Un tempo era “Ca’ Marco”, con un leone alato su ogni colonna. Quel nome rimase anche dopo che sul portale di pietra era apparsa l’aquila bicipite degli Asburgo. Poi, sulle colonne furono scalpellati, a sbalzo, i fasci con la scure bipenne. Due le teste dell’aquila, due i fasci, due le lame d’ogni scure. La gente cominciò a chiamarla “Ca’ de Do’”, “Dom Dva”, ma il Segretario Politico, che pure vi aveva stabilito per qualche mese il suo centro di potere, non si domandò mai il perché di quel nome. Il trascorrere degli anni l’aveva resa più grigia che mai, il portale era annerito, nulla ricordava il lustro conferito dal rappresentante della Serenissima e dall’inviato dell’Imperatore. Il portone, ben curato, era sempre imponente. Il vecchio pozzo, nel vasto cortile, conservava ancora la carrucola, vuota, e il coperchio arrugginito. Sotto il sedile di pietra era accatastata la legna. I vani del piano terreno erano chiusi da pesanti battenti scuri. Di fronte, al centro, iniziava la scala. Gradini lunghi e bassi fino al pianerottolo, da dove si dipartivano le due rampe che conducevano al primo piano, proseguivano per il secondo e poi, divenute più modeste, portavano alla soffitta. La grondaia, da poco rifatta, girava intorno al tetto, accoglieva l’acqua della pioggia, la convogliava in un angolo e la riversava, attraverso un grosso condotto, nella cisterna centrale. Nel punto in cui il tubo spariva nel terreno, tra le grosse lastre di pietra, s’era formato un sottile strato di muschio, come un velluto smeraldo. «Ca’ de Do’» era quasi deserta. Solo il secondo piano era abitato: due famiglie, madre e figlia, ognuna col proprio cognome, quindi due cognomi, due donne e due uomini, rispettivamente figli e fratelli delle donne, più un bimbo in tenerissima età. Usavano unicamente la porta grande che s’apriva al centro del ballatoio, le altre, più piccole, laterali, erano state chiuse, e nel corrispondente vano interno, dove si sarebbero aperte, erano stati messi degli attaccapanni, nascosti da pesanti tende di velluto scuro. Era, in sostanza, un unico appartamento che occupava tutto il piano. L’ingresso, ampio, prendeva luce dalla finestra circolare che stava sulla porta d’entrata, protetta da un’artistica grata. Nel mezzo, un pesante tavolo di legno scuro con una composizione in ceramica, frutta colorata, su un merletto di filo écru. Alle pareti alcune vecchie oleografie e, accostate, delle sedie. Dal soffitto scendeva un bel lampadario di ferro battuto: un cerchio con sei candele elettriche che emanavano una luce rossiccia. Il pavimento di legno, lucidato a cera. La donna mi aveva accolto con un sorriso di cortesia e mi guardava con fare interrogativo. “Buon giorno signora, mi manda Magnani.” “Ah! Prego, signor tenente, accomodatevi.” Attese che entrassi, chiuse l’uscio e s’avviò verso la porta centrale che conduceva in un salone arredato con semplicità. Mobili senza la pretesa di formare un salotto ma più eleganti di quanto sarebbe servito per un semplice tinello. Nell’angolo, tra i balconi che affacciavano sulla piazza solitaria, due poltroncine e un tavolino basso. Mi fece cenno di sedere, e prese posto sull’altra poltroncina. Alta, slanciata, vestita semplicemente ma con molta cura. I capelli, raccolti in una lunghissima e grossa treccia nera, lucidi, formavano una scura matassa serica tenuta insieme da un civettuolo nastrino rosso. Le mani, attentamente curate, cercavano di nascondere la consuetudine con i lavori domestici. Il volto aperto, sorridente, la pelle dorata e liscia. Occhi verdi, labbra non grosse e ben disegnate. Poteva avere quaranta anni. Forse di più. Difficile stabilirlo, per il giovanile modo di muoversi, di camminare, di sedere. “Questa é la stanza che noi pomposamente chiamiamo ‘salone’, ed è comune ai due appartamenti. Adesso, però, viviamo tutti in quello sud. L’altro è chiuso per risparmiare luce, riscaldamento e il lavoro delle pulizie giornaliere.” Il pavimento era lucidissimo, perfettamente tirato a cera. Vicino alla porta, alcune pattine. Mi scusai per non averle usate. In effetti, non le avevo notate fino a quel momento. La donna scosse il capo, sorridendo, e disse che neanche lei se ne era servita, come potevo vedere. “Voi siete qui per la camera, vero?” La voce era calda, vellutata, con una lieve sfumatura di raucedine, quasi volesse parlare in sordina. Pronunciava le parole lentamente, con una leggera piacevole cadenza, molto simile a quella dei Triestini. “Sa” -seguitò- “i tempi sono difficili e dobbiamo aiutarci come si può. Mio marito è lontano, richiamato alle armi, e i due ragazzi hanno bisogno di tante cose. Venite a vedere la camera. Se sarà di vostro gradimento avremo tutto il tempo per parlarne e certamente ci metteremo d’accordo.” Si alzò. “Vi faccio strada.” Tornammo nell’ingresso, andò alla porta di sinistra, l’aprì. Un corridoio alquanto buio, illuminato da due lampadine poco splendenti nei tersi globi di vetro. Ai lati e sul fondo, porte di legno con lucide maniglie d’ottone. Si fermò e indicò una tenda a destra. “E’ l’ingresso secondario che dà sul pianerottolo.“ Senza muoversi, seguitò: “A sinistra la stanza da pranzo, ma noi, ora, consumiamo i pasti in cucina. Quindi, la camera dei ragazzi, Stano e Mario, poi il bagno, la cucina e, di fronte, un piccolo ripostiglio. La porta successiva è la camera che occupo io, ed ecco quella che intendiamo affittare. Nell’ultima c’é Ela, mia figlia, col suo bambino di pochi mesi. Il marito è imbarcato, militarizzato, su un’unità adibita al trasporto di truppe e materiali.” Si avvicinò ad una porta, l’aprì. “Questa é la camera disponibile.” La stanza era ampia, luminosa, parati chiari, mobili di noce, molti specchi: sul comò, sulla toletta, sulle ante degli armadi. Il pavimento di legno, a cera, splendeva. Subito dopo l’uscio, a sinistra, un tavolino con una sedia, poi una porta chiusa, senza maniglia, il comodino a fianco del letto accostato alla parete; nell’angolo la toletta con una poltroncina, quindi il balcone, di fronte alla costa rocciosa dominata dal vecchio castello. Proseguendo, il comò e, sull’altra parete, il grosso armadio a due sportelli. La signora cercava di leggere in volto le mie impressioni. “E’ una bella camera” -dissi- “forse anche troppo grande per me. Devo conoscere, logicamente, le vostre richieste prima di decidere.” “Certo” -replicò lei, cortesemente- “venite che vi offro quello che dovrebbe essere un caffè. Se non vi dispiace lo prenderemo in cucina, come se foste un altro mio figlio. Quanti anni avete, se posso chiederlo?” “Quasi ventuno.” “La stessa età di Ela. Noi da queste parti usiamo sposare abbastanza giovani. Io non avevo ancora diciannove anni. Anche Ela, del resto, aveva la stessa età quando ha sposato Mirko.” Nella vasta cucina mi fece sedere accanto al tavolo. Prese una piccola ‘napoletana’, e la riempì con una polvere nera conservata in un barattolo che stava nella credenza. La mise su un fornello a spirito. Restò in silenzio fin quando l’acqua iniziò a bollire. Capovolse la macchinetta, la portò sul tavolo. Stese un bianco tovagliolo, vi pose due tazzine, i cucchiaini, una piccola zuccheriera. Venne a sedersi di fronte. Accavallò le gambe. Non indossava calze. Le caviglie erano snelle, il polpaccio ben modellato. Mi fissò negli occhi, con un lieve sorriso nel volto. “Quanto volete spendere?” La risposta mi uscì spontanea, improvvisa, senza essere stata ponderata, senza valutarla. “Quello che mi chiederete.” Sembrava assente quando sussurrò qualcosa che non capii. (Mi sembrò udire, Kamo srece! magari!.) Si riprese subito e la richiesta corrispose esattamente alla cifra che avevo deciso di destinare al fitto della camera. Proseguì. “E’ chiaro che provvederemo noi alla biancheria da letto e da bagno e alla pulizia della camera. Lo scaldabagno è a legna, dovremo intenderci sul quando vorrete usarlo. Non c’è bisogno che mandiate l’attendente per fare queste faccende. Scusate, ma non gradisco molta gente per casa.” Quella specie di caffè era filtrato, lo versò nelle tazzine, scoperchiò la zuccheriera, prese il cucchiaino che era dentro. “Quanto?” “Solo mezzo, grazie.” Mi porse la tazzina sul piattino dov’era il cucchiaino. “Io lo prendo amaro. Sono abituata all’amaro.” E i suoi occhi furono attraversati da un velo di tristezza. Si sentì un lieve fruscio nel corridoio. Come se si risvegliasse all’improvviso, ricompose il volto rivestendolo del solito vago ed enigmatico sorriso. “Dev’essere mia figlia col bambino. Tornano dalla passeggiata. Ela, son qui, vien qua.” Sulla porta apparve una giovane donna, quasi una ragazza, vestita di bianco: gonna svasata, corpetto senza maniche, un po’ attillato sul seno rigoglioso. Sandali bianchi, senza tacco. Gambe lunghe, affusolate, che salivano a modellare la pregevole curva dei fianchi. Il volto roseo, allegro, sorridente, gli occhi d’un azzurro scintillante, profondo, in cui ci si sentiva sperdere, lunghe ciglia, un piccolo nasetto su perfette labbra vermiglie, il collo d’alabastro, un ricco manto di biondi capelli sulle spalle. Il bimbo che aveva in braccio tese le manine alla nonna. Nel porgerlo, Ela allungò le braccia mostrando le ascelle dorate. “Ela, questo è il nostro inquilino. E questa è Ela, mia figlia, col piccolo Roberto.” Mi alzai per salutare la nuova venuta. Mi tese la mano. Bianca, morbida, curata, ma decisa nella stretta. “Sono Giorgio Santin. Mi auguro di non arrecare eccessivo disturbo nella vostra bella casa.” Ela mi interruppe. “Eventualmente sarete voi ad aver fastidi da Roberto, e forse anche da Stano e Mario che sono alquanto rumorosi. Non li avete ancora conosciuti, vero ? Credo che siano in palestra, perché qui di lavoro neanche a parlarne, e Stano ha già diciotto anni e la licenza complementare. Mario deve ancora finire gli studi, lui dice che vuole fare il pilota militare, ma chissà cosa lo aspetta nella vita.” Mi tese nuovamente la mano, prese la mia e la scosse con vigore. “Benvenuto a «Ca’ de Do’», perché la chiamano così, lo sapete? Ma avrò tempo per raccontarvene la storia, se non vi annoierò.” Mi sembrò opportuno parlare del piccolo. Mi complimentai: era bello e ben cresciuto, poi presi commiato dicendo che sarei tornato verso sera e che, intanto, vi avrei fatto portare il mio bagaglio. Presi dal portafoglio l’importo del primo mese di fitto e lo posi sul tavolo, accanto alla tazzina di caffè ormai vuota. La madre di Ela ebbe un gesto di sorpresa. “Non c’era bisogno di tanta fretta. Volevo dirvi che, se non avete impegni, saremmo lieti di avervi a cena con noi. Sapete, un pasto modesto, sia nella qualità sia nella quantità, ma vorremmo salutare la vostra venuta. E saremo lieti se potremo avervi con noi anche le sere future.” Si voltò verso la figlia. “Vero Ela?” “Vrlo dobro! Benissimo, mamma, se il signor Tenente ci farà l’onore della sua presenza festeggeremmo l’ingresso del nostro primo inquilino che, però, vorremmo considerare soprattutto un amico.” Ero restato in piedi, da quando era arrivata Ela. “L’invito è un dono inatteso e gradito, mi fa sentire non estraneo nella vostra casa. Grazie, sono felicissimo di accettare. Quel ‘signor Tenente’, invece, mi allontana tanto. Visto che sarò a cena con voi, questa sera, e spero in cucina, dove, come mi è stato detto, consumate abitualmente i pasti, non vi sembra che io sia solamente Giorgio?” “E io sono Ela.” Disse la bella mamma di Roberto. “Ma tu… scusate, ma voi siete una signora, è un’altra cosa.” “E allora? Sono vetusta?” Non seppi dire altro. “Io sono Katia, la… vecchia nonna.” -intervenne la padrona di casa, salutandomi- “Ela accompagnalo alla porta, io resto qui con Roberto.” Giunto sul pianerottolo, Ela mi sorrise tendendomi la mano, che indugiò nella mia. “Ciao Giorgio, ci vediamo a cena, zdravo.” L’unica torta che riuscii a trovare fu una specie di pan di Spagna addolcito col miele in luogo dello zucchero, imbottito di crema e ricoperto di panna. Non potevo, certo, portarla attraverso il centro del paese, né affidare l’incarico all’attendente. Sarebbe stato buffo vedere un soldato, fucile a bracc’arm, col grosso pacco della pasticceria. Pregai il venditore di provvedere alla consegna, e lasciai una mancia con la preghiera di non accettarne altra dal destinatario. Il bagaglio era stato ritirato dall’albergo e il facchino, con un vecchio e cigolante triciclo, si era incaricato di portarlo nella nuova abitazione. Lo incontrai che tornava dopo aver effettuato il trasporto. Si fermò, ringraziando ancora per la camicia nuova che gli avevo regalato e per dirmi che mi ero anche disturbato a dargli del denaro, mentre per quel servizio non ci sarebbe voluto niente. “Go’ messo tuto ne la camara. Xe veramente comoda, sior tenente, e la se troverà ben. Bela gente, vero? Gà vedùo che roba?” Risalì in sella e si allontanò con un rumore di vecchia ferraglia. Mi avviai verso «Ca’ de Do’», salii lentamente le scale, tirai il pomolo d’ottone che sporgeva a destra della porta. Dopo pochi istanti, senza che si fosse udito alcun passo, la porta si aprì. La signora Katia indossava un vestitino chiaro e attillato, appena coperto da un grembiulino con la pettorina bordata di rosso vivo. Aveva un’aria giovane, sbarazzina. Ai piedi le pattine. Quando si accorse che con gli occhi andavo cercando, sul pavimento, quelle che avrei dovuto usare io, il volto le s’illuminò con un sorriso. “No staga a preocuparse, no ghe xe bisogno che le porti anca lu.” Arrossì e si affrettò a giustificarsi. “Scusatemi, ma noi, in genere si parla in dialetto, quasi veneto, o in croato.” Entrai e misi i piedi sulle pattine di feltro. Sorrisi a mia volta, rassicurandola. “E’ bello il dialetto veneto, lo comprendo e mi piace moltissimo, è dolce, musicale, confidenziale. E’ la prima lingua che ho parlato, fin dall’asilo. Inoltre, desidero apprendere un po’ di croato.” La guardai con ostentata ammirazione. “Bel vestito, signora, così siete la sorella bruna di Ela.” Il volto della donna si distese, sparirono anche le due sottili rughe che erano comparse sulla fronte. “Hvala! Grazie, troppo buono. E’ un complimento, non la realtà. Grazie. Volevo dirvi che hanno portato una bellissima torta. Credevamo che il ragazzo avesse sbagliato. Non c’era biglietto. Ha detto che era stata ordinata dall’ufficiale venuto da poco e abbiamo capito che eravate voi. Non ha voluto neppure essere ringraziato, è scappato subito via. Immagino che sia per la cena, ma non dovevate disturbarvi. Ela, golosissima, ha battuto le mani per la gioia, ha subito preso un po’ di panna con un dito e poi ha cercato di nascondere il furto riappianando la parte toccata. E’ arrivato anche il bagaglio. Il facchino ha preteso di portarlo lui stesso in camera vostra. Se volete, possiamo pensare noi a mettere tutto a posto, nell’armadio, nei cassetti, salvo che non vi siano cose riservate che volete curare personalmente.” “Non ci vuole alcun ringraziamento, è l’unico dolce che ho trovato. Nel bagaglio, di riservato c’è solo una scatola di legno, chiusa a chiave, con dei documenti. Chiedo scusa ma devo tenerla così, del resto la conserverò in un cassetto. Grazie di cuore per l’interessamento, ora dovrò aprire la valigia, per cambiarmi, poi vi lascerò le chiavi di tutto. A proposito di cambiarmi, non ho vestiti per mettermi in borghese, quindi devo restare in divisa perché non credo opportuno presentarmi con la giacca del pigiama.” “Potete venire come volete, in divisa, con la giacca del pigiama, in camicia come saranno i miei figli. Noi siamo gente alla buona, senza alcuna etichetta. Ma adesso è meglio fare quello che dobbiamo, voi nella vostra camera, io in cucina. Se non avete nulla in contrario, andremmo a tavola fra un’ora.” Si fece da parte per farmi passare. Le cedetti il passo e, dietro di lei, mi avviai verso la mia camera. Avevano messo, vicino alla toletta, un asciugamano grande e due piccoli; sul comodino, in un vassoio, una bottiglia piena d’acqua, con un bicchiere. Tolsi il cinturone, lo appesi all’attaccapanni tra il comò e l’armadio, estrassi la pistola dalla fondina e la riposi nel cassetto del comodino. Poggiai la giubba sulla spalliera della sedia, sciolsi la cravatta e levai la camicia, la misi vicino al cinturone. Aprii il baule e presi cacciastivali e pantofole. Dopo poco ero in pigiama e pantofole. Uscii nel corridoio, andai nel bagno per rinfrescarmi. Rientrato in camera, dalla valigia tolsi il ‘necessaire’ che conteneva quanto serviva per radermi, pettinarmi, lavarmi, e lo sistemai sulla toletta. Restai un po’ dietro i vetri del balcone, a guardare il grigio del castello. Indossai un paio di pantaloni abbastanza stirati e una camicia, infilai gli stivali, misi la cravatta. Mancava mezz’ora per la cena, avrei potuto mettere a posto gli effetti personali, ma avevo voglia di non fare nulla. Uscii nel corridoio. Dalla cucina giungevano rumori soffocati e un parlottare a bassa voce. Mi schiarii la voce. Come se qualcuno fosse stato in ascolto, si aprì la porta e comparve Ela. Indossava una gonna scura, che le affinava i fianchi, e una comoda camicetta di cotone bianco, abbottonata sul davanti. Mi salutò con la mano, sorridente, restando sulla porta. “Ah, Giorgio. Dobro vece, buonasera. Venite, c’è posto per tutti. Parliamo piano perché Roberto dorme, dopo la poppata. Anzi, andiamo a vederlo. Piano, faccio strada.” Attraversò il corridoio, si fermò accanto alla porta della sua camera, adiacente alla mia, restò ad origliare, con la mano sulla maniglia, l’abbassò lentamente, senza alcun rumore, aprì con molta cautela e mise dentro le testa. Si voltò verso di me e fece cenno di avvicinarmi. Le pattine scivolavano silenziose sul pavimento. Quando le fui accanto mi prese per mano e mi fece entrare nella camera avvolta dalla penombra. Accanto alla porta, tra il muro e il letto matrimoniale, stava la culla di Roberto, contornata da un vistoso nastro celeste, coperta con un velo che scendeva dal legno sagomato che la sovrastava. Ela avvicinò il dito alla bocca, per raccomandarmi silenzio. Si curvò sulla culla. Roberto dormiva beato, con i pugnetti chiusi. Lei lo guardò con tenerezza, gli occhi lucidi. Si fece un po’ da parte perché lo potessi vedere da vicino. Cercai di dirle con lo sguardo che era un bambino meraviglioso, mi guardò fisso, serrò le labbra, mi strinse la mano. Uscimmo silenziosamente, com’eravamo entrati. Ela chiuse la porta. Senza lasciare la mia mano andò verso la cucina. Parlò piano, sottovoce, come per tema di svegliare il bambino. “Piace anche a lui, mamma.” Forse, solo allora si accorse che stringeva la mia mano, come se così si sentisse sicura, protetta. La lasciò lentamente, senza aprire del tutto la sua, in una lunga carezza. Sedette sulla sedia poco discosta dalla tavola imbandita. M’indicò la sedia accanto. Andai a sedere li, guardando tovaglia, tovaglioli, piatti, bicchieri, posate… La signora Katia disse che andava a chiamare i ragazzi e uscì nel corridoio. Ela si alzò, io le andai vicino. Additò i posti. “Stano siede a capotavola, al posto di papà, alla sua destra l’ospite con vicino la mamma; dall’altra parte Mario ed io. Va bene?” Entrarono due giovanottoni, alti, robusti, volti aperti, simpatici, occhi verdazzurri, capelli castani. Indossavano pantaloni scuri e camicie chiare. La signora Katia li seguiva. “Tenente Santin, questi sono i miei figli, Stano e Mario.” Due vigorose strette di mano, e ci sedemmo nei posti indicati da Ela. Prima ancora di spiegare il tovagliolo, la signora Katia si fece il segno della croce, imitata dagli altri. “Noi usiamo dire una piccola preghiera prima d’ogni pasto e non vorremmo perdere l’abitudine. La diciamo in croato.” Anch’io risposi ‘amen’ al termine del breve ringraziamento, pur senza averne capito le parole. La cena fu ottima e abbondante: sformato di verdura, coniglio al forno, con patate, uva. Il dolce, anche se autarchico, era delizioso. Il vino fresco ed invitante. Ela non diceva mai basta quando le riempivo il bicchiere. Al termine comparve una bottiglia di frizzante che animò ancor più la conversazione che si svolgeva quasi sottovoce per non svegliare Roberto. Dopo molte insistenze, Stano e Mario, nonostante lo sguardo della madre non esprimesse approvazione, accettarono di darmi del tu. Il frizzantino, pjenusavo vino, dette il colpo decisivo. La signora Katia fu la prima ad alzare il calice. “Alla salute dei nostri cari lontani, con l’augurio che questo stato di cose finisca presto e bene e che loro tornino sani e salvi. Che Mirko conosca il figlio, Dario il nipote. Alla salute di Roberto, che possa crescere in un mondo più giusto.” Ci levammo in piedi, i calici in alto, dicendo insieme ‘alla salute!’, poi tornammo a sedere. Ela ruppe il silenzio. “ ‘Prosit!’ Alla salute dei presenti, e degli assenti, e che il Signore ci dia la forza di attenderli in serenità. Alla salute di tutti. Alla salute di Giorgio.” Si chinò verso me, tendendo il calice, rivelando la rosea carnalità del seno . Toccai il suo bicchiere e la ringraziai, e così feci con gli altri. Mario andò a prendere una grossa coppa di vetro, vi versò il resto dello spumante e disse solennemente: “Quando si è amici si deve bere tutti nello stesso bicchiere, all’uso di montagna. E’ il segno che si è legati per sempre. “ La signora Katia cercò di ridicolizzare la cosa, dicendo che erano ragazzate, ma anche Stano intervenne osservando che si trattava di una cosa seria: solenne promessa di solidarietà, d’aiuto reciproco. Bere nello stesso calice è la massima espressione di fraternità, d’amore cristiano, concluse. Mario porse la coppa alla madre. “Mamma, devi cominciare tu.” “No, facciamo iniziare al tenente.” “Prima la padrona di casa” -osservai- “ha ragione Mario. E poi, per favore, sono Giorgio.” La signora Katia prese il grosso calice, lo portò alle labbra, fece un piccolo sorso, passò sul bordo la parte pulita del suo tovagliolo. “E adesso ?” Chiese, tenendo la coppa tra le mani. “E’ la volta dell’altra mamma.” Dissi. Il calice passò a Ela che vi fece un lungo sorso e, senza asciugarne l’orlo, lo porse a me: “Ora è il turno dell’ospite.” Bevvi anch’io, ma non feci in tempo a prendere il tovagliolo che Ela mi tolse la coppa dalle mani e, senza girarla la riportò alla bocca, soffermandosi in un altro lungo sorso, poi passò accuratamente l’angolo del tovagliolo dove aveva posato le labbra e dette il bicchiere a Stano. “Non devi leggere i miei pensieri, tu !” Fu la volta di Mario. Che, dopo aver scolato tutto, si rivolse alla madre: “Mamma, se permetti, noi andiamo, perché ci aspettano, e il coprifuoco arriva presto.” La madre fece un cenno di assenso col capo. Si alzarono, salutarono, uscirono Mi congratulai con la signora Katia per la deliziosa cena e per la simpatica cordialità dei suoi ragazzi. Mi pose distrattamente la mano sulla gamba dicendo che ci voleva una tazza di quel liquido nero che si insisteva a chiamare caffè. Si alzò per prepararlo. Roberto cominciava a farsi sentire. “Ela, va a vedere, forse vuole il ciuccetto.” “Vado, mamma.” Si alzò, mi tese la mano. “Andiamo.” Il bambino aveva aperto gli occhi e guardava la luce del lume, sul comodino, azzurrata con un foulard. “Il padre non lo conosce.” Disse Ela. Prese in braccio il bambino e sedette sul tappeto accanto al letto. Sbottonò la blusetta, tirò fuori una mammella, gonfia, ricamata di venuzze, e l’avvicinò al piccolo che, avido, vi si attaccò subito. “Ha poppato da poco, ma così beve anche lui lo spumante col quale abbiamo brindato.” Col solito gesto mi fece segno di sedere sul letto. Era morbido. “La mano… Molim… Per piacere…” E mi tese la sua, calda, tremante, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime. 2 Cambiamento d’ambiente, letto diverso, o chissà cosa, fatto sta che non riuscii a riposare bene, quella notte. Era appena giorno quando, curando di non fare rumore, andai al bagno portando il necessario per lavarmi e radermi. A quell’ora dormivano ancora tutti. La notte era trascorsa silenziosa. Non avevo udito rientrare i ragazzi, né s’era sentito piangere Roberto. Rientrai nella mia camera e mi vestii. Avrei letto qualcosa nell’attesa dell’ora di dover uscire. Sentii picchiare leggermente alla porta. Come il grattare d’un gatto. La maniglia s’abbassò lentamente, l’uscio si socchiuse. Ela, in vestaglia, i capelli sciolti, portava un vassoio coperto da un tovagliolo. “Ho sentito gente già sveglia e ho pensato che ci volesse una bevanda calda. Disturbo?” Non attese risposta, si avvicinò al tavolino e vi posò sopra il vassoio, lo scoprì in parte mostrando una caffettiera, un bricco col latte, un piatto con dei biscotti scuri. “Solo per me?” Chiesi. Scosse il capo, tolse del tutto il tovagliolo. Comparvero due tazze. Avvicinò al tavolino la poltroncina della toletta e la sedia. Sedette sulla sedia e fece il solito gesto d’invito battendo la mano sulla poltroncina. “Perché io in poltrona ?” “Il trono spetta all’uomo.” Rispose con fare provocatorio. Prese i tovagliolini che aveva portato e ne mise uno davanti a me e uno davanti a lei, vi posò, sopra, le tazze. Così muovendosi, la leggera vestaglia si apriva sulla camicia da notte trasparente. Si accorse del mio guardare e, senza smettere ciò che stava facendo, sorrise maliziosamente: “Attento, la realtà potrebbe deludere. A quest’ora devo essere assolutamente impresentabile e credo che la camicia rechi il segno che, di notte, esce del latte dal seno.” Aveva finito di preparare il tutto. “Pronti” -proseguì- “e buona colazione.” Si chinò verso di me, come per baciarmi. Si rialzò di scatto, seria, pallida, i lineamenti del volto tirati, stringendo le mani. Aveva cambiato voce. “Chiedo scusa, un attimo di distrazione. O forse no? Ero immersa nei miei pensieri, abbandonata alla fantasia che per un momento mi ha fatto sognare. E nel sogno ho sempre desiderato una realtà diversa da quella vissuta. E’ passato tanto tempo da quando preparavo la colazione a Mirko. Prima di cominciare a mangiare, quando era tutto pronto, gli davo un bacio, ero io a darglielo, breve, fugace, giacché se indugiavo finivo col desiderare e pretendere quello che lui avrebbe… sbrigato in fretta e controvoglia, perché gli si raffreddava la colazione e a lui seccava molto. Restavo delusa, digiuna più che mai. Ma lui non se ne accorgeva. O non gli interessava. Spero di essere scusata.” Parlava senza guardarmi, impersonalmente. Lentamente, andava riprendendo il colorito. Le presi la mano e la baciai lievemente. Avvicinò le sue labbra alle mie, con la mano dietro mia nuca mi attirò a sé con forza, mi baciò avidamente. Si staccò di colpo, bagnò un biscotto nel latte e cominciò a mangiarlo come se nulla fosse accaduto, mi sorrise dicendo: “Mangia qualcosa, chi lavora deve mangiare.” Inzuppò un altro biscotto nella sua tazza, ne mangiò un pezzetto e poi me lo porse. Bevve un sorso e avvicinò la tazza alla mia bocca. “Bevi qui, così saprai di me quello che nessuno non ha mai saputo. Buona giornata, io torno da Roberto.” Prese la sua tazza e uscì dalla camera. Dopo un po’ portai il vassoio in cucina, da dove proveniva qualche rumore. La signora Katia, in vestaglia blu elettrico, serica, cangiante, che le aderiva come se le fosse incollata alla pelle, preparava le colazioni. Mi volgeva le spalle, non s’era accorta di me. I suoi fianchi attraenti, invitanti, erano particolareggiatamente modellati in ogni delizioso dettaglio. I capelli, neri con qualche filuzzo d’argento, le carezzavano le belle spalle. Al mio saluto si voltò, poggiando la schiena al lavello. La stoffa, tesa sul seno, metteva in evidenza i capezzoli eretti. Restò immobile, fissando il vassoio che avevo messo sul tavolo, con un sorriso tra l’ironia e la curiosità. “Buon giorno. Vedo che c’è chi ha già pensato alla vostra colazione. Avete dormito bene? Non mi sembra che Roberto abbia piagnucolato, questa notte. Neppure la luce della camera di Ela dovrebbe darvi fastidio. Davanti alla porta di comunicazione abbiamo posto un armadio, e il grosso feltro su cui poggia dovrebbe impedire che la luce filtri. Com’è stata la prima notte? Perché per voi è la prima notte, vero, in questa casa?” M’interrogava cogli occhi, mi scrutava, quasi volesse leggermi dentro. Mi passò davanti, andò alla credenza, si alzò sulla punta dei piedi per prendere un barattolo sulla mensola, in alto. Così protesa la vestaglia aderiva ancora di più e quando, abbassando una delle mani, si aprì, vidi chiaramente che quello era l’unico indumento che indossava. Non si scompose più di tanto. Tornò alle colazioni. “Io devo sentirmi libera di muovermi” -disse- “non riesco a dormire stretta in camicie da notte e tanto meno in pigiami. Sono un essere primitivo, selvaggio. Dovevo nascere e vivere nei boschi. La mattina girerei per casa senza nulla addosso. Sopporto a malapena perfino gli abiti leggeri come questa vestaglia. Chissà che concetto vi fate di me dopo tutto quello che ho detto, ma a me piace parlare chiaro, dire come la penso, cosa voglio, senza stare tanto a girare intorno al problema. Sono un po’ matta, vero?” Aveva parlato tutto d’un fiato, volgendomi le spalle. Si voltò di scatto. Gli occhi improvvisamente illuminati d’una strana luce, le narici frementi. Mosse qualche passo verso il tavolo, barcollando. Le andai incontro per sostenerla. Le passai un braccio dietro la schiena, la mano sotto l’ascella. Afferrò la mano stringendola al seno, sodo. Sfiorai il capezzolo, sobbalzò. La feci sedere. La vestaglia, aperta, scopriva le cosce che tremavano visibilmente. Cercai un bicchiere, volevo prendere l’acqua dalla caraffa. Scosse la testa. “No, non voglio bere. Non voglio niente. Sto bene, non chiamate nessuno, aiutatemi ad andare nella mia camera. Non dite niente a Ela, né ai ragazzi. Aiutatemi voi.” Cercò di alzarsi dalla sedia. La sorressi. Mise il suo braccio sulla mia spalla e andammo, così, nella sua camera. Il letto era già rifatto. Il balcone, che aveva la stessa esposizione del mio, era spalancato. L’accompagnai al letto, l’aiutai a stendersi sopra. Volevo scostare le coperte per coprirla. Fece segno di no. Restò supina, con le braccia lungo il corpo, le labbra dischiuse, il respiro un po’ affannoso. Mi venne spontaneo di carezzarle i capelli. Mi prese la mano, la fece scendere sul cuore. “E’ questo che funziona male. Grazie, non disturbatevi oltre. Non vorrei che vedendovi qui si spaventassero. Grazie.” Mi prese la mano, vi depose un lungo bacio. Le lacrime le rigavano il volto, bagnavano i capelli, cadevano sul cuscino. “Grazie, Giorgio, grazie.” Uscii piano, chiudendo la porta dietro di me. Quando mi trovai solo, nella mia stanza, al Comando, ripensai a quello che era accaduto nelle ultime ore. Una casa strana, stranissima. La figlia ricordando quando portava la colazione al marito, che la lasciava insoddisfatta, un altro po’ mi stacca le labbra. La madre si sente selvaggia, le piacerebbe girare per casa come se fosse in un campo nudista, non sopporta nemmeno una leggera vestaglia, e si fa quasi venire un colpo. Mah, forse sarebbe bene togliere le tende. E pensare che ho già pagato un mese anticipato. Peccato, perché la camera è comoda, pulita, accogliente. Devo pensarci bene, però, perché andando avanti così finirei più matto di loro. Ci devo riflettere. Forse basterebbe evitare di incontrarla, quella gente. Solo buon giorno e buona sera quando si esce e quando si rientra. Dopo mensa tornai a casa per riposare. Fui costretto a bussare perché non mi avevano dato le chiavi. Dovevo chiederle. Mi aprì la signora Katia. Allegra, sorridente, pimpante. Tanto che non osai chiederle come si sentisse. Mi precedette nel corridoio, aprì la porta della mia camera. “Ho messo a posto tutta la vostra roba. Ho stirato le camicie, che s’erano arricciate nella valigia. La fotografia di quella bella ragazza, la vostra fidanzata vero?, l’ho messa sulla toletta. Forse è il posto migliore. Comunque se non siete d’accordo potete sempre cambiarlo. E’ veramente una splendida ragazza, deve essere bellissimo fare l’amore con lei, vero?” La guardai serio, seccato. “Non ho mai fatto l’amore con quella ragazza!” Si fermò di fronte a me, e mi fissò. Mi tolse di mano il cinturone e andò ad appenderlo all’attaccapanni. Tornò verso me, come volesse dirmi qualcosa, poi andò alla toletta. “Vi dispiace se siedo qui un momento ?” “No, prego.” -risposi freddamente- Riprese, insistendo. “Allora fate l’amore con le altre?! Con chi? Mica, per caso, con le…, o…” La interruppi visibilmente irritato. “Non c’è bisogno di proseguire o di abbandonarsi all’immaginazione. Non ho fatto l’amore con nessuna donna !” Quella provocazione m’aveva indispettito e avevo risposto d’impeto. Ora mi sentivo a disagio. S’alzò, si avvicinò a me. “Mai ? A ventun’anni ?!” “Mai !” “Oh, pilence, pulcino, poareto, vien qui, fiòl.” Mi strinse al petto, forte. Non era facile svincolarsi. “Pilence -seguitò- vien dalla mamma, vien da Katia.” Mi abbracciò ancora. Poi uscì senza parlare, scuotendo la testa. Andai sul lungo balcone. Sulla destra, oltre il finestrino del ripostiglio, la camera della signora Katia, e girando si giungeva alla cucina; dall’altra parte si andava alla sala da pranzo, che adesso non si usava, poi, molto più largo, cominciava il balcone del salone comune. Tornai in camera. Scrissi qualche lettera. Lessi il giornale che avevo comprato. Non riuscivo a riposare. Certo avrei fatto meglio a non dire quello che avevo detto, ma mi era sembrato l’unico modo per troncare la conversazione. Meglio così. Uscendo, mi affacciai in cucina dov’era la signora Katia: “Per favore, vorrei le chiavi, così non dovrò disturbarvi ogni volta che rientro.” “Certo, avete ragione. Le ho date per farne fare le copie, questa sera le riporterà Stano.” “Grazie e arrivederci.” “La staga ben, ma non dica più bugie, arrivederci.” La sera cenai a mensa. Al ritorno, Ela mi aprì la porta. “Ciao, come si va ? Le chiavi sono pronte, sono in cucina.” Si avviò verso il fondo del corridoio. Dalla credenza prese le chiavi e me le dette sorridendo. “Fretta di andare a letto? Se vieni qui facciamo due ciàcole. Possiamo prendere un grappino, se vuoi. Roberto dorme, i ragazzi sono fuori con gli amici, la mamma è andata a cena dalla sorella. Hanno sempre mille cose da dirsi. Mi fai un po’ di compagnia?” Feci di sì con la testa e andai in camera, per togliere cinturone e giubba, poi nel bagno a lavarmi. Quando tornai, Ela aveva preparato due bicchierini e la bottiglia della grappa. “Scusami un momento” -disse- “aspetta sul balcone, si sta bene fuori, questa sera.” Si alzò e andò in camera sua. Uscii sul balcone e, poggiato alla ringhiera, mi misi a guardare nel vuoto. Ela, tornata, era alle mie spalle. Si era gettata quasi su di me. Con una mano entrò nella mia camicia. Sentivo il suo petto sulla mia schiena, il suo grembo. Mi voltai piano. Restò così, con la testa un po’ discosta dalla mia, e mi guardava negli occhi. “E’ molto bella la tua ragazza.” Sospirò profondamente e si strinse ancor più a me quando sentì di avermi turbato, eccitato. Sussurrò, provocante, muovendo i fianchi: “Dev’essere meraviglioso essere la prima donna di un uomo, specie se lo si desidera. Meraviglioso, inebriante, impagabile.” Katia aveva parlato. Lo sapevo che dovevo stare zitto. A quest’ora Katia lo avrà già detto alla sorella e poi lo saprà il vicinato, quindi tutto il paese. Ela strofinò il suo nasino contro il mio. “Giorgio sei un raro esemplare. Credo di non aver mai conosciuto uno come te, così attraente, così gentile, così…” Incollò le sue labbra alle mie e le dischiuse con la sua lingua prepotente e curiosa. “Rientriamo” -sussurrò- “potrebbero vederci. Andiamo nella tua camera.” Tolse la bottiglia della grappa dal tavolo, rimise a posto i bicchierini. Quasi mi trascinò nella camera. Mi accorsi che quando m’aveva lasciato sul balcone era andata a mettersi in vestaglia. Ma questa é la casa delle donne in vestaglia! E’ abitudine di famiglia. Accese la luce centrale e quella sul comodino. “Voglio vederti, Giorgio, e devi vedermi.” Sedette sul letto, il volto acceso, gli occhi scintillanti, i capelli scompigliati. Il movimento del seno disse che non aveva reggipetto. Per sfida, per metterla a disagio, glielo chiesi. “No” -rispose candidamente- “non indosso niente sotto la vestaglia. Guarda. Nista, niente.” Si alzò dal letto e l’aprì. Deglutii a fatica. Ero io a sentirmi a disagio. Non sapevo cosa fare, come sarebbe andato a finire. Avveniva tutto così in fretta. Ero in una situazione mai immaginata. Una donna splendida, bellissima, fresca, invitante, che conoscevo solo da qualche ora. Provavo un vago senso di smarrimento di timore. Avrei dimostrato la mia inesperienza. Sarebbe stato un fallimento. L’avrei delusa. Avrebbe riso di me. Eppure era un momento che avevo sempre desiderato. E se, invece, era solo un perfido giuoco il suo? Ela tornò a sedere sul letto, con la vestaglia aperta, poggiando le spalle al muro. “Guardami Giorgio Devi guardarmi. Attentamente. Devi conoscere il mio corpo, il corpo della donna. Lo devi conoscere bene, in ogni suo particolare, in ogni sua espressione, in ogni suo momento. E dovrai essere tu, solamente tu, a decidere. Vidieti, poznati, birati! Vedere, conoscere, scegliere! Vedi, questo è il seno della femmina che nutre la sua creatura. Questo è il ventre che l’ha teneramente custodita per lungo tempo. Questo il grembo dal quale è venuta alla luce. Lo stesso che ha sussultato nel ricevere il seme che l’ha generata. Tu devi comprendere tutto ciò, devi sapere come la donna agisce, vibra, freme, impazzisce. Solo la conoscenza può portare alla scelta, alla decisione. Accosta la tua bocca al mio seno, assapora il tepore d’un latte come quello che anche tu hai succhiato. Poni il tuo orecchio sul mio ventre, e ascoltane la musica. Metti la tua mano tra le mie gambe, guarda le labbra rosa che custodiscono la fonte della vita e del piacere, schiudile, assisti allo sbocciare e al palpitare del desiderio, al raggiungimento dell’estasi che sarai tu a donare. Disseta la mia arsura con le tue carezze, con i tuoi baci. E i tuoi occhi devono partecipare a ciò. Solo allora saprai quello che vorrai. Se mi vorrai.” Sfiorai il capezzolo, rubandogli qualche goccia tiepida e dolce, ascoltai la musica del suo ventre, rimasi incantato di fronte al cespuglio d’oro che nascondeva il suo sesso, lo frugai, lo carezzai con dita tremanti, lo sentii dischiudersi, vidi il bocciolo che si sporgeva offrendosi. Lo toccai appena, timidamente. Ebbe un fremito. Lo sfiorai con la lingua. S’irrigidì. Lei mi pose le gambe sulle spalle. Dalle labbra le uscì, soffocato: “Da… da… sì… si…” Si protese verso me. “E’ stupendo, amore, ma così non mi vedi. Tu devi vedermi.” Tornò nella posizione prima. “Carezzami, tesoro, carezzami, è bellissimo.” Seguitai a carezzare, ancora ed ancora, mentre tutto mutava, assumeva diversa dimensione, si trasformava, diveniva vermiglio, si agitava, impazziva, sussultava. Inarcò la schiena, scivolò sul letto sporgendo il bacino. Era un rantolo fioco, roco. “Krasan… da… jos… krasan… bellissimo… ancora… evo… evo…” Non riusciva a soffocare il grido che le urgeva in gola. Tremava tutta, spingeva e ritraeva i fianchi. I suoni che le uscivano dalle labbra erano incalzanti, sempre più forti. “evo… evo… ecco… ecco… evooooo !” Si fermò quasi di colpo, il turgido bocciolo tra le sue gambe tornava pian piano a nascondersi tra le pieghe incantevoli che per la prima volta mi avevano mostrato la loro palpitante vita. Ela poggiava il capo al muro, una mano abbandonata sul lenzuolo, l’altra stretta al seno, semisdraiata, col bacino sulla sponda. Gli occhi aperti, rivolti verso l’alto, immobili. Le labbra dischiuse mostravano il candore dei piccoli denti. Il petto gonfio, coi capezzoli scuri e turgidi, andava smorzando il respiro affannoso. Il ventre continuava a muoversi in un’onda senza fine. M’accorsi d’essere in ginocchio, sul tappeto, col volto tra le sue gambe. Mi passò la mano tra i capelli. Mi strinse forte a sé. Mi prese il volto tra le mani, dolcemente, si chinò su di me e mi baciò delicatamente, chiudendo gli occhi. Poi mi guardò. Col gesto che ormai conoscevo mi fece cenno di sederle accanto. Mi sussurrò nell’orecchio: “E’ il mio corpo, Giorgio. Hai visto?” Prese il lobo del mio orecchio tra le labbra e cominciò a sfiorarlo lentamente con la lingua. Mi passò un braccio dietro la schiena. Con l’altra mano cominciò a sbottonarmi i pantaloni. Mi fissava. Le narici dilatate. La voce bassa, gutturale, affannata… “Adesso io devo conoscere te.” Insinuò le sue dita affusolate nei pantaloni, nell’apertura delle mutandine, afferrò il mio sesso che balzò fuori, prorompente in tutta la sua spasmodica erezione. Sempre guardandomi, sgranò gli occhi, interrogandomi con lo sguardo, sorpresa, poi si volse a ciò che teneva ben stretto nella mano, come temendo che potesse sfuggirle. “Madona benedeta cossa ti gà. Xelo maestoso, imenso! Blistav! Golem! Bajan! Si chinò coprendolo coi capelli, lo pose sul palmo di una mano e con l’altra lo carezzò lentamente. Lo strinse, serrando le labbra. Si chinò ancora. Lo baciò a lungo. “Che beo, che spetacolo, che incanto, xe il re, e mi go’ la so’ regina, da kralj… da kraljica…” Si alzò con fare incantato. Si avvolse nella vestaglia e si avviò alla porta. Si voltò. “Sutra, div… sutra… domani.” E uscì. 3 Avevo fatto scorrere l’acqua fredda sul collo, sul volto, sui polsi. Avevo bevuto a piccoli sorsi. Scuotevo la testa, come a volervi scacciare qualcosa che stava sopra, dentro. Sedetti sul bordo della vasca e mi asciugai lentamente. Stava passando. Erano stati momenti terribili. M’ero alzato dal letto per fermarla, per afferrarla, per fare qualcosa pur non sapendo cosa e come. Mi sentivo travolto da un gorgo al quale non riuscivo a salvarmi. Non sapevo nuotare! Avevo preso l’asciugamano ed ero corso nel bagno. L’acqua fredda aveva un po’ spento quel violento bruciare dei sensi che stava divorandomi. Dovevo scappare da quella casa. Mi avevano accolto per farne il loro zimbello. L’indomani sarei andato via. Quando uscii dal bagno per tornare nella mia camera, la signora Katia era in cucina. Non avevo sentito che era rientrata. Avevo la testa sotto l’acqua. Venne sull’uscio e mi rivolse uno smagliante sorriso. “Buona sera, eccomi di ritorno. Quando vado da mia sorella si fa sempre un po’ tardi.” Mi scrutò da capo a piedi. In effetti ero vestito in modo strano. Stivali, pantaloni sbottonati, camicia aperta sul petto, capelli bagnati, spettinati. “Scusate” -bofonchiai- “non sapevo che eravate tornata, non vi ho sentito. Ho mal di testa e sento che non riuscirò a dormire.” Mi venne incontro. Mise la mano sulla fronte. “Siete fresco, non avete febbre. Volete un bicchiere di latte, una camomilla?” “No, grazie, mi servirebbe un sonnifero.” “Quando si è soli serve spesso un sonnifero, a chi lo dite! Andate a letto, vi porterò una pillola e un bicchiere di latte tiepido. Andate, sembrate sconvolto.” E rimase ad assicurarsi che tornassi in camera. Entrai in camera. Sfilai gli stivali Mi spogliai, indossai il pigiama, misi la camicia sulla spalliera della sedia, sulla giubba, il resto lo appesi all’attaccapanni. Sedetti vicino al tavolino in attesa della signora Katia. Un lieve bussare alla porta e, senza attendere risposta, entrò recando un piccolo vassoio con un bicchiere di latte e un piattino sul quale era una grossa pillola bianca. Mise tutto sul tavolino. La voce bassissima, quasi inudibile, con quel suo tono roco e caldo. “Parliamo piano, potremmo svegliare Roberto. Dovete mettervi a letto, adesso. L’effetto sarà più rapido. Ma alla vostra età e col vostro fisico non dovete ricorrere alle pillole per dormire. Su, mettetevi a letto, vi aiuto.” Osservò il letto alquanto disfatto. La coperta di cotone raccolta a piedi, il lenzuolo con i segni lasciati da qualcuno che vi si era seduto. “Vi eravate sdraiato vestito?” “Si.” “Adesso metto in ordine.” Con le mani distese bene il lenzuolo, riportò la coperta a posto, l’aprì. “Ecco, venite.” La seguii come un automa. Sedetti sul letto. Lei si chinò, mi mise un cuscino dietro le spalle, aggiustò la coperta. Prese il vassoio dal tavolo e lo portò sul comodino. Mi porse la pillola e il bicchiere. Sedette sul letto. “Ecco, za uspavljivanje, per dormire. Ai bambini si canta la ninna nanna… uspavanka… uspavanka…” A voce bassissima canticchiava. Deglutii la pillola, bevvi il latte addolcito col miele. Restituii il bicchiere, che rimise sul vassoio. La ringraziai. Seguitava a canticchiare. Si accostò a me, mi prese tra le braccia, col capo sul suo seno e cominciò a cullarmi. “Uspavanka… uspavanka…” D’un tratto, sobbalzò come se uscisse da un sogno. Sciolse quell’abbraccio, si alzò, rassettò il vestito, mi fissò a lungo negli occhi, intensamente, con un sorriso dolce, bellissimo. “Scusate… scusate. Buona notte.” Le tesi la mano. Vi abbandonò la sua sempre fissandomi. La portai alle mie labbra e la baciai delicatamente. “Grazie ancora, siete gentilissima.” “Sono io che vi ringrazio” -rispose, con gli occhi lucidi- “non potete immaginare quanto sia felice che voi siate qui. Grazie, grazie ancora.” Si chinò su me, sfiorò le mia bocca con un bacio che non riuscì a nascondere il tremore delle sue labbra, e si avviò alla porta. Si voltò di nuovo. Chiuse la porta, piano. Nel sogno qualcosa mi sfiorava il volto. Una carezza leggera, insistente, affettuosa, appassionata, e una voce sussurrava: “Giorgio… Giorgio…”. Una voce nuova e nel contempo conosciuta. Incalzante. “Giorgio… Giorgio…”. La carezza si soffermò sulle labbra, si allontanò, tornò ancora, ma diversa. Adesso era un fuoco che le lambiva, si insinuava, le dischiudeva, passava tra i denti, cercava la lingua… Aprii lentamente gli occhi. La signora Katia allontanò il suo volto dal mio. “Tenente… è ora di svegliarsi. Ho portato il caffè, dopo la pillola di ieri sera ci vuole…” Mi porse la tazzina. Indossava la vestaglia blu, la treccia sciolta, i capelli, lunghissimi, sulle spalle, fino a coprirle i fianchi. Balzai a sedere, guardai la sveglia sul comodino. Non l’avevo sentita. Era già passata l’ora nella quale normalmente mi alzavo. La pillola aveva fatto effetto. “Grazie signora Katia, ma come mi allontanate con quel ‘Tenente’. Ve l’ho detto, mi chiamo Giorgio.” ”Non fino a quando io sarò la ‘signora’ Katia. Allontanarvi, poi! E’ la sola cosa che non farei mai. Anzi !” “ Va bene, Katia, vi ringrazio. E adesso devo fare in fretta per non essere in ritardo.” “Grazie Giorgio, così va bene. Ho scaldato l’acqua per il bagno. Cinque minuti non vi faranno far tardi. Alzatevi. Mi sono permessa di tenere in caldo un accappatoio. E’ nuovo, non lo ha mai indossato nessuno. Bevete il caffè, alzatevi, venite. Sapete che anche Ela ha mal di capo? Nessuno può comprenderla più di me.” E non se ne andava. Anzi, scoprì il letto e s’abbassò a infilarmi le pantofole. Mi prese per le mani e mi tirò su. “Andiamo, altrimenti farete tardi davvero.” Mi condusse per mano fino al bagno. Aprì i rubinetti e fece scendere l’acqua. Sullo sgabello accanto alla vasca mise spugna e sapone, sul tubo dello scaldabagno un bianco accappatoio, un lenzuolino, un asciugamani. Per terra un tappetino. “Io vado a prepararvi una robusta colazione.” Non avevo troppo tempo. Una veloce insaponata, una sciacquata ed ero appena uscito dalla vasca, grondante, quando la porta si socchiuse. “Posso esservi utile ?” Restò sull’uscio, a guardarmi, con una mano sulla bocca socchiusa. Sorpresa, meravigliata, ammirata, compiaciuta. “Bog moj, mio Dio.” Non si decideva a richiudere, ad andarsene. Indossai il caldo accappatoio. Entrò, prese l’asciugamano, cominciò a strofinarmi i capelli. “Attento a non prendere freddo, pulcino bello, krasan pilence. Torna in camera, andiamo.” Mi parlava col tu. Mi sospinse fuori, aprì la porta della mia camera, mi fece entrare, entrò anche lei, chiuse la porta. Riprese ad asciugarmi la testa, poi gettò l’asciugamano sulla sedia, adesso passava le mani sull’accappatoio, sulla schiena, giù sui fianchi. “Seduto, che asciugo le gambe.” Mi spinse sulla sedia. Si inginocchiò e prese ad asciugare i piedi, i polpacci. La vestaglia si muoveva, s’apriva sul petto, mostrava il seno sodo e bello. Le sue mani salivano sulle cosce, tornavano giù, salivano ancora. Non più col vigore di prima, ed avevano abbandonato l’asciugamano. Mi guardava con occhi splendenti, con labbra e nari frementi. “Spetta che prendo il talco.” Si alzò agilmente, uscì dalla camera e vi tornò, dopo pochi istanti, con un barattolo di talco. “Sul letto, presto.” Ubbidii senza parlare. Sparse il talco sulle gambe, sui piedi. Cominciò a massaggiare, anzi a sfiorare, piedi e gambe. Sollevò l’accappatoio e salì ai quadricipiti. Quelle dita mi eccitavano. Non volevo, ma era così. Non c’era da meravigliarsi pensando alla sera precedente. Cercai di porre fine a tutto ciò, ma senza mostrare scortesia verso tanta premura. Le sorrisi. “Grazie. Ora devo proprio alzarmi, per non far tardi.” Le sue mani salirono ancora, lentamente, fino a incontrare la mia evidente eccitazione, indugiarono lievi, poi, molto lentamente, uscirono dall’accappatoio. “Si, devo finire di preparare la colazione. Vado.” Tornò in cucina. A metà mattino chiesi al capitano il permesso di allontanarmi per una mezz’ora. In piazza v’era un negozio che appariva ben fornito. Avevo deciso di acquistare una vestaglia da camera. Già, nella casa delle vestaglie forse ero io l’unico a non averne. Quando entrai mi venne incontro, gentilissima, una signora, non giovanissima ma molto piacente, elegante. “Buon giorno. Cosa comanda, sior tenente?” “Buon giorno. Vorrei una vestaglia da camera, per me.” La donna si voltò verso il fondo del negozio, dove una tenda nascondeva il retrobottega. “Lenka, vien qua, c’è da servire un signore. Vestaglie per uomo.” Rivolgendosi a me, sorridendo: “Viene subito. Accomodatevi pure.” “Grazie, preferisco restare in piedi.” Dalla tenda uscì una ragazza, forse non ancora ventenne, con un grazioso vestitino a fiori, le braccia scoperte. Abbastanza alta, con un personale che dava certamente dei punti alle modelle. Era più ‘vero’, più proporzionato. Portava due grosse scatole che mise sul bancone. Volto allegro, sorridente. Mi guardò. “Eccomi. Buon giorno. Spero che vi sia quello che cercate. “ Mi ero avvicinato al bancone. “Buon giorno. Vorrei qualcosa di non troppo pesante, ma adatta anche per quando farà fresco. Un colore non vistoso.” Aprì i coperchi delle scatole. “Ecco, è tutto qui. Non é articolo che si vende molto, e sono quelle rimaste.” Le chiesi consiglio. “Voi con quale mi vedreste meglio?” Ammiccò maliziosamente, si sporse verso di me, sussurrò: “Con nessuna… Voglio dire che tutte vi starebbero bene, ma senza stareste meglio.” “Grazie, signorina, ma…” “Sono Lenka. Lenka e basta. Avete sentito come mi ha chiamato la mamma? Chiamatemi Lenka.” “Grazie, Lenka. Io sono Giorgio…” “Lo so, il tenente Giorgio Santin, che abita alla «Ca’ de Do’», in casa di Ela e della sua mamma, la Katia, che, poarete, le xe lontane dai so’ omini. Vero?” “Tutto vero, siete informatissima. Ma lo dite con un certo tono!” “Naturale, io sono sempre un po’ invidiosa!” “E di che?” “Via, tenente Santin…” “Sono Giorgio, ve l’ho detto.” “Via, Giorgio, è una grazia del cielo, di questi tempi, avere in casa un ufficiale, e se è come voi la grazia è doppia.” Quale grazia? “Ma siete proprio così o sapete recitare bene? La casa e le donne hanno un uomo, sono protette, hanno quello che loro mancava da tempo, e forse di più. Scusate se mi sono permessa queste chiacchiere, questo pettegolezzo. Comunque, per tornare alla vestaglia, io vi vedrei bene con questa. Prima che… ve la togliate.” E tornò a sorridere. “Benissimo. La prendo. Pago subito e manderò l’attendente perché me la porti a casa.” Pagai. E mi avviai per uscire. “Grazie e arrivederci.” La mamma salutò. Lenka mi raggiunse sulla porta. “Arrivederci, spero. Io sono sempre libera, quando voglio, specie il pomeriggio, la sera. Mi piace passeggiare e andare al cinema. A casa ho una bella collezione di dischi. Sapete, mi viziano, sono figlia unica. Mio padre è sempre alle prese con la sua farmacia e per non avere noi tra i piedi ha aperto questo negozio e lo ha affidato a noi. Abitiamo nella villetta, Villa Lenka, sul viale della stazione, dopo il bivio. Arrivederci?” “Certo, Lenka, e presto.” Mi avviai verso il Comando. Il pomeriggio sarei stato libero, perché l’indomani m’aspettava la pattuglia. Quando rientrai, dopo la mensa, la casa era silenziosissima, sembrava disabitata. Solo la porta della cucina era aperta. Ela, seduta vicino al tavolo, come mi vide s’alzò. Un sorriso aperto, gioioso. Mi venne incontro. Con le mani dietro la schiena, si levò appena sulla punta dei piedi e strofinò le sue labbra sulle mie, lambendole, nel contempo, con la punta della lingua. Mi guardò con aria di sfida per vedere la mia reazione. Cominciai a sfilarmi i guanti. Mi prese sottobraccio. “Vieni, hanno portato la tua vestaglia, è bellissima. Voglio vedere come ti sta.” “Ma io non ho detto ancora nulla all’attendente.” “Infatti, l’ha portata Lenka. Ha detto che si trovava di passaggio. Chissà dove andava, non me lo ha detto. Lei abita dall’altra parte del paese. Lo sai che hai fatto colpo su di lei? Mi ha detto che vi rivedrete, è vero? Perché, ti piace? Sai, era nella classe dopo la mia. Bellina, certo, ma smorfiosa. E accaparratrice. Peccato che le sue arie, e non so come possa giustificarle, non la rendano molto attraente e socievole. Vero?” Eravamo entrati nella mia camera. La vestaglia era dispiegata, sul letto. “Allora” -dissi- “vediamo di ricapitolare.” Assunsi un tono scanzonato. “Ho piacere di aver fatto colpo su di lei. Forse ci rivedremo, ma dipende da tante cose. Non potrebbe non attirare, è una bella ragazza. A me non sembra smorfiosa né che si dia delle arie. Con me non lo ha fatto, ma forse è la sua tattica… accaparratrice. Come hai detto tu. Spero di aver risposto a tutto. Soddisfatta?” Ela mi guardò aggressiva. Era restata sottobraccio a me. Passò con forza le sue unghie sulla mia mano. “Hai deciso di cominciare da lei? Ma non sai che io graffio?” “Si, ma anch’io posso graffiare.” “Lo so bene, ma io ti taglierò sempre le unghie, e così tanto che non te ne rimarranno per… le altre. Su, prova la vestaglia.” Mi aiutò a togliere cinturone e giubba. “Via anche il resto. Non vorrai indossare la vestaglia restando con gli stivaloni. Aspetta che prendo il cavastivali.” Lo prese, lo mise vicino ai miei piedi, attese che togliessi gli stivali, mi face calzare le pantofole che aveva preparato. “Forza, restano pantaloni, cravatta e camicia.” La guardai indeciso. “Forza belo che mi te conosso, so’ ben come ti xe, ostrega se lo so! Mi son sta a sanjati de ti tutta la notte.” “Sanjati ?!” “Si, sognare. Ma non mi piase che mi sogno e gli altri godano la realtà. Capìo ? Razumjeti? Capire?” Mi strinsi nelle spalle. Forse temevo che quello che capivo non era vero. O forse, in effetti, non capivo. Ero in mutandine e maglietta. Mi porse la vestaglia e mi aiutò a indossarla. Annodò elegantemente la cinta. Arretrò d’un passo. “Sei una visione! No, sei una realtà. Io sono qui, e tu sei qui. Ti tocco, ti bacio…ti voglio.” Mi gettò le braccia al collo, andava baciandomi avidamente, sulle labbra, sugli occhi. Si stringeva a me. Aderiva a me, come una ventosa, col ventre, sollevandosi sulla punta dei piedi, sentiva il mio eccitamento, se ne compiaceva, lo stimolava. “Non ti sono insensibile. Lo sento. Ho spostato l’armadio. Tu chiuditi dentro, questa sera, verrò a trovarti. Sarà qualcosa che non dimenticherai mai, mai. Devo andare. Non voglio sciupare tutto adesso. Aspettami. Capito?” Mi lasciò nel momento che qualcuno stava rientrando. Era Katia. Ela aveva lasciato la porta aperta. “Come mai in casa così presto? E che bella vestaglia. Elegante. Sta benissimo.” “Grazie, sono di riposo prima di un servizio esterno.” “Pericoloso?” “No, solo delle scartoffie da consegnare fuori paese.” “Lontano?” “Non molto.” “Io faccio il caffè. Lo prendiamo insieme?” “Volentieri.” “Allora, mi cambio in un momento e lo servirò nel soggiorno. Questa mattina l’ho pulito a fondo. Si sta bene. Vedrete. Anzi, aspettatemi lì.” “D’accordo, mi cambio anch’io. “ “No, restate così, siete elegantissimo. Sarà più intimo… volevo dire più familiare.” “Obbedisco.” Andò nella sua camera. Di fronte. Uscii nel corridoio. La porta di Ela era chiusa. Proseguii, entrai nel soggiorno. Ampio, due luminosi balconi. A un lato, un tavolo quadrato e delle sedie, un mobile con oggetti d’argento. Dall’altra parte, un divano, nell’angolo un tavolino, due poltrone. Andai ad affacciarmi al balcone, quello che, girando intorno, andava fino alla cucina. A sinistra il balcone più largo, quello del salone comune, dove ero entrato il primo giorno. Sotto, la piazza basolata, dov’era il grosso portone tra due colonne. Katia non tardò a entrare, col caffè. “Ci sediamo sul divano. E’ comodo, potremo poggiare le tazzine sul tavolino.” Aveva un vestito celeste, di taglio diritto, con una generosa e piacevole scollatura che mostrava il dorato chiarore del seno. Il vestito la snelliva, faceva indovinare la morbida curva dei fianchi, esaltava il solco tra le natiche. I lunghissimi capelli quasi l’avvolgevano. “Bel vestito. Nuovo?” “Grazie, è solo una cosina fatta da me, e non è nuova. Io, però, le mie cose le conservo bene, per cui sembrano sempre nuove. Sediamo.” Eravamo sul divano, Katia alla mia destra. Prese la tazzina, vi mise mezzo cucchiaino di zucchero, lo girò, me la porse. “E’ così che vi piace, vero?” Guardavo, golosamente affascinato, nella sua scollatura. “Si, mi piace cosi.” Poggiò la schiena sul divano e accavallò le gambe. Gli ultimi bottoni del vestito non erano nelle asole. “Mi comporto stranamente, vero Giorgio?” Al tentativo d’un mio gesto, di una mia parola, proseguì: “Certo, posso sembrare ambigua. Per un giovane, poi, posso essere ridicola. Una ‘baba’ che agisce così! Per questo desidero parlare con voi, anzi con te. Ti annoio? Puoi, vuoi ascoltarmi?” Annuii con la testa. “Grazie. Ti parlerò come mai ho parlato. Neppure col confessore. A lui dicevo i miei poveri, piccoli, ridicoli peccati, che spesso non ascoltava, mi assolveva, mi benediva, e mi lasciava come prima, peggio di prima. Non voglio la tua pietà. No, soprattutto non voglio né pietà né compassione. Spero solo che quando ti avrò detto tutto, tu possa comprendere, anche se non giustificare, il perché non sempre appaio controllata. In effetti è così, spesso non lo sono. Vedi, io attendevo molto dalla vita, speravo che la coppia fosse il congiungersi di due corsi d’acqua, l’unirsi di due correnti per formare un unico fluire verso la foce in una unione che non avrebbe più tenute distinte le caratteristiche di ciascuno. Non è stato così. Dario si è rivelato solo un greto arido, abbandonato. Anzi, neppure abbandonato, perché mai acqua, né limpida né torbida, ha lambito le sue pietre restate aguzze, le sue rive che non hanno mai conosciuto vegetazione. In lui vi sono solo idee maniacali, integraliste, egoistiche, indiscutibili. Il suo agire è scandito solo dai suoi tempi, irrispettosi degli altri. La sua è totale povertà di sentimenti, che lui chiama bontà, comprensione per il prossimo. E’ asprezza che tenta di contrabbandare per dolcezza. Non ha mai dimostrato amore, affetto, tantomeno passionalità. Rare vampate di squallida sensualità e, una volta soddisfatta, ripiomba nel suo ‘credo di vita’ che non ha mai abbandonato. Per lui è come aver sete: è naturale abbeverarsi alla solita fontana. Ci si torna, anche, ma non è che le si sia grati, o si pensi a lei. Si utilizza quando si ha sete. Tutto qui. Io, invece, ero, e sono ancora, un torrente di montagna. La sorgente è in alto, pura, limpida, fresca, zampillante. Nasce come un piccolo rio, garrulo, saltellante tra ciottoli ben levigati, tra rive piene di verde, di fiori. Qualche rapida, qualche cascatella con spruzzi fatti di mille goccioline che divengono arcobaleno, al sole. Torrente che ha le sue magre, ma anche le sue piene tumultuose; che può travolgere, ma torna sempre ad essere il canto dell’acqua che saltella, che gorgoglia come la femmina nell’abbandono della voluttà. Mi domanderai perché mi sono legata a lui. Giusto. Una storia come tante altre. Una ragazza vivace, piena di vita, piena di sane, naturali pulsioni, conosce un ragazzo, il suo primo ragazzo, e quando é vicina a lui sente battere il cuore, muovere qualcosa dentro, un gran calore… tra le gambe, un irrefrenabile desiderio di… fare l’amore. Lo fa. Un disastro. Uno squallore. Una cosa frettolosa, scomoda, fatta di nascosto. Lo voleva anche lui, ma ho dovuto insistere, prendere l’iniziativa, perché è timido, impacciato. Anche per lui era la prima volta. I racconti delle sue conquiste erano inventati. Allora, non si era libere come adesso. Se lasciavi un ragazzo era facile che gli altri con te volessero solo divertirsi. E così l’ho sposato. Tutte le scuse sono state buone per andare lontano: Libia, Etiopia, Spagna, Albania. E quando era a casa gli ero moglie tanto di rado che quasi mi si faceva la ragnatela tra le gambe. Scusa la volgarità. Per lui era un ‘servizio’ obbligatorio. E lo compiva con malavoglia, svogliatezza, indolenza, malagrazia. Dovevo essere io a mettermi su di lui a… pensare a tutto. Mi chiedeva: ‘Allora, hai fatto?’ E se sfilandomi da lui singhiozzavo, si voltava dandomi la schiena, dicendo ‘ne plakati, nesnosan’, ‘non piangere, insopportabile’, e si metteva a ronfare. Non ho avuto mai il coraggio, forse solo per vigliaccheria, di andare con un altro. Quelle poche gocce di elemosina che ricevevo le facevo bastare. Stringevo il cuscino tra le gambe e tiravo avanti. Ho sempre evitato perfino di guardarli, gli uomini. Fino a qualche giorno fa. Fino a quando tu hai bussato alla mia porta. Quando ti ho visto ho sentito il tumulto del mio grembo. Un vuoto prepotente che non accetta più questa condizione. Ho compreso la mia debolezza, ho sentito l’urgenza violenta dei miei desideri, l’imperioso richiamo della carne, le vertigini per il lungo digiuno. Pensa pure che sono allupata, che sono una vecchia ridicolmente oscena. Pensalo, ma voglio che tu sappia tutto di me, chi veramente sono. Cosa sento. Cosa desidero.” Ascoltai in silenzio, mentre parlava con lo sguardo nel vuoto, gli occhi pieni di lacrime, la voce sempre più roca, deglutendo spesso. La mia mano era sul suo grembo. L’aveva coperta con la sua, stringendola sempre più. Restò silenziosa. “Devo andar via da questa casa? “ Sobbalzò. “No, no, per favore, non andar via.” Le passai la mano sul volto, sotto i capelli. La baciai sugli occhi. Sapevano del sale delle sue lacrime. Poi sulla bocca. A lungo. Ricordando il suo bacio che mi aveva risvegliato, cercai la sua lingua, golosamente. Rispose con veemenza, con abbandono. In quel momento avevamo la stessa età. Forse ero io il meno giovane. Sedette sulle mie ginocchia, seguitando a baciarmi, a suggermi, a carezzarmi. Allontanò un po’ la testa e mi guardò scuotendola. Introdussi una mano nel suo vestito, carezzai il seno, strinsi piano i capezzoli, scesi sul ventre, tra le gambe che si divaricarono leggermente, sentii il caldo tepore del suo sesso pulsante. Allontanò dolcemente la mia mano. Si alzò in piedi. “No, Giorgio, non chiedo la carità. Non la voglio. Non lo sopporterei. Devi pensarci e a lungo. Potrei sospettare che per te la prima volta va bene con chiunque. Scusa la rudezza, ma non voglio essere la tua nave scuola, anche se so che qualsiasi cosa accadrà sarà per te solo un fugace episodio. Questo lo devi decidere dopo, non prima.” Prese le tazzine ed uscì dalla porta. Tornai nella mia camera e mi sdraiai sul letto. Mi addormentai.
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