi la fica e il culo, amo quando mi soffi la tenerezza dei tuoi baci sulla fronte e sopra gli occhi, amo quando mi accarezzi e mi rovisti i capelli, amo quando mi guardi come se fossi un miracolo di Dio, amo quando sorridi sulle mie labbra, amo quando vezzeggi i miei seni come fossero due bambine, amo quando cammini, amo quando corrughi la fronte e mi ascolti serioso, amo quando quasi vergognoso rimiri le poche gocce di sperma e rimpiangi i tuoi vent’anni, amo quando mi rincorri per casa e mi sollevi tra le braccia come una bambina e mi adori come fossi una regina, ti amo perché mi fai sentire donna e ragazzina, ti amo perché mi ami più della tua vita. Ti amo, perché sei la mia vita”. Rimasi estasiato a guardarla. Era così bella che sembrava sul punto di esplodere di luce come una stella. Che avevo fatto di così straordinario, perché mi fosse accordato un simile miracolo? Miravo il suo volto infiammato di porpora, i suoi occhi sognanti rendere il loro azzurro più terso e trasparente dei cieli che accarezzano le cime dell’Himalaia, le sue labbra tremolare d’amore come le rose rosse alla brezza del mattino. Oh, sì, quella donna mi amava, come nemmeno nel più azzardato dei miei sogni avevo osato immaginare. E io? Io sembravo una robustissima quercia, che, però, la phytophthora cambivora, un micelio parassita, che si abbarbica alle radici dell’albero può implacabilmente uccidere. Se lei mi fosse stata tolta, il dolore avrebbe assunto la medesima funzione del micelio: ne sarei morto. “Mia piccola bambina, io mi disperdo, tanto ti amo, nei tuoi passi silenziosi, amo persino la tua ombra, amo i tuoi occhi che il cielo ti invidia, il tuo profumo di donna che droga tutti i miei sensi, il sapore delle tue labbra, della tua pelle, della tua fica, amo il tuo seno e stordirmi in esso, amo vederti svolazzare intorno, amo il modo in cui ti spogli, amo l’impetuosità con cui mi ami, con cui mi graffi, il modo in cui gemi, il modo in cui vieni, in cui mi ‘strappi’ il cazzo, la tua voce prima e dopo aver fatto l’amore, io ti amo, amore mio, ti amo senza aggettivi, fino alla fine dei tempi”. E la febbre incominciava ad assalire la nostra pelle, la nostra carne, la nostra mente. Le nostre bocche anelavano già suggere la reciproca saliva infuocata, le mie mani avevano già raccolto i suoi seni, la sua mano il mio sesso, che già si era inarcato. Fu un imperioso ordine dato a me stesso, che bloccò una nuova tempesta di amplessi furenti. E fu come un fulmine che cade improvviso in un giorno sereno. “Aura sono stato, trent’anni, fa fidanzato con tua madre. No, non parlare, per piacere, diversamente non riesco a continuare. L’ho capito qualche settimana fa. Ricordi, quando ti ho chiesto come si chiamava tua madre? E’ stato allora che ho capito. Uno scherzo del destino, una punizione? Perché tra tutte le possibili donne, per un’arcana combinazione, dovevo conoscere te e irrimediabilmente innamoramene? Ed era orami troppo tardi, quando scoprii che eri la figlia dell’unica donna, che, prima di te, avessi realmente amato. Forse aveva ragione lei nel sostenere che il mio lavoro era più importante del mio amore, forse io: avrebbe potuto seguirmi. Ma non era questo il punto. Lei non voleva che facessi il pilota. Era il mio sogno fare il pilota. Lei non volle capire e pose sul piatto della bilancia il mio sogno e il mio amore per lei. Scelsi il mio sogno, anche perché ero convinto che lei se ne sarebbe fatta una ragione e sarebbe tornata con me. Perché uccidere il mio sogno in nome dell’amore, se non era necessario? Lavorare in una fabbrica dietro sollecitazione di tuo nonno non mi andava, prima perché volevo fare il pilota e poi non volevo un lavoro, che non mi gratificava, poi, anche se ben remunerato, grazie a tuo nonno: mi sarei sentito un po’ come mantenuto. Non te l’ho detto subito, appena scoperta la cosa, per semplice, immensa paura, paura di perderti. Ma ora, ora che siamo così indissolubilmente uniti nel corpo e nell’anima, come facevo più a tenerti questo segreto? ‘Tra noi non ci saranno mai segreti ‘ mi hai detto tante volte ed io concordavo, ma, mentre chinavo la testa, mi sentivo schiacciare il cuore dal segreto che ti celavo. Le parole, che la mente spingeva, morivano sulle mie labbra. Non potevo più tacere. Come si può tacere nei confronti della propria vita? Ché tu sei la mia vita, le sue radici, la sua linfa”. Avevo raccolto con gli occhi irrequieti, mentre raccontavo, tutte le sfumature del suo volto, prima interdetto, poi sbiancato, infine incollerito, nero come le nubi grevi di pioggia in un temporale incombente. Aspettavo che parlasse. Avevo il cuore che sprofondava nel petto, come se le viscere volessero inghiottirlo. E lei taceva. Aveva reclinato gli occhi, le gote impallidite, e taceva. Quel silenzio mi assordava, era come un vortice di follia su cui mi pareva di essere trascinato. Fu poi un sussurro secco e tagliente. “Perché non hai avuto fiducia in me, nel mio amore?”. “Non avevamo ancora confessato che ci amav…”. “Taci, oh, taci, ti prego. E perché questa ‘ bambina ‘ sarebbe uscita ogni giorno con te, con la felicità negli occhi, e il subbuglio nel cuore, se non ti avesse profondamente amato? No, non è possibile, un fatto così importante, che ha accompagnato la mia vita dalla mia adolescenza ad oggi, tu me lo nascondi. E, se mi madre ci avesse visto, che le avresti detto, che avresti detto a me? Lei è mia madre, che è vissuta solo per me, comprendi? Non ha amato mai suo marito, ma ha amato ed ama me più della sua vita e non si è più risposata, per me, per vivere solo per me. E io che faccio? Gli prendo l’uomo che l’ha lasciata e distrutta. La ucciderei, se lei sapesse”. Solleva la testa e affigge gli occhi nei miei. Mi afferra rudemente, tremando, con le mani per le spalle. “Te ne rendi conto? Non possiamo stare insieme, non lo possiamo. Ucciderei mia madre, capisci. E’ come se prendessi un coltello e glielo conficcassi volutamente nel cuore, capisci, te ne rendi conto? Non posso stare insieme a te, non posso, non posso più”. La sua voce da sibilante e sommessa s’era fatta sorda e quasi urlata. Scende dal letto, nuda e fragile e, le mani alle tempie – io le corro dietro incapace di farfugliare, – si aggira come una foglia in balia del vento, per la camera. Non mi guarda. Sono annichilito, le gambe, le braccia molli, il cuore che cade sempre più velocemente in un pozzo senza fine. E lei che parla con se stessa: “Che faccio, che devo fare? Lo lascio? Muoio. Vivo di lui, per lui. Ma è l’uomo di mia madre. Ciao, mamma, ti presento l’amore della mia vita. Sì, era anche il tuo. Ma ora me lo sono preso io. Questa è pazzia. Non si può, non si può. Io la uccido. Come la guarderei negli occhi stando con lui. Negli occhi? Quali occhi? Lei li chiude per sempre. Si è fatta la madre e poi la figlia. Sì, perché dopo che ha saputo che ero la figlia, mi ha portato subito a letto. Si è posto il problema che mia madre, la sua donna, avrebbe saputo e ne sarebbe morta? Io glielo avevo detto che non aveva mai amato mio padre. E lui sapeva il perché. Non me lo ha detto, però. Perché lo avrei lasciato, certo lo avrei lasciato. Ma lui, così, non si sarebbe scopato più la bambina. Lurido, bastardo, non mi scopava più. Con me si è scopato nuovamente mia madre. Capisci, tu con la figlia ti fotti anche la madre. Fottere, fottere. A voi uomini non importa solo che fottere, non vi frega nulla se spezzate il cuore di una donna. Sì, ha ragione mia madre: ragionate col cazzo, solo col cazzo. Una ragazza vergine, a vent’anni. Dove si trova più? E’ merce rara. Lui se la doveva fottere, come si era scopata mia madre e poi l’aveva lasciata, a sprofondare nel suo dolore per il resto dei suoi giorni. Ogni giorno, bastardo, ogni giorno sei sprofondato nel mio grembo, nella mia bocca, nella mia anima e sapevi chi era mia madre. Non ti voglio più vedere”. Non, non potevo più stare intontito a vederla mulinare come una folle per la stanza. A rovesciare parole che non avevano senso e che erano come coltellate scavate nel mio cuore. Non ero quel perverso che lei stava almanaccando. L’affrontai. La bloccai in quel suo ruotare irrefrenabile. “Vai via. Non mi toccare, non mi toccare. Non vedi? Mi offendi”. “No, tu ora mi ascolti. Io ti amo. Non sai nemmeno lontanamente quel che stai dicendo. Io ti amo, riesci a capirlo, ti amo con tutta l’anima mia. Sai che non è vero che non ti ho detto nulla perché ti volevo portare a letto. Sai bene che non è vero. Ché se veramente lo pensassi, sarei io a lasciare te. Anche se avvizzirei senza di te. Io non ho lasciato tua madre. E’ lei che ha lasciato me. Voleva che non facessi il pilota. Il sogno della mia vita e solo per le sue ubbie, le sue paure, la sua gelosia. Io amavo solo lei, capisci. E te l’ho detto prima che sapessi che tu eri sua figlia. E questo lo ricordi benissimo. Sapevi che era stato l’unico, vero, grande, amore della mia vita. E lo doveva sapere pure lei. No, lei era gelosa e sull’altare di una inconsistente gelosia io avrei dovuto immolare il mio sogno. Non saresti stata tu così crudele. Tu non lo saresti. Non lo sei. E’ lei che ha lasciato me e lei che mi ha sacrificato in nome della gelosia. E io ho sofferto più di lei. Lei ha avuto te su cui centrare il suo amore. Io nessuno. Detestavo talora pure il semplice scopare. E, questo te l’ho confidato, quando ancora non eravamo andati a letto e non sapevo chi fosse tua madre. Come fai ad addebitarmi tutte quelle infamie? No, non le pensi. Sai che non sono vere. Puoi rimproverarmi sino allo spasimo perché non te l’ho detto prima. Ma tutte le altre cose no. Saresti tu, sbollita la collera, a pentirtene, perché io non sono né un vile, né un bugiardo. E per te darei la vita. Se me la chiedi, te la regalo. Non sto scherzando. Pugnalare tua madre. Te lo prendo io un coltello e, se tu mi dici di uccidermi, lo faccio qui davanti ai tuoi occhi. Io senza di te non posso, non so più vivere. Così mi uccido e vendichi tua madre e il tuo pudore offeso”. Come un forsennato corro per la cucina, rovisto nel cassetto delle stoviglie e afferro un coltello da caccia. Torno da lei, che mi guarda sconcertata. Guarda me, poi il coltello. “Nel cuore, dicevi. Ecco sono pronto. Me lo caccio nel cuore. Se tu te ne vai, la mia vita non ha senso, tanto vale…”. Mi guarda stranita, incerta. Vede la punta acuminata del coltello affondare leggermente nella carne e stillare le prime gocce di sangue. E’ un urlo grande, incontrollato. Ha capito che facevo sul serio. “Nooo!”. E si lancia su di me, scacciando il braccio dal mio petto. “Io ti amo, ti amo. Non uccidermi. Con te uccideresti me”. E la rabbia, lo sconforto, la paura esplodono in singhiozzi convulsi, in pianto dirotto, mentre mi abbraccia e si abbandona col viso sul mio petto, macchiato di sangue. “Scusami, scusami, scusami per quello che ho detto. Ti amo, ti amo, ti amo, non ti lascio, non ti lascerò mai. Sei mio, solo mio, la mia luce, la mia gioia, la mia vita”. Diceva e mi tempestava di baci sul viso, sugli occhi, sulla bocca, freneticamente, convulsamente. Mi lasciai sommergere dal mare del suo amore, della sua passione. Le nostre lingue si avviticchiarono, si risucchiarono, si amalgamarono. Le mie mani cesellarono i suoi seni di struggenti carezze, si inebriarono dei capezzoli che, turgidi come corbezzoli, scavavano i miei palmi. Poi, la sollevai e lei si aggrappò al mio collo, serrandosi con le gambe attorno ai miei fianchi. E il mio pene trovò la sua vagina, assaporò il suo calore e si rannicchiò fermo, nella sua rigidità, solo a godere di quel tepore, che lo permeava coi suoi umori di donna. Mi sospinsi lentamente verso il cassettone. Lei vi si distese con la schiena, restando sempre abbarbicata, come l’edera, ai miei fianchi con le gambe e io cominciai a muovermi dentro di lei, una mano sopra il suo fianco, l’altra sopra lo schiudersi delle grandi labbra, a pigiare su di esse, mentre il pollice, bagnato dai suoi umori, dolcemente ruotava sul suo clitoride. Cominciò a rovesciare il viso da un lato e dall’altro, con gemiti sempre più profondi, lancinanti. Erano, prima ancora che del corpo, orgasmi della mente e del cuore. La nostra passione, il nostro amore era così totale che esasperava al parossismo il piacere fisico, lo esaltava, lo ingigantiva, lo esagerava. Io e lei, nudi, eravamo sempre gli stessi, eppure, ogni volta che ci incontravamo nella nostra nudità, ci vedevamo sempre diversi. Era come se facessimo l’amore per la prima volta, e sempre con furia, con esasperazione, selvaggiamente, quasi volessimo, per osmosi, fonderci, distruggerci. Più forte. Andavo e venivo dentro di lei sempre più forte, sempre più veloce. I miei testicoli non secernevano più nulla e la piccola bocca rossa del mio glande, quando lo spasmo del supremo godimento mi contrasse in un sussulto le natiche, non restò che a boccheggiare come un pesce soffocato dall’aria. Sentendo vicino il mio piacere lei con la mente accelerò il suo e, sollevandosi di botto e riaggrappandosi fortemente a me, venne in modo violento. Le mie mani, che la sorreggevano, avvertirono i suoi glutei sobbalzare, come se dentro di lei esplodesse una serie continua di terremoti. Il suo pube danzò sopra il mio pene per secondi che sembrarono eterni. Poi, fu la calma. Il piacere quella sera certamente mi avrebbe ucciso. Che mi importava. Ormai non avevo più nulla da chiedere alla vita. Sempre allacciati, mi accostai al letto. Vi adagiai prima lei, poi, svuotato, caddi, a ridosso delle sue gambe, di traverso, ai piedi del letto, “come corpo morto cade”. IV “Che fare? Il problema è davvero grande e reale. Non voglio dare un grande dispiacere a tua madre, ma nemmeno voglio perderti. Questa eventualità non esiste nemmeno sul piano del pensiero. Il nulla, puoi pensare il nulla? No. Ecco la mia vita senza di te è impensabile, come il nulla. Intanto il problema c’è. Come risolverlo? Non potremo nascondere a vita il nostro rapporto. Quindi, dovremo trovare insieme, prima, come fare accettare a tua madre che stai con un uomo più grande di te di trent’anni e, poi, farle magari capire – che è poi quel che è realmente accaduto – che è stata una incredibile combinazione che ci incontrassimo. Che io non sapevo assolutamente che tu eri sua figlia e che non lo immaginavo nemmeno lontanamente e che ci amiamo sul serio e che voglio sposarti appena lo deciderai”. Era ormai sera e stavamo sulla veranda, lei stretta in una giacchetta di lana color aragosta, io con uno giubbotto grigio di pelle. Anche se si era in autunno, ormai agli sgoccioli però, la serata era fredda. Davanti a noi le stelle, che come una cupola si calavano sul mare, si confondevano con le luci della città sotto di noi che stracciavano il velluto scuro della sera. Lei guardava lontano, almeno così sembrava. Non mi rispose per alcuni secondi che sembrarono ore. Poi, senza rivolgermi lo sguardo, fissando l’orizzonte lontano, disse, quasi parlando a se stessa, lentamente: “E tu credi che mi crederebbe? Con il risentimento covato per te da una vita, tu pensi che crederebbe ad una storia come questa. L’amore che aveva per te, proprio perché era grande, si è mutato in un risentimento, forse odio, altrettanto grande. Penserà che l’hai cercata, che hai saputo che s’era sposata nemmeno un mese dopo che vi eravate lasciati, che aveva una figlia e che ti sei rivalso sulla figlia per vendetta, per gelosia, per cinismo, per tutto quello che vuoi, non certo per amore nei miei confronti e che io sono ingenuamente caduta nella tua trappola. Potresti darle torto? E’ davvero credibile – non crederà mai che sono stata io a sceglierti per pura combinazione per difendermi da un teppista – che tra venti, trentamila giovani donne della città, guarda caso, vai ad incontrare e a innamorarti della figlia del tuo primo amore? Chi non crede nei giochi del destino non crederebbe mai ad una storia simile. Io stessa, che so in che modo ci siamo conosciuti, non posso nascondermi la bizzarria del caso. O del destino? Perché è certo che io ti amo, come sono certa che mi ami. Ma, se se quel deficiente non mi avesse molestata così pesantemente, io non sarei corsa a chiedere protezione a te. C’erano tante persone, tanti uomini più giovani, lì, sulla piazza. Perché istintivamente sono corsa verso di te? Istintivamente e naturalmente dico. Perché, pur se in modo rapido, ho dato una scorsa al viso delle persone che stavano lì in quel momento, ma fu solo il tuo che mi dette fiducia. Un volto buono, franco e tranquillo, che infondeva sicurezza, un volto di gentiluomo. Può essere tutto questo solo un caso? Non lo so, davvero non lo so. Anzi, in fondo, non lo credo. Forse saremo condannati a scrivere una pagina sofoclea? Quali divinità abbiamo offeso? Perché ti amo così intensamente da mancarmi il respiro? Perché ti sento mio così prepotentemente che vorrei rifugiarmi dentro le tue viscere, sotto la tua pelle. Perché ti voglio bene come forse non ho voluto a mio padre? E’ normale tutto ciò? Posso ragionevolmente pensare che in te ritrovo quella protezione e quella sicurezza che mio padre, non per colpa sua, poverino, non mi ha saputo dare dovutamente, visto che se ne è andato quando ancora ero una bambina e per questo mi sento bene; ma ciò non spiega l’ardore, la passione, la radicalità dell’amore che provo per te. E’ come se prima di conoscerti tutto fosse stato insignificante ed ora invece avesse acquistato una tonalità, un colore, solo perché ti amo e mi ami. Dall’istante in cui ti amai, l’universo divenne amore. E tu diventasti la condizione indispensabile della felicità della terra e della speranza dei cieli. Vicino a te il tempo scompare, scompare lo spazio, e un’ora con te risolve la mia intera esistenza. Prima di conoscerti la mia vita era senza ricordi, una sera con te è tutto il mio avvenire. Vedi questa bellissima sera. La vedo come una cuna che ci accuccia, ci custodisce e che si impreziosisce di stelle che sfavillano por noi, solo per noi. Questo sarebbe stato insulso romanticismo in altri momenti, ora lo trovo una carezza del creato che ci conforta perché ci amiamo”. Si riscosse di colpo, girandosi di scatto verso di me. “Credi nel destino? Possiamo tutto spiegare col caso e con la logica. Avrebbe senso la vita se tutto fosse spiegato con la logica? Secondo logica e scienza dovremmo essere un cumulo di atomi che si legano e funzionano in modo meccanico. Biologicamente spiegabile il nostro amore, la nostra attrazione, la nostra passione. Il nostro incontro rientrerebbe nel calcolo delle probabilità. Appetto a quelli che giocano alla roulette e non vincono mai, ce n’è uno che gioca una volta e vince venti volte di seguito, arraffando una sfilza di miliardi; ma, per la matematica, questa non è fortuna, perché, nella totalità delle giocate, quelle vincite rientrano nella statistica globale”. “Già”, rispondo io, “come la statistica che attribuisce a me, che non la mangio, una certa quantità di carne di pollo, solo perché c’è tanta gente che si ingozza di essa quotidianamente. Non lo so, Aura, davvero non so che risponderti. Mi rattrista pensare che, quando morirò, non resterà nessuna coscienza di me. Non ci sarò nemmeno come semplice intelligenza cosciente che continua a vederti, a vegliare, a consigliarti, anche se tu non te ne accorgeresti, e quel consiglio, ch’io ti soffio nell’orecchio, crederesti di averlo pensato da sola. Preferisco credere che qualcosa di cosciente di me sopravviva e che si allieterà di vederti anche se non può farsi sentire. Il destino, cioè una vita già tracciata. Da chi? Da noi che già siamo stati insieme in una vita precedente o da un dio chissà dove nascosto. Sai, i primi tempi che pilotavo un aereo, ammiravo estasiato le montagne, le vallate di nuvole che sovrastavo e mi aspettavo di vedere magari un semplice riflesso di Dio. Nello spazio, al di fuori della nostra atmosfera, c’è solo silenzio assoluto. “Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta”, diceva Pascal: anch’io mi sono ritrovato, molto spesso, con questo sentimento nel cuore. Ci sarebbe il suono delle stelle, ma col nostro orecchio non possiamo sentirlo, anche perché sono onde di luce che poi vengono tradotte in suoni da strumenti specifici. Eppure, se non crediamo in Dio, ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi. Non riusciamo ad arrenderci all’idea che siamo, come dici tu, un cumulo di atomi al più alto grado di evoluzione. Dio allora ci ha destinati. Ma, se ci ha destinati, troverà, o ci suggerirà, il modo di risolvere questa groviglio di problemi. Perché, se dobbiamo restare sul piano delle cose reali, ritengo pure io che tua madre si opporrà con tutte le sue forze al nostro legame e non riuscirebbe a farsene una ragione. Le avrei sottratto anche l’ultima cosa che dava un senso alla sua vita. Ho paura, amore mio tenerissimo, ho paura. Non voglio che tu scelga tra me e tua madre; ma, anche se tu dovessi essere costretta a fare questa scelta, il dolore di tua madre resterebbe. Ne potrebbe morire. No, davvero: questo non lo vorrei. Mi sentirei in colpa per tutto il resto della vita. Il tuo dolore sarebbe immenso e il suo fantasma sarebbe sempre in mezzo a noi. Fingere, forse fingere, ma per quanto? Di certo chiamerebbe tuo padre, chiederebbe a lui di intervenire per sapere con chi esci”. Lei ascoltava attenta, ma, nello stesso tempo, dal suo volto traspariva l’ebollizione della sua mente. Interruppe, così, il flusso logorroico dei miei pensieri. “C’è una sola soluzione, di cui col tempo potrà farsi una ragione. Fuggire, andare via da questa città, anche in un’altra nazione. Io le dirò solo che sto con un uomo molto più grande di me. Sì, questo glielo dirò. Lei farà di tutto per impedirmi di vederti. Io, alla fine, impossibilitata e stanca dei suoi divieti, le scrivo una lettera in cui la informo che vado a stare con te in un posto lontano e che, quando lei accetterà il nostro legame, ci potremo rivedere. Così, io mi farò sentire per telefono ogni giorno e non sentirà la mia mancanza in modo radicale e, siccome mi vuole bene, a poco a poco finirà per accettare il nostro rapporto. Io la verrò a trovare, trascorrerò qualche settimana ogni tanto con lei e tutto si stabilizzerà. Pazienza, farò la spola tra lei e te senza che voi due vi incontriate mai. Ma dovremo andare via di qui. Mi porterai in un posto meraviglioso, di cui nessuno avrà l’indirizzo. Che ne dici, non è la soluzione ideale?”. I suoi occhi ardevano d’amore e rovistavano i miei sicuri del consenso. Sì, poteva essere una soluzione. Doveva abbandonare, però, tutto ciò che la legava alla sua città natale, rompere in maniera traumatica con la madre che adorava. E tutto questo per me. Potevo accettarlo? Certo che potevo: non riuscivo a immaginare nemmeno per un giorno la mia vita senza lei. L’avevo nel sangue, nelle ossa, nel mio respiro. L’amavo perdutamente e con disperazione. Quante volte mi ero ripetuto: “E se un giorno si stancasse? Tra dieci anni avrò oltre sessant’anni, lei ne avrà trenta. La mia pelle si sarà fatta più spessa, le mie rughe più profonde, la mia prestanza fisica più blanda, il mio seme non avrà più la forza di schizzare e riscaldarle il ventre. Sarà un malinconico tramonto. Lei si allontanerà. E io? Che farò senza di lei? Vivrò dei suoi ricordi? No, non sarebbe accaduto. Farò così tanto l’amore da farmi scoppiare il cuore e morire sopra i suoi seni adorati”. “Sì”, risposi, mentre la stringevo sul mio petto.”Sì, se tu sei nel più profondo del tuo cuore decisa a lasciare la tua casa, i tuoi amici e, soprattutto, tua madre io sarò con te sempre e dovunque. Ti amo bambina mia e ho bisogno di te come la terra ha bisogno giorno per giorno di essere baciata dalla luce del sole. Decidi tu quando partiremo”. I suoi occhi raggiarono ancora di più. Sollevò la fronte verso di me rasserenata: “Dove mi porti? Tu che conosci i luoghi più belli del mondo, sceglierai per noi il posto più incantato. Una casa in mezzo al verde. Mi sentirò la più bella delle fate, Titania, e sarò, soprattutto, la custode della tua anima: io ti affiderò la mia e la farai danzare nel petto di questa piccola bambina”. Protese la bocca verso il mio viso e io non delusi quelle labbra anelanti d’amore. Non vedemmo, però, una stella che si oscurava nel firmamento, nero presagio d’un futuro che credevamo di sogno. Ché, sicuramente, la stella più luminosa si spense nel cielo, funesto avviso di morte. L’accompagnai alla sua utilitaria. Lei vi salì e si allontanò. Perché uno stilo di gelo trafisse il mio cuore?Era trascorsa qualche settimana. Avevamo tutto ormai pronto per partire. Avevamo scelto un piccolo paese della Normandia. Lei avrebbe potuto continuare lo stesso i suoi studi e dividere, intanto, i suoi sogni, le sue speranze e la sua giovinezza con me. Avevamo pensato di recarci dal commissariato locale per dimostrare, testimone la legge, a suo tempo, a Viviana che Aura partiva con me di sua spontanea volontà, che la lettera, che avrebbe lasciato alla madre, era stata scritta senza nessuna coercizione. Insomma, non desideravamo andare a finire nella trasmissione “Chi l’ha visto?”.Tutto accadde di prima mattina. Aura aveva finto di recarsi all’Università ed era invece venuta da me. Eravamo già l’uno nelle braccia dell’altra, nudi, nel nostro letto, quando il campanello suonò a più non posso. Chi poteva essere a quell’ora? Il postino forse. Data l’insistenza dello scampanellio, mi infilai i calzoni e, a torso nudo, andai a vedere di chi si trattasse. Perché non mi passò nemmeno lontanamente per la mente la natura del visitatore? Viviana, era Viviana. Gli anni non sembravano essere passati, nonostante la sua giovinezza fosse sfiorita. “Livio!”, riuscì solo a mormorare, esterrefatta. Sbiancò in viso e la vidi barcollare, tanto da doverla sorreggere. Pallida come la morte, si riprese dal leggero mancamento, liberandosi rudemente da me. “Livio… Questa è casa tua?…Che, che ci fai con mia figlia? Ché mi figlia è dentro causa tua. Di questo sono certa. Sono stata molto accorta nel seguirla e ho atteso ore per vederla riuscire. Avevo visto nella sua borsa un telecomando per cancello e l’ho fatto clonare. Più volte era riuscita a seminarmi, ma ieri sono riuscita a non perderla e ho visto che entrava in questa villa. Tuo figlio, vero? Aura sta insieme a tuo figlio?”. E queste ultime parole le pronunciò soffocata, sconvolta. Poi si mise quasi a gridare: “Non può, non può stare insieme a tuo figlio. Non può per nessuna cosa al mondo. E’ mostruoso, orribile, perverso. Fammi vedere Aura. Deve lasciare immediatamente questo luogo immondo, di perdizione, di peccato”. Avevo sempre pensato alla possibilità di questo incontro, ma la realtà era al di là di ogni immaginazione. Non riuscivo a parlare. La gola mi si era come bloccata, mentre il cuore sembrava perdersi in un pozzo senza fondo. Riuscivo solo a sbarrarle l’ingresso della massiccia porta. La donna che un tempo avevo amato era lì e mi terrorizzava e nel tempo stesso mi faceva tenerezza e mi veniva istintivo volerla difendere…da me stesso. Credeva che Aura fosse con mio figlio. Tanto mi odiava da definire il rapporto col mio ipotetico figlio “immondo”? Intanto, mi aveva suggerito l’idea di lasciarle credere che avevo un figlio. Solo per guadagnare tempo. “Sì, è con mio figlio”, riuscii a balbettare. “Solo da poco anch’io ho scoperto che fosse tua figlia. Si sono conosciuti per caso all’Università e si sono innamorati. Io non l’ho sentita entrare. Ho sentito solo ora lo scampanellare, perché ero qui sotto in cucina. No, non puoi salire. Lei è maggiorenne ed io sarei un imperdonabile villano se ti permettessi di entrare e fare una scenata. Tu ora te ne vai e, quando rientrerà a casa tua, ne discuterete. Ricordati che tua figlia è una donna innamorata come lo fosti tu un tempo”. Lei, però, non ascoltava le mie parole. Era solo inorridita, come se si trovasse di fronte al demone più mostruoso dell’inferno. “Allora, non vuoi capire, non vuoi”, proruppe con gli occhi sbarrati, come percorsi dalla follia. Tremava come se fosse stata assalita da una febbre da cavallo.”Non può, non deve stare con tuo figlio. E’ un’infamia, una sozzura, uno schifo. Orrore, è solo orrore. Io vi denuncio. Dovete lasciare in pace Aura. Mi fate ribrezzo tu e tuo figlio.Con la mia Aura. Come hai potuto permetterlo. Quando hai saputo, tu dovevi troncare la loro storia. Tu. Che dico tu. Se non hai avuto rispetto per me, cosa te ne può fregare della mia Aura”. Ero annichilito. Mi sentivo profondamente offeso, pur se non avevo un figlio. L’odio non può giungere a tanto. Poi, come se fosse impazzita, cominciò a urlare disperata: “Aura, Aura, Aura”. Non potevo fare uscire Aura. Sarebbe stata la fine. “Smettila di urlare. Resta qui. Salgo e la faccio scendere”. Si zittì. Chiusi la porta e salii nella nostra camera. Aura era rimasta accucciata sotto le lenzuola, come se non avesse sentito nulla. E, in effetti, non aveva sentito nulla. Vide il mio viso sconvolto e pallido e mi guardò interrogativamente, preoccupata. “Chi ha suonato?”. Ma pareva presagire la risposta. “Mia madre?”. Annui col capo. Balzò fulminea dal letto, cercando i vestiti, incespicando in essi, mentre cercava di vestirsi e cercandomi con gli occhi. Oh il cielo trepidante, impaurito, di quegli occhi! “Che faccio? Livio che facciamo?”. Le risposi stancamente, disanimato: “Pensa che stai con mio figlio. Ti ha seguita. Ha clonato pure il telecomando del cancello ed è dietro la porta. Non puoi immaginare cosa le è uscito dalla bocca. Il disprezzo. No, l’odio. Anzi, l’orrore. Le fa orrore che tu sia la donna di mio figlio. Figurati se sapesse che stai con me. Credo che impazzirebbe. Non avrei mai creduto che l’odio si potesse toccare con le mani. Io l’ho sentito schiaffeggiarmi come una pesante folata di vento. Le ho promesso che ti avrei fatta scendere. Usciremo insieme. Le chiederò che sia lei prima ad allontanarsi con la sua auto e poi te ne andrai tu. Guardavo il viso di Aura. Ne scorgevo il dispiacere, non la paura. Quella ragazza aveva deciso la sua vita e avrebbe tenuto testa a sua madre a costo di rompere con lei. Non era sconvolta come me. “Livio, chissà se, forse, non è stato meglio così. Chiarisco con lei tutto a casa. Insomma, non deve mica dormire lei con te. Ci devo stare io. E’ la mia vita. Lei non può decidere della mia vita. Le parlerò da donna a donna. Ti odia. Va bene. Accetto il suo odio, ma lei non può non accettare che io ti amo”. Ero impressionato e orgoglioso insieme. “Non essere così dura. Lasciale credere che si tratta di mio figlio. Forse così si sentirà ferita di meno. Poi partiremo e, forse, se ne farà una ragione. Difendi il tuo amore da donna, come dici, ma falle credere che si tratta di mio figlio. Le ho detto che vi siete conosciuti all’Università e che solo da poco abbiamo scoperto che tu eri sua figlia”. “Ti amo, mio capitano. Accompagnami su”. Ritornai all’ingresso. Sembrava invecchiata di vent’anni. Affranta, spettrale, ingobbita, senza nemmeno la forza di parlare. “Ascolta, ora Aura esce, ma dopo che l’avrò informata che te ne sei andata. Torna a casa. Lei ti seguirà immediatamente”. Lo spettro prese vita, si rianimò e sibilò nevrotica: “Noi dobbiamo parlare e subito, prima che Aura si riveda con tuo figlio. Farò l’impossibile perché non capiti più. Ma…anche tu devi imporre” e calcò dura la voce “a tuo figlio di non cercare più Aura. Quei due non devono stare insieme, non possono… per la vita e per la morte. Aspetto la tua telefonata”. Mi guardò disperata negli occhi, come se volesse comunicarmi qualcosa di innominabile. I suoi occhi si velarono per un momento, solo per un momento, di lacrime, poi, li distolse, repentina, dai miei e, lentamente, si avviò verso l’automobile parcheggiata poco distante sul viale. Quando la vidi uscire dal cancello, feci cenno ad Aura, che era dietro la porta, ed uscì pure lei. “Non stare in pensiero per me. Stasera o domattina ci rivedremo. Comunque vada, ti telefonerò. E’ mia madre. Mi vuole troppo bene per farmi del male”. Non ero tranquillo come sembrava essere lei. L’orrore, avevo visto l’orrore negli occhi di Viviana, come se, in vece mia, si fosse trovata davanti un cadavere decomposto rigurgitante di vermi. Ci baciammo, lei entrò nella sua auto, accese il motore e andò via.Rientrato in casa mi misi a vagare come un’anima in pena. Mille pensieri mulinavano nella mia mente. Quegli occhi, non riuscivo a togliermi dalla mente quegli occhi. Potevo capire un odio così totale e senza remissione se avesse scoperto che ero l’amante di sua figlia, ma perché un ostracismo così radicale anche per il figlio supposto? Perché, se avessi avuto un figlio, avrei dovuto impedirgli di stare insieme alla figlia della donna che un tempo avevo amato? Che colpa avrebbe avuto mio figlio? Non riuscivo a figurarmela così meschina e vendicativa. Sapevo che per lei il coloro grigio nelle scelte della vita non era mai esistito. Ma, perché mio figlio sarebbe stato il male, tenuto conto che, quando si erano conosciuti, non sapevano, né l’uno né l’altra, dei rapporti un tempo intercorsi tra i reciproci genitori. Possibile che fosse così radicalmente cambiata? E che sarebbe accaduto, se avesse scoperto che io, non mio figlio, ero l’amante di sua figlia? Un lampo squarciò il mio cervello e il mio cuore annichilì. Mi avrebbe ucciso. Sicuro: mi avrebbe ucciso. Quella donna non aveva ormai nulla, a suo avviso, da perdere. Sua figlia era tutto. Pensare a me, che facevo l’amore con lei, era un atto turpe, orripilante, insopportabile. Era più di uno stupro continuato, per il quale non c’era appiglio giuridico, ma solo la vendetta. Cancellarmi per sempre dalla vita di sua figlia e dalla sua. Parlare con lei. Mi chiedeva di parlare senza la presenza di Aura. Che senso aveva. Solo per sentirmi imporre di impedire a mio figlio di incontrarsi più con Aura. Ma, come si può impedire a un figlio di non vedere più la donna che ama? Come può, seppure con la mente ottenebrata dall’odio, pensare che, io da un lato e lei dall’altro, si potesse impedire ai nostri figli di stare insieme. Non riuscirono a farlo i Montecchi e i Capuleti, figuriamoci ai nostri giorni. Era allucinante, semplicemente allucinante. Si poteva scambiare tutto per un incubo ad occhi aperti. Non c’era nulla da dirci. L’unica cosa era fuggire dalla Sicilia, dall’Italia, il più presto e il più precipitosamente possibile. Plaudo al telefonino. L’avevo sempre detestato, ma mai lo sentivo così parte di noi. Potevo sentirmela vicina, se non con la voce, con gli sms. E, più rimuginavo sopra questa baraonda di fatti, più si accresceva la mia ansia per Aura. No, quella non ci stava più con la testa. Non era la prima madre che aveva ucciso la figlia nella sua follia. Aura era caparbia. Era dolce, ma era tetragona nelle sue scelte. Mi figuravo Aura che girava le spalle altera e decisa per aprire la porta e andarsene e Viviana con l’attizzatoio in mano che la colpiva con violenza alla testa, che si accaniva su di lei anche dopo che si era accasciata per terra. Colpisce senza pietà, in maniera nevrotica, il cranio della ragazza. Quella testa non deve pensare più a me. Ma a casa di Viviana non hanno attizzatoio. Va bene, e allora? La colpirà con un martello. Insomma, a poco a poco, davanti agli occhi della mia mente, Aura cadeva e si rialzava colpita in tutti i possibili modi da sua madre. “No, così non può andare. Io ammattisco”. Presi il telefonino e digitai un messaggio: “Amor mio, io sto impazzendo, sono terrorizzato per te”. E poi un secondo: “Se vedi che tua madre sconnette, dalle ragione. Dille che non mi vedrai più. Quando ti senti pronta, ce ne andiamo subito. Ti amo disperatamente”. A quest’ora già erano a casa e si stavano affrontando. Aura era sicura di sé, ma lei non aveva letto la risoluzione senza scampo negli occhi di sua madre. Perché mi ostinavo a vedere tutto finire in tragedia? E che era la prima volta che i figli se ne andavano di nascosto da casa contro la volontà dei genitori? Perché avevo questo folle terrore nel cuore? Non lo capivo. Era come se invece di Viviana dietro la mia porta avessi visto la morte con la sua falce. Era essa che aveva bussato alla mia porta. Dovevo pensar ad altro, diversamente sarei impazzito. Avere fiducia totale in Aura. Conoscevo ormai totalmente la mia “bambina” per sapere che tutto si sarebbe risolto per il meglio: lontani da qui io e lei insieme.Non saprò mai come Viviana arrivò a scoprire che ero io l’amante di sua figlia. Non saprò mai come venne a scoprirlo nell’arco di poche ore. So solo che, verso mezzogiorno, mi chiama Aura sul telefonino. La voce era calma, ma decisa, per niente apprensiva, né tesa: “Prepara i bagagli, l’indispensabile. Sto per arrivare. Portami in capo al mondo, dove vuoi, ma sempre con te. Ti amo, mio grande, unico, insostituibile, amore, ti amo”.Mi precipito nella mia camera, tiro giù solo una grande valigia per sistemarci le cose immediatamente indispensabili. Meno male che avevamo la stessa moneta sia in Italia che in Francia. Non avrei avuto problemi di cambio per il denaro che avevo in contanti. Per il futuro, più immediato, avrei pagato tutto con la mia carta di credito. In seguito, tramite banca, avrei ritirato tutti i miei soldi nel paese in cui ci saremmo trasferiti. Ero ancora indaffarato a riempire la valigia che sento dei passi lungo il corridoio che porta alla mia camera da letto. Aura. Bellissima come sempre. Gli stessi abiti del mattino. Si rifugia pronta tra le mie braccia. Mi soffoca con un bacio che pareva volesse risucchiarmi l’anima. Poi si stacca e, mentre mi guarda con gli occhi annegati da un amore senza confini, scoppia in lacrime. Un pianto convulso, irrefrenabile. Era l’adrenalina della tensione che si scaricava. L’accarezzavo dolcemente. Aveva bisogno di piangere. Le baciavo i capelli, gli occhi, le lacrime. Non avevo mai amato così tanto una donna, né avrei mai creduto che fosse possibile. Potevo solo ora comprendere, nella sua piena semanticità, l’espressione “ti amo più della mia vita”. La idolatravo: era il mio tutto, l’essenza stessa del significato di vivere. Poi si calmò e parlò. “Irriconoscibile, Livio, mia madre era irriconoscibile, folle, spietata. Avrebbe preferito vedermi morta che insieme a te. ‘Ti incateno ‘, mi ha detto. ‘Potrai fare pure la puttana, se vuoi, ma col figlio di quello lì tu non andrai più a letto, te lo impedirò con qualsiasi mezzo’. Sembrava una strega, non più mia madre. ‘Mi prendo le mie cose e me ne vado’, conclusi alla fine risoluta. Non c’erano discorsi, suppliche, promesse, giri di parole, perorazioni. Non c’era nulla che riuscisse a smuoverla. Mi impedì di entrare nella mia camera. ‘Allora, dissi, me ne vado con i vestiti che indosso’. Si parò davanti alla porta e risoluta disse: ‘Di qui tu non esci. Dovrai passare sul mio cadavere’. Ho visto la follia nei suoi occhi. ‘Chiamo papà. Farò venire lui qui’. Corse verso il telefono, lo tirò con violenza e lo scaraventò furente per terra. Cercare di rabbonirla, dicendole che non poteva avere dimenticato il bene che le volevo, che ero non solo sua figlia, ma la sua confidente, la sua amica, fu inutile. Che tuo figlio non poteva avere la colpa che addebitava a te, non l’ascoltava nemmeno. Non voleva e basta. Credo, a questo punto, forse, di essermi confusa, di avere detto ‘io amo Livio con tutta l’anima’. Non ne sono sicura, ma, in quel furoreggiare di botta e risposta, di valanghe di parole, di rabbia sul punto di esplodere, mi pare di avere detto così. Non mi ha lasciato nemmeno il tempo di inventarmi un nome. Ma sicuramente, feroce com’era, non m’avrà nemmeno capito. Aveva solo un chiodo fisso: rompere con tuo figlio, non vederlo mai più. Un linguaggio scurrile, inimmaginabile in mia madre. ‘Potrai farti tutti gli uomini che vuoi, farti chiavare, inculare, fare pompini anche all’ultimo degli uomini, ma con quello no. E’ peccato mortale, mortale’. Farneticava, era evidente. Alla fine ho fatto finta di cedere. E’ chiaro che non mi ha creduto. E pure lei ha fatto finta di cedere. Le ho detto che sarei venuta qui, che dovevo parlare con tuo figlio e che gli avrei detto di non vederci per qualche settimana. Capiva, forse, che non poteva tenermi prigioniera, né rimanere reclusa lei stessa: non può darsi ammalata per settimane, per mesi, abbandonare il suo lavoro. E, così, di colpo ha finito di sbarrarmi la porta ed è scomparsa in giro per la casa. Ti ho telefonato e sono arrivata qui. Ma, Livio, la sua arrendevolezza non mi ha convinto per nulla. Mi sono resa conto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per impedirmi di stare con te, col tuo supposto figlio. Prima partiamo e meglio è. T’aiuto a sistemare le tue cose in valigia. Per le mie dovrai pensarci tu non appena saremo arrivati in Francia”. E quest’ultima considerazione le fece schiudere le labbra in un leggero sorriso. Perché non riuscivo a sgravarmi il cuore dal nero presentimento che lo soffocava? “Aura”, dissi, “mentre tu sistemi, io prenoto l’aereo”. Chiamai l’aeroporto di Catania. C’erano due voli dell’Alitalia per Parigi: uno alle 13,00 e un altro alle 14,30. Alle tredici non saremmo potuti arrivare mai. Prenotai in prima classe per il volo successivo. Poi, telefonai ad un’agenzia di taxi e fissammo per le 13,15 l’ora in cui avrebbero dovuto venire a prenderci. Alle automobili mia e di Aura, che avremmo sistemato nella autorimessa della villa, avremmo pensato in seguito per il trasporto. Avevamo più di mezz’ora da passare insieme intimamente. Come se fossimo stati in perfetta sintonia, ci fermammo di botto entrambi, restammo per qualche istante immobili. Ci guardammo intensamente negli occhi e “scolorocci il viso”. Era supremamente bella. Lo stomaco si aggrovigliò di crampi. Ci accostammo lentamente, le presi tutte e due le mani e le portai, unite, alla mia bocca e, nel loro incavo, poggiai le mie labbra. Ne sfiorai leggermente la pelle con impercettibili baci, risalendo verso i polsi. La sentii rabbrividire come quando il mare si increspa sotto la carezza della brezza. La febbre d’amore cominciava a fluire irresistibile nelle nostre vene. L’attrassi a me. I suoi occhi due polle d’acqua su cui dissetare le mie labbra, attingendo blandamente. Scesi verso gli angoli della bocca. Lei aveva chiuso gli occhi e si abbandonava, il capo leggermente reclinato all’indietro, alle sensazioni che la trascorrevano. Scivolai, rifugiandomi, sul collo, morbido, tornito. Ricamai su di esso tutti i possibili disegni che deliziavano il mio cuore e trascorrevano di aghi di piacere la sua mente. Accarezzare il suo seno, sentirne la turgidezza sopra la stoffa della camicetta, avvertire il turgore dei capezzoli sotto la pressione delle carezze, era un sottile godimento per entrambi. Sfioravo col dorso della mano, sopra la stoffa leggera, i capezzoli già inturgiditi, che si irrigidivano sempre di più. Rabbrividivo, rabbrividiva sotto quei leggerissimi sfregamenti. Quei seni marmorei e vellutati insieme erano miei, ne potevo colmare a piacimento le mani con voluttà, stordire il viso che se ne beava mentre si perdeva in quell’incavo di sogno. Sgusciare, poi, furtivo sotto il tessuto di seta e scandagliarli bramoso, liberarli dal reggiseno che li fasciava e sentirne il tepore e la morbidezza della pelle calda ed allertata, ti ammollavano il midollo dentro le ossa. “I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli”, e io mi inebriavo del profumo di quei gigli. Lentamente la cominciavo a spogliare e lei, illanguidita e inebriata, si lasciava spogliare. Era come se una intensissima luce imprigionata, raggio dopo raggio, straripava da ogni angolo del suo corpo, man mano che la liberavo dai vestiti. Percorsi poro dopo poro con la mia bocca, con la mia lingua, la sua pelle dal costato via via sempre più in giù fino a quando brillò il suo giardino dorato. L’Eufrate, nell’Eden, non conobbe rive più levigate e l’erba che le tappezzava non era certo più fresca e fragrante degli steli spolverati di sole che impreziosivano il tumido mistero della mia fanciulla. Ne aspirai intensamente il profumo, mentre con un dito ne accarezzavo il solco, una ruga rosa nel ventre della terra. Solo un dito si deliziò a vellicare quella crepa che schiude dall’alba della vita la nascita dell’uomo. Bello, bello. Vi poggiai le labbra e il vello sobbalzò con il tesoro che custodiva. Vi trascorsi la lingua prima blandamente, poi più decisamente. Le rive si schiusero e, come dalle onde del mare, sotto la violenza del magma che ne squarcia il fondale, emerge la cresta di un’isola, apparve la cima infuocata del suo dilettevole segreto. Pronto con le dita allargai le rive infuocate e con la lingua cominciai a levigare quella cresta turgida che invocava il piacere. E lei gemette e venne e gemette ancora e ancora venne. Si adagiò sul tappeto per terra, le cosce abbandonate sulle mie spalle, mentre la mia bocca continuava a frugare instancabile nella sua intimità fragrante. Lo voleva, lo chiedeva, lo supplicava, il mio sesso. Reclinò le gambe all’indietro, verso la fronte, inarcandosi e appoggiandosi solo sulle spalle e sulle braccia e quel fiore di carne, schiuso come una rosa sanguinante, impudicamente esposto, implorava di essere penetrato. Con le gambe appena reclinate, che inframmezzavano una delle sue ripiegate all’indietro, dall’alto, come un ariete, scesi dentro di lei, mentre con le mani mi poggiavo sui glutei e, sospingendola in avanti, la aiutavo a mantenere quella ginnica posizione. Il mio sesso scorreva con colpi di maglio dentro il suo, mentre il suo miele straripava come una lava sulle falde di un vulcano. Poi, ero io coricato e lei accavallata su di me, coi piedi appoggiati per terra, però con le mani distese sopra i lati opposti del mio bacino. Era una sensazione inesprimibile. Non ero io che penetravo lei, ma lei che scendeva sul mio sesso e ne risaliva con una velocità sempre maggiore fino a mugolare come una belva ferita. Sempre più veloce, sempre più veloce, fino a che le mie gonadi espulsero il loro contenuto. Si sollevò, quindi, si accoccolò a ridosso delle mie gambe e, chinato il capo sopra il mio sesso, se ne riempì la bocca, facendolo sussultare quasi di dolore, ma lei non se ne curò. Lo palleggiò nella bocca fino a quando non se ne sentì soddisfatta. Poi mi venne accanto e si abbandonò sul mio petto. Ogni volta quel rapporto febbrile con la mia Aura, da un lato mi sfiniva, ma, dall’altro, mi apriva orizzonti di serenità, appagamenti dell’anima sconfinati. Nei momenti che seguivano i nostri amplessi, mi sentivo in pace e in armonia compiuta con il mondo. Viviana in quei momenti era scomparsa. Allungai di più il braccio sopra la sua spalla e la mano raccolse amorevolmente una sua mammella, solo per il semplice piacere di sentirne il tepore, la morbidezza. Ma, come accadeva puntualmente, il capezzolo svettò prepotentemente. “Guarda che sono un vecchietto; non posso sostenere le lotte d’amore come un ragazzo della tua età”, mi rivolsi a lei sorridendo. Lei sollevò gli occhi, ammantandomi con quella carezza tinta d’azzurro che mi liquefaceva il cuore, e, sorridendomi, mi disse: “La colpa è tua. Mi provochi. Il mio seno è sensibilissimo, almeno nei confronti delle tue mani. Tu lo stuzzichi e lui si inalbera e non solo lui, ma pure il faraglione delle mie grotte nascoste. E allora, di qui, la voglia irresistibile di accucciarmi tra le tue gambe e di sentire il tuo turgido e caldo desiderio pigiare sul mio boschetto o scivolare sotto il perineo tra le mie cosce che smaniose lo serrano frementi. Io gli voglio bene, come se fosse un bambino, un figlio da proteggere e da accontentare. Noi ne avremo di figli, vero? Io sono cresciuta in solitudine. Mi sarebbe piaciuto avere un fratello e una sorella. Però più grandi di me: mi avrebbero così coccolata. Tre figli. Ti darò tre figli: una femmina e due maschi. La femmina tutta per te e i maschi tutti per me”. Tenera, dolce deliziosa, profondamente bambina. Come si poteva non amarla. Se fossi stato un canguro con una borsa tanto grande da contenerla tutta, l’avrei custodita sempre dentro di me”. “Ma perché hai scelto un nonnino, invece di un aitante ragazzo?”, chiesi divertito. Esistono, sai, i ragazzi delle mia età che non sono mezzo deficienti, ma sono rari e, comunque non sono in grado di reggere la tua esperienza. Io non ho avuto rapporti sessuali prima che con te, ma, secondo quello che mi raccontavano le mie amiche, non è che poi fossero così esaltanti, tranne qualche eccezione. Un ragazzo della mia età, a letto, pensa solo al suo piacere, non a quello della sua compagna, o, se ci pensa, ha paura di non essere all’altezza e finisce così per non gratificarla lo stesso. I ragazzi si spaventano di noi donne, specialmente se siamo colte e indipendenti. E, poi, inconsciamente apprezzano relativamente la nostra bellezza e la nostra giovinezza. E’ cosa che possiedono pure loro e non possono – non sono in grado, – considerarla in tutta la sua luminosità. Tu vezzeggi la mia giovinezza, la decanti, la bevi, la veneri, la esalti, ti inebri di essa e mi fai capire quanto essa sia importante, perché troppo fugace, e la fai apprezzare pure a me in un modo che, avendo accanto un compagno giovane, non avrei potuto. Ma idolatri anche il mio corpo nella sua sessualità. Per un mio coetaneo una ragazza vale l’altra. Vogliono solo conquistare, perché vogliono solo esplorare. Loro sono convinti che la donna smani di essere penetrata da un cazzo lungo e grosso. Proiettano su di noi quelli che sono i loro desideri e le paure del confronto con gli altri maschi. Una donna non si vergogna della sua nudità di fronte a un’altra donna, l’uomo sì, ma più che vergogna è paura di confrontarsi col pene dell’altro. Non si rendono conto, proprio perché mancano di esperienza, di educazione sessuale, che la vagina avvolge qualsiasi membro, tranne che non sia microscopico. E, quindi, se sa come usarlo, ottiene lo stesso effetto che se ce lo avesse lungo e grosso. Ma, appunto, se sa come usarlo. Il sesso è un fatto mentale. Io, già con le tue tenui carezze vengo, perché nella mia mente hanno echi immensi di voluttà. La medesima carezza fattami da un altro mi sarebbe del tutto indifferente. Capisco, non fosse altro che ne hai sperimentato su di me tante che non immaginavo neppure, che le tecniche dell’amplesso sono importanti al fine del raggiungimento di un maggiore godimento, ma, al fondo, c’è l’intesa, l’empatia, il fuoco che ti brucia le carni e ti cola nelle ossa, che non ha a che vedere col sesso, ma con una chimica particolare propria di due persone che si vedono speciali l’una per l’altra. Io, quando penso che tu desideri la mia giovinezza, la mia bellezza, che la proteggi e la custodisci come una santa reliquia, prima ancora di rifugiarmi tra le tue braccia, già mi esalto, mi eccito, immaginando le tue sensazioni, che solo quelle due caratteristiche già ti danno. Non ti libererai di me, mio vecchio capitano. Mi piacerà essere venerata sempre come una dea. Tu mi fai sentire come se fossi l’incarnazione della bellezza, l’Afrodite dei greci”. Ripiena di me ed appagata, il suo corpo nudo splendeva d’un bagliore quasi accecante. Era supremamente bella da non capire più niente, da non volere più niente. Un osannah di serafini m’inebria il cuore. Il tempo si raccoglie e foggia e spinge in superficie un calice di rosa: l’universo rampolla e, rorida dal bagno primordiale, emerge lei, dea, donna, signora del mio cuore. Luce che esplode, stelle che danzano: i suoi occhi d’azzurro. Polla di vita i suoi capezzoli rosati: il firmamento vi sugge la sua linfa. I primi cirri iridescenti strusciano e velano con voluttà la giada del suo seno. L’orizzonte stira il suo arco e s’inonda d’oro: il vello biondo del suo pube esposto s’inarca e schiude l’incanto delle labbra. Pago d’amore il sole dal suo grembo sorge e rubizzo vivifica il creato. Mi scuoto dallo stordimento cosmico che le sue forme costringono a foggiare nella mia mente abbacinata dalla sua bellezza. Accarezzarla appena con lo sguardo, mentre assapora la risacca blanda della passione appena consumata, ti istiga con prepotenza a naufragare nella libidine che il suo corpo canta. “E’ tempo di avviarci. Forse il tassista è fuori che ci aspetta”. “Il sapore di te dalla vagina ricolma la mia bocca. Ogni goccia di sangue, ogni mio neurone di te è impregnato. Abbandonarmi al rezzo del piacere che defluisce nelle mie carni e nel mio cervello e gustare con serena calma il tuo sapore, questo vorrei. Aspetta ancora un poco”. “No. Alzati. E’ tardi. Avremo tutto il tempo del mondo per amarci, sentire la tua vita scorrere nella mia, e la mia che agogna tuffarsi nella tua”. Mentre, ormai rivestito, raccoglievo la valigia, lei, dopo essersi stiracchiata, cominciò indolentemente a vestirsi. Non potevo guardarla. Era una tentazione. Finalmente era pronta. Eravamo nel salone, quando sentimmo il campanello. Guardai al citofono: era il tassista che ci invitava a scendere. Gli aprii il cancello. Avevamo appena rinchiuso la porta dietro di noi e visto il taxi parcheggiato col muso rivolto verso l’uscita del cancello, che, come per incanto, catapultata da un anfratto dell’aria, si materializzò la figura di Viviana, vestita completamente di nero, il volto terreo e deformato dalla pazzia. In mano campeggiava una pistola. “Non partirai con mia figlia. Non mi ucciderai una seconda volta. Pagherai il tuo conto. Ti cancellerò dalla mia vita, da quella di mia figlia”. Gli occhi stravolti della follia furoreggiavano d’una decisione omicida. Mi avrebbe ucciso. Ed Aura lo capì. “Mamma, non farlo. Calmati, non farlo. Non sei un’assassina. Sei la donna più dolce e tenera del mondo. Non puoi, non sai sparare. Mamma, vengo con te. Ti giuro. Non sparare. Lo lascio. Lo farò per sempre”. E quasi si frappone tra lei e me. “Viviana”, quasi balbetto, con le braccia e le mani sospese un po’ a mezz’aria, “non puoi fare questo. Uccidermi non mi cancellerà dalla tua mente. Peggio, t’inseguirà ogni istante il mio fantasma, seguendomi presto nella tomba. E Aura resterà per sempre sola con gli occhi intossicati del mio sangue e a maledirti sino a che avrà vita. Per questo l’hai cresciuta, perché ti odi? Ché l’amore grande che ti porta, si tramuterà in fiele, se mi uccidi. Io l’amo, più della mia vita. Uccidimi se vuoi, ma dal cuore, dalla mia mente, non potrai estirpare nemmeno una stilla dell’amore che ho per tua figlia”. “Questo è il giorno dei giorni”, sibilò con voce roca, irriconoscibile. “Non sono mai venuti i giorni in cui mi avresti dovuto amare, non sono mai venuti, ma, di quell’amore mi hai lasciato un pegno, che ora vuoi carpirmi, mia figlia. Sì, è il giorno dei giorni, per rinascere e per morire. Sono io che nasco, tu, invece, muori”. Vidi come a rallentatore il dito che spingeva indietro il grilletto e insieme lo scoppio dello sparo e Aura che volava a farmi scudo con un grido da straziare il cielo – “Nooooo!” – e che si accascia per terra. “Aura”, mormoro incredulo, mentre il mondo mi si oscura, “Aura” e mi chino a raccoglierla. Un filo di sangue serpeggiava intridendo, all’altezza del seno sinistro, il biancore della camicetta. “Livio…, amore… mio… grande…, perdonala”. Fu solo un tremito e il viso cadde da un lato, come un fiore reciso. Oh tenerezza di quel fiore! Certo, non ci basteranno gli anni nel loro impassibile scorrere, nemmeno l’eternità, a stemperare l’orrore e il dolore incommensurabile di quell’attimo. Non vidi più nulla da quell’istante. Rimasi pietrificato, con il suo capo sollevato tra le mie braccia e miei occhi sbarrati sul suo viso. Poi fu il mio urlo, il mio “no” gridato fino a squassarmi i polmoni e poi fu solo la notte. Aprii gli occhi dopo due giorni di delirio e febbre in un lettino d’ospedale. Accanto a me sedeva una donna, che riconobbi dopo per una cara amica, che, per qualche tempo, era stata una delle mie compagne, l’unica, che, chiuso il rapporto sentimentale, m’era rimasta amica, vera amica. E lei mi fece il puntuale resoconto di quanto avvenne dopo che persi i sensi. Il tassista, sentito il colpo di pistola, era sceso immediatamente dall’automobile e aveva bloccato Viviana, che, però, avendo visto la figlia accasciarsi per terra, aveva lasciato cadere la pistola, rimanendo immobile, e mormorando in modo monomaniaco solo queste parole: “Era sua figlia, non potevo…”. Le ritennero frasi senza senso. O meglio, le attribuirono a lei sdoppiata, a lei, che, rigettando l’orrendo delitto, attribuiva alla parte buona di se stessa la maternità di Aura, che la parte cattiva di sé aveva ucciso. Ma, forse, quelle parole avevano un senso e spiegavano ciò che io avevo ritenuto un odio sordo e sconfinato. O, meglio, l’odio era tale, ma non si riduceva solo a questo. Viviana si era sposata un mese dopo che si era lasciata con me ed Aura era nata prima dei nove mesi. Un dubbio atroce, istante per istante, mi lacera il cervello e certamente porterà anche me alla follia. Aura era, forse, mia figlia (“il pegno di quell’amore”, Viviana aveva detto). Lei per rancore non me lo aveva rivelato. Anzi, per punirmi e, incosciamente, per punirsi aveva sposato di corsa il figlio del socio di suo padre, che la corteggiava anche quando era fidanzata con me, il cui matrimonio il padre di lei caldeggiava. Io dovevo sapere. Avrei richiesto di fare l’esame del DNA. Viviana era ricoverata in una clinica psichiatrica, non riconosceva nessuno e, ogni tanto, a chi le rivolgeva una domanda qualsiasi lei, col suo sguardo totalmente perso nel vuoto, rispondeva: “Era sua figlia, non potevo…”. Forse era impazzita per sempre, ma, in fondo, questa era una fortuna per lei. Ma per me? Ci vorrà del tempo per sapere se era mia figlia. E, se così fosse, cosa cambierebbe? Forse il dolore potrebbe accrescersi di più di quello che ha dissecato il mio cuore e nullificato la mia vita? Ogni giorno sono a piangere e a discutere sulla sua tomba che mi si affaccia in un trionfo di fiori, che lei amava così tanto. Lei è ancora una bambina. Chissà quale freddo e quanta paura la attanaglia in quel buio così totale. Io le davo sicurezza. Non posso lasciarla sola. Stendermi su questa lastra di marmo, la renderebbe più tranquilla. Dormire vicino a lei, amante e figlia mia…
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