Ho conosciuto Marta cinque anni fa, per una circostanza che ha dell’incredibile. Era la fine di giugno, io avevo appena terminato di tenere un corso di giornalismo che sovrapponendosi ai miei impegni precedenti mi aveva messo davvero sotto pressione e, contro le mie abitudini, avevo deciso di farmi una piccola e tranquilla vacanza in Italia. Avevo scelto la località in base alla quiete che poteva offrire, escludendo così spiagge piene di marmocchi urlanti o luoghi di villeggiatura troppo noti. Dopo qualche ricerca, avevo così trovato un paesino in Umbria davvero perfetto. Tanto verde, abbastanza in collina da non essere soffocante per il caldo, e con un ritmo di vita infinitamente più lento di quello cui ero abituato. Avevo affittato per pochi soldi una villetta al limitare del paese, e stando bene attento a lasciare in città il mio computer portatile e gli altri strumenti di lavoro, mi ero organizzato per passare un mese intero in completo relax. Per le prime due settimane era andato tutto perfettamente: lunghe passeggiate in bicicletta, qualche buon libro che avevo comprato in inverno senza aver mai davvero avuto il tempo per leggere, ottimi pranzi e cene nelle trattorie della zona. Piano piano, però, avevo cominciato a sviluppare una certa noia per quella vacanza così lunga e vuota di eventi. Mi capitava sempre anche da ragazzino, quando venivo portato al mare dai miei genitori: col passare dei giorni mi cresceva dentro un’energia inspiegabile, che in qualche modo dovevo scaricare. Come allora, intensificai così le gite in bici. Andai a “esplorare” boschi e casolari abbandonati. Risalii torrentelli dall’acqua ancora gelida, ma nonostante tutto avevo bisogno di inventarmi qualcosa per impegnare, sopra tutto, la mente. L’occasione capitò una sera nella trattoria sulla piazza principale del paese, dove venni fatto preda di una coppia di mezz’età che avevo già incontrato diverse volte, soprattutto durante il rito quasi quotidiano della spesa. “Avanti, venga a sedersi qui con noi!” mi aveva invitato l’uomo vedendomi avvicinare al mio tavolo solitario, e nonostante il suo aspetto da borghese d’altri tempi mi infastidisse a livello epidermico, cedetti sperando per lo meno di fare un po’ di studio per i personaggi dei miei romanzi. Lui si chiamava Antonio, mentre della moglie mi scordai immediatamente il nome, che peraltro dopo le presentazioni di rito non venne più pronunciato. La donna era infatti “mia moglie”, e benché lei si mostrasse molto affettuosa, apostrofando ogni volta il marito con una zuccherosa sequela di “Caro, Tesoro, Amore” e così via, lui le si rivolgeva sempre piuttosto seccamente, proprio come certi signori d’altri tempi per cui le donne rappresentavano solo degli animali domestici molto utili. Come sospettavo e temevo, la conversazione seguì tutto il protocollo ben collaudato della banalità conviviale: il tempo, le vacanze, le città di origine di ciascuno… E infine arrivammo al fatidico “E lei di cosa si occupa?”. Antonio, invadente come solo certi arricchiti riescono a essere, iniziò naturalmente per primo, raccontandomi una storia inane di esportazione di frutta e di carriera iniziata da ragazzino. La moglie, come prevedibile, faceva da sempre la casalinga e non aveva mai nemmeno lontanamente avuto il sospetto che potessero esistere occupazioni differenti per una donna. Io, invece, ero un giornalista e uno scrittore. “Oh, ma che intereinteressante!” e “Ma che bravo, così giovane” diventarono da quel momento degli intercalare fissi, e come mi accadeva spesso in quelle occasioni, mentre mi sentivo dire per la millesima volta in vita mia “Sa, anch’io prima o poi scriverò un libro”, desiderai intensamente di aver scelto una professione diversa, folgorantemente banale. Ah, come mi sarebbe piaciuto poter gelare le conversazioni dichiarando cose come: “Io, invece, faccio lo spazzino”! Così, non avrei dovuto descrivere per ore i dettagli dello spalare cacca e gatti morti, ne avrei avuto a che fare con imbecilli completi il cui desiderio fosse emulare il mio lavoro. Ma la vita e quel che è, e accettando l’invito a sedere a quel tavolo tutto sommato avevo preventivato un bel resoconto sulla vita di chi scrive. Offrii quindi alla coppia un lungo monologo contenente la versione semplificata dei rapporti con gli editori, una disquisizione sull’industria libraria e, a un certo punto, feci anche un accenno al corso di giornalismo. La mente da lichene di Antonio fece uno sforzo, collegò due pensieri l’uno all’altro e finalmente, colto da illuminazione, l’uomo mi guardò complice e dichiarò: “Ma allora lei è la persona giusta per mia figlia Marta!”. Marta aveva diciotto anni appena compiuti, studiava al liceo classico e, per il quarto anno di fila, era stata stata rimandata in italiano così come in inglese e una o due altre materie. Non a caso, quella sera, così come tutte le altre, non era andata a cena con i genitori perché obbligata a stare in casa, a studiare. Dopo questa sommaria presentazione, mi venne così proposto di darle ripetizioni nelle materie letterarie. La ragazza non era mai stata bocciata, ma i genitori erano convintissimi che fosse solo merito delle lezioni di una amica di famiglia, che per la prima volta quell’anno non aveva potuto accompagnarli in vacanza. L’idea di far rimanere la figlia senza precettori li terrorizzava, e coerente con il suo stile Antonio arrivò per cercare di convincermi persino a offrire “qualsiasi cifra, qualsiasi pur di non vederla bocciare”. L’idea di fare l’insegnante non mi stimolava in alcun modo, ma quelle ripetizioni potevano tutto sommato aiutare a rompere la monotonia della vacanza. Alla fine accettai, spinto soprattutto dal divertimento che mi dava “derubare” quel fastidioso personaggio con il mio costo orario, abbastanza alto da farmi rientrare in due settimane di quasi tutte le spese della vacanza. Ci accordammo così per farmi incontrare Marta la mattina dopo, e per confermare dopo una rapida valutazione la possibilità di fare lezione o meno. Mi era rimasto infatti un ultimo dubbio sulle reali capacità della ragazza, che a parole non si presentava certo un genio. È pur vero che non doveva condurre una vita molto stimolante, fra quella famiglia e la scuola condotta da suore che era costretta a frequentare, ma quattro materie a settembre erano davvero un po’ troppe, soprattutto per tre anni di fila. A costo di sembrare presuntuoso, devo confessare che quando il giorno dopo la incontrai, scoprii che rispondeva molto bene a come me la ero immaginata. Vestita orrendamente, con abiti che dovevano essere appartenuti alla madre, si muoveva con la malagrazia di chi ha paura di esprimersi, e non guardava mai nessuno negli occhi. Portava i prevedibili occhiali, grandi e con una montatura proveniente dritta dritta dagli anni ’70, ma sotto quel look allucinante, fisicamente doveva anche essere una bella ragazza. Non era molto alta, ma magra e con un seno ben sviluppato; la vita era sottile, e i tratti del viso molto regolari, con labbra forse un po’ troppo carnose e profondi occhi scuri. Marta aveva lunghi capelli neri raccolti in una coda, e la sua voce era quasi un sussurro. Ci feci lasciare soli dalla madre (Antonio dormiva ancora), e davanti al proverbiale té coi pasticcini cercai di scoprire qualcosa di più sulla mia allieva. La prima sorpresa fu scoprirla molto più intelligente del previsto, certo non tanto stupida da farsi rimandare a scuola. Marta pensava molto più di quanto non dicesse, e nelle quasi due ore in cui restammo insieme scoprii che aveva una intensa sensibilità, che dimostrava scrivendo piccole poesie di stile molto ingenuo e prevedibile, ma comunque corretto. Bastarono poche frasi per farle confessare come vivesse l’autorità oppressiva del padre e delle suore, di cui si sentiva succube senza via di scampo. Arrossendo, disse anche che non aveva mai avuto un ragazzo, anche se “naturalmente” ci pensava molto, come tutte le sue amiche. Alla fine, scoprii che la preparazione scolastica in realtà non le mancava, e che gli insuccessi erano causati soprattutto dalla sua insicurezza, che la bloccava durante le interrogazioni orali e nelle situazioni di stress come i compiti in classe. Era più di quanto mi servisse sapere. Entrando nello spirito di quella famiglia, chiesi ad Marta di andarmi a chiamare suo padre, e di andare in camera sua a studiare. La ragazza obbedì senza fiatare, e in un paio di minuti entrò Antonio, fresco di risveglio e colazione: “Allora, cosa dice di mia figlia?”. Rispondendo, non mi addentrai in considerazioni psicologiche che non avrebbe certo capito, ma mi limitai ad accettare l’incarico. Due ore al giorno tutti i giorni, con la clausola di non avere nessuna interferenza dai genitori. La mia stratosferica richiesta di compenso venne accettata senza battere ciglio, benché avessi specificato di non potere garantire alcun successo. Tornai a casa in bicicletta pieno di allegria: avevo trovato una distrazione, un guadagno e un’ottima occasione per affinare il mio sadismo. Marta si presentò a casa mia la mattina dopo, come concordato. Per il mio piano era importante separarla dal suo ambiente, e allontanarla dalla presenza dei genitori. Era forse ancor più insicura del giorno prima, ma dedicai ugualmente quel primo incontro a terrorizzarla. Le feci domande incalzanti, onestamente difficilissime, mostrando segni di impazienza ogni volta che non era in grado di rispondere. Prima dello scadere della prima ora esplosi in un teatrale “Ma insomma, non sai proprio niente! I tuoi genitori hanno ragione: sei la peggiore studentessa che abbia mai visto!”. Le parole e il tono erano state scelte ad hoc, ed ebbero l’effetto previsto: Marta scoppiò in lacrime, demolita psicologicamente. Quando si fu calmata, scusandosi in ogni modo possibile, facemmo insieme qualche esercizio d’inglese, e ancora una volta non mancai di dimostrare il mio disappunto. La rimandai a casa distrutta, e carica di compiti. Il mio gioco sarebbe stato più facile del previsto. Accelerando i tempi che mi ero prefissato, il giorno dopo feci lavorare Marta a una lunga versione di latino. Il brano era di un autore decisamente poco noto, ma il titolo era “L’educazione dei discepoli”. La tesi era che l’uomo è un animale che va addestrato, proprio come una bestia qualsiasi, e con gli stessi metodi. Veniva così elencata una serie di punizioni, fra cui la fustigazione degli studenti svogliati. Congedando la sempre più agitata ragazzina, non mancai di sottolineare questo aspetto: “Certo che sei fortunata a vivere al giorno d’oggi. Con i tuoi pessimi risultati, se fossi nata nell’antica Roma saresti stata frustata tutti i giorni. Pensaci, mentre torni a casa!”. Per non scoprirmi eccessivamente, il giorno successivo feci una normale lezione, priva di trucchetti psicologici. Mi comportai anzi in maniera molto gentile, e mi soffermai ad ammirare la mia allieva, che scoprii non aveva alcun bisogno di occhiali. “Sono da riposo,” mi aveva confessato, “Me li fa mettere la mamma per non farmi rovinare gli occhi”. Da quel momento in poi, Marta approfittò delle visite a casa mia per togliersi gli occhialoni, con grande soddisfazione di entrambi. Quel giorno feci diverse piacevoli scoperte sul corpo della ragazza: aveva indossato una gonna molto aderente, che sottolineava bene la forma perfetta del sedere. Stimolato positivamente da questa visione, dedicai la lezione successiva a un brano di uno psicologo contemporaneo che avevo trovato per caso fra i miei libri. Con la scusa dell’analisi stilistica e grammaticale, feci leggere e rileggere ad Marta un lungo brano esplicitamente dedicato al masochismo. Fra gli argomenti trattati c’erano i legami! fisiologici e psicologici fra il momento dello sviluppo sessuale e lo stile di vita condotto, e un sacrosanto paragrafo che spiegava come “chi è masochista lo rimane per tutta la vita. Questa patologia non può essere curata, ma al massimo repressa con risultati molto negativi per il soggetto, che può sviluppare un atteggiamento inconscio di tipo autolesionistico. Alcuni terapeuti,” continuava il pezzo, “suggeriscono anzi in sua presenza ai pazienti di assecondare il desiderio di dolore e umiliazione in un contesto sicuro e responsabile, per scaricare così ogni negatività correlata”. Era un brano così pertinente che sembrava essere stato scritto apposta per assecondarmi, e non mi feci scappare l’occasione di imprimerlo a fuoco nella mente di Marta. Come compito a casa, le feci così preparare una sua traduzione in inglese, che l’avrebbe impegnata per parecchio tempo. L’indomani era un brutto giorno di pioggia: la lezione fu di tipo rassicurante, senza grandi novità, e alla sera mi incontrai nuovamente a cena con i genitori della ragazza. Negli ultimi giorni Marta era stata un libro aperto per me: sapevo come farla arrossire o spaventare, come umiliarla e come spingerla a ragionare su ciò che io decidevo. A ogni stimolo corrispondeva la giusta reazione, che si mostrava tramite aumenti della sudorazione, dilatazione delle palpebre o accelerazioni nel respiro. Quando venne portato il secondo, così, rischiai il tutto per tutto. “Signor Antonio,” dissi facendo valere tutto il mio curriculum di traduttore, “Marta sta procedendo abbastanza bene in tutte le materie, tranne che in inglese”. La madre della ragazza si agitò come se le avessi preannunciato una bocciatura in tronco. “Mi chiedevo se aveste mai pensato a farla studiare all’estero…” La prevedibilità di quella famiglia era compatibile: come se stessero seguendo un copione teatrale, si produssero in tutta una serie di scuse orrendamente provinciali e iperprotettive. La loro figlia non poteva essere certo mandata lontana da casa, e poi cosa avrebbe fatto, e chi avrebbe incontrato, e magari chissà quali guai, e loro non sarebbero potuti andare a trovarla… Io sopportai, e poi li presi in contropiede: “Avete perfettamente ragione, vedete, ma qui la situazione è un po’ grave, e non so se Marta riuscirà a passare l’esame senza una preparazione intensiva…” Gli occhi della madre della ragazza si fecero vitrei. Diedi alla coppia qualche secondo per c! omprendere la piena gravità di quanto avevo dichiarato, e continuai. “Vi dico questo perché forse potrei proporvi una soluzione interessante. Come saprete, tra poco più di una settimana io dovrò partire, proprio per andare in Inghilterra. Devo tenere un corso sulla letteratura italiana contemporanea presso il Lincoln’s College di Londra, che è un istituto piuttosto importante appena fuori città. Si tratta di un istituto femminile molto rispettabile, in cui vengono tenuti anche corsi di lingua per stranieri”. Detto per inciso, benché avessi visitato il college una volta, tanti anni prima, non vi avevo in realtà visto nemmeno una ragazza, ne tantomeno avrei dovuto tenere alcun corso. Il gioco si era fatto troppo interessante, e quella menzogna così colossale faceva parte delle mie regole, come le seguenti. “Io conosco bene il rettore, e forse, anche se con qualche difficoltà, potrei mettere una buona parola per Marta, che potrebbe finire i suoi ripassi proprio lì”. Antonio era r! imasto con la forchetta a mezz’aria, mentre io, con un’aria un po’ complice e continuando a usare espressioni adatte al mio infimo pubblico, mi apprestavo a mettere la ciliegina sulla torta che faceva da esca alla mia trappola. “Naturalmente, non avrei certo il tempo di seguirla tutti i giorni, però potrebbe trattarsi anche di una buona occasione per continuare ad assisterla nei ripassi di tanto in tanto, e magari di tenervela un po’ d’occhio”. Gli elementi c’erano tutti: il grande professionista, un po’ di esotismo, tutte le garanzie di sicurezza concepibili, la possibilità di vantarsi con gli amici per un’impresa tanto “chic” e un pizzico di furbizia italiana. Masticai con calma la mia bistecca mentre le rotelle arrugginite nella testa di Antonio cominciavano faticosamente a girare, e dopo un sorso d’acqua mi esibii nel colpo di grazia: “Ma no, che dico: tutto sommato, vostra figlia potrebbe benissimo essere promossa lo stesso…”. Era inutile continuare: i coniugi fecero di tutto per accettare, e pur di assicurarsi la mia benevola intercessione imposero di offrirmi la cena, e un invito a pranzo per il giorno dopo, alla fine della lezione con Marta. Questa suonò puntualmente alla mia porta alle otto e mezza del mattino, senza essere stata informata di nulla come da mia raccomandazione. Le due ore successive sarebbero state le più difficili, cruciali per la riuscita del mio progetto. Accompagnai Marta nella stanza in cui facevamo lezione, e mentre si sedeva tirai fuori la sua traduzione in inglese, che un qualsiasi traduttore non professionista avrebbe avuto difficoltà a completare. “Cara Marta, qui non ci siamo proprio,” esordii, “questa traduzione è piena di errori, e non capisco proprio perché”. La ragazza ansimò, come un bambino pescato con le mani nel vaso dei biscotti. “Tu sei una ragazza intelligente e preparata, e i tuoi pessimi risultati scolastici devono dipendere da qualcosa di particolare. Ci ho pensato tutto ieri, mentre correggevo i tuoi compiti, e penso di avere trovato la soluzione”. Cercai di fissarla negli occhi, ma come sempre Marta abbassò lo sguardo, e ne approfittai. “Ecco! Lo sai perché non mi puoi guardare negli occhi? È perché tu sei proprio il tipo di persona descritta in questo brano!” La ragazza aprì la bocca, ma non riuscì a dire una sola parola. “Basta guardarti per capirlo: tu sei proprio masochista!” Feci una piccola pausa a effetto: “Ti piace essere umiliata, vero? Non è per questo che ti fai rimandare ogni anno?” Ora stavo alzando il tono di voce sempre più, simulando una furia che soffocava ogni tentativo di razionalizzazione della ragazza. “È inutile che non rispondi: so bene che è così! Sono sicuro che ti piace anche soffrire! Scommetto che l’altro giorno hai provato piacere mentre tornavi a casa, e ti immaginavi legata come gli scolari della versione latina, frustata su tutto il corpo nudo! È vero o no, schifosa?” Il volto di Marta era diventato color rosso porpora: una importante vittoria, che mi diede l’energia per continuare il mio attacco. “Certo che è vero, guardati! Sei proprio uno dei masochisti di questo brano, che passano le loro giornate a pensare nuovi modi per soffrire, e sognano di essere degli schiavi, come nell’antichità! Tu non studi perché passi il tuo tempo a immaginarti di appartenere a un ragazzo che ti usi per il suo piacere: prova a negarlo, se ne hai il coraggio!”. Con quella frase, Marta crollò. Con la testa nascosta fra le braccia conserte sul tavolo, cominciò a piangere con grossi singhiozzi. Il suo corpo era scosso da tremiti, e io provavo il piacere di chi domina una altra persona. “Allora, parla!” la incitai, e senza alzare lo sguardo ne smettere di piangere, la diciottenne si liberò di una verità che nascondeva nell’animo da anni. “Sì… Sì, è vero… È tutto vero, sono proprio come i masochisti del libro…” fra le lacrime, le parole erano quasi incomprensibili, “L’altro giorno mi sono… la versione… io mi sono…”. “Ti sei cosa, Marta? Dimmelo chiaramente!” la sovrastai. “Mi sono… toccata… ho pensato di essere a Roma, e… mi sono… masturbata…” Era una confessione troppo intima e troppo grossa per essere detta, e Marta si mise a piangere ancora più forte, incapace di parlare. Ormai la avevo in pugno, ma c’era ancora qualcosa che potevo fare per aumentare il mio potere su di lei. Avvicinatomi alla sua sedia, la sollevai di peso e la abbracciai consolandola, ma continuando con le umiliazioni: “Sì lo so, Marta. Sei proprio una piccola viziosa, una masochista irrecuperabile, ma non è colpa tua. Ti ricordi cosa abbiamo letto?” Il corpo della ragazza era bollente contro il mio, scosso dai tremiti e fradicio di lacrime e sudore. “Quelli come te sono vittime delle autorità, come la scuola e la famiglia, nel momento dello sviluppo sessuale. Ormai tu sei così, e non c’è più niente che si possa fare. So bene che vorresti un ragazzo che ti trattasse come desideri, ma devi renderti conto che le persone in grado di sopportare certe fantasie perverse sono pochissime… Sei davvero una depravata masochista sfortunata, ed è una situazione grave. Lo hai letto anche tu, no? È inutile cercare di reprimere la tua natura, o rischi di fare male a te stessa e agli altri. ! Pensa come si sentirebbero i tuoi genitori se un giorno, per sfogare il tuo masochismo represso, ti buttassi inconsciamente sotto a una macchina, o qualcosa del genere”. Ancora una volta, avevo toccato il tasto giusto. Marta si fece ancora più debole sulle gambe, mi strinse, tirò su col naso e mi disse qualcosa di incomprensibile. La appoggiai sulla sedia, come un sacco vuoto, e le porsi un fazzoletto tolto dalla mia tasca. Liberatasi, mentre cercava inutilmente di asciugarsi le lacrime ripetè: “Ma come posso fare? Io… non so… Come faccio a dirlo a papà e mamma? Cosa… chi può aiutarmi?”. Marta ricominciò a singhiozzare disperata, con il volto contorto in una maschera a suo modo deliziosa. “No, non devi dare un dispiacere del genere ai tuoi genitori!” la suggestionai, “Come potrebbero volerti più alcun bene, dopo aver scoperto che la loro bambina è una masochista depravata? No, Marta, tu hai bisogno di allontanarti da loro per sfogarti, hai bisogno della guida di qualcuno che si occupi di te”. “Ma… ma chi?” singhiozzò la ragazzina “Io… io ne ho tanto bisogno… subito…”. Anche se il più era fatto, era venuto il momento critico. Farle prendere atto del suo indubbio masochismo psicologico, approfittando della sua tendenza naturale alla sottomissione, era stato facile. Ora però dovevo metterla davanti alla realtà del dolore fisico. Dovevo essere deciso e severo, ma senza esagerare e spaventarla troppo. “Lo so bene, Marta. Alzati e vieni qui davanti a me,” le ordinai. La ragazza mi guardò inebetita, senza spostarsi. “Muoviti, incapace!” le urlai, facendola scattare in piedi mentre le lacrime continuavano a scorrere. Indossava la gonna stretta dell’altro giorno, con mio grande piacere. “Vieni qui!” sbraitai, ma era ancora troppo presto perché si consegnasse spontaneamente al suo carnefice. Dopo un attimo di impasse, allungai il braccio e muovendomi rapidamente la tirai di traverso sulle mie ginocchia. La caduta sulle mie gambe le aveva tolto il respiro, e io ne approfittai per torcerle un braccio dietro la schiena senza incontrare resistenza. Blocca! tale così la mano, in un attimo le aprii la cerniera che scendeva dritta sul retro della gonna e le feci cadere l’indumento attorno alle caviglie, rivelando un paio di mutandine di cotone bianche, da collegiale. Senza darle il tempo di riprendersi dallo shock, abbattei il primo sculaccione sulla natica destra, con una forza abbastanza intensa da farla gridare. Un secondo di pausa, per farle riprendere fiato, e arrivò anche il secondo, sull’altra natica. Con il terzo colpo, accompagnato come sempre da un grido, feci scivolare leggermente il bacino di Marta verso l’esterno, in modo che le mutandine, bloccate fra i nostri due corpi, si tendessero sulla vagina. Da quel momento in poi, vibrai ogni colpo cercando di tirare verso l’alto la parte posteriore dell’indumento, in modo da frizionare con il tessuto l’area genitale. “Ecco qui, Marta,” le dicevo intanto, “ecco la sculacciata che meriti e che desideri tanto!” La ragazza continuava a piangere, ma più per lo shock emotivo che per il dolore. “Ecco una punizione bella dolorosa, come quelle che immagini sempre nei tuoi sogni di masochista! Ti piace mostrare il sedere a uno sconosciuto, eh? Ti piace essere sculacciata, vero, piccola viziosa?” Oltre ogni mia più rosea previsione, l’effetto combinato dell’umiliazione verbale, della punizione e della strana masturbazione fu rapidissimo. Dopo solo cinque o sei sculaccioni, il cavallo delle mutandine di Marta si era completamente bagnato di umori, in un paio di minuti il suo corpo era scosso da nuovi tremori, questa volta di ben più piacevole natura. Approfittai dell’interessante imprevisto smettendo subito di colpire le natiche da adolescente di Marta, e lasciandole gustare al meglio l’orgasmo. “Ma guardati! Guarda come godi a essere punita! Sei più lasciva della peggior prostituta! Più masochista della schiava più navigata! Scommetto che in questo momento non sai nemmeno se ti brucia di più il culo o la figa!” Pur nel godimento, mi accorsi che quelle parole! così volgari l’avevano turbata. “Allora? Dimmelo!” la incalzai. “I… È vero… Sì, è vero… non so cosa mi brucia di più…” “Continua!” le ordinai. “Non so… se… se mi brucia di più il…” “Il cosa, Marta?” “se mi brucia il culo o la figa!”. Ero estremamente soddisfatto della mia opera. Con un piccolo sforzo mi alzai, facendo rotolare a terra il corpo privo di forze della ragazza. “Mi fai veramente schifo, Marta,” sibilai, “ma una masochista perversa come te ha davvero bisogno d’aiuto. Mi occuperò io di te, ma a due condizioni”. Marta aveva finalmente smesso di piangere, e mi guardava con gli occhi spalancati. “La prima è che non devi mai dire niente di questo a nessuno, e in particolar modo a quei poveri sfortunati dei tuoi genitori. La seconda, che però dovrebbe essere facile da accettare per una simile depravata, è che mi dovrai ubbidire in tutto, a qualsiasi cosa io decida. Alla prima ribellione, sappi che smetterò di occuparmi di te, e ti abbandonerò al tuo destino”. La ragazza si trascinò sino ai miei piedi, abbracciandomi una caviglia: “Sì, sì, grazie…”. Il pranzo con i genitori di Marta fu estenuante, mortalmente noioso. La mia nuova schiavetta aveva chiesto e ottenuto di saltare il pranzo con una qualche scusa, e si era rintanata in camera a intessere chissà quali sogni di sottomissione. Io invece venni blandito con ogni sistema per intercedere presso il rettore mio amico, e lodato fino alla nausea per la mia gentilezza e disponibilità. Il cibo era peggiore di quel che ci si sarebbe potuti aspettare da una donna che nella sua vita non faceva altro che cucinare e spolverare, ma sopportabile. Con la scusa dell’inefficienza delle poste italiane convinsi la coppia a non preoccuparsi dell’indirizzo del college, e spiegai loro che l’istituto non aveva telefono, così che sarebbe stata Marta a chiamarli periodicamente. Nel pomeriggio, dopo una fantomatica telefonata all’estero, tornai a rassicurare Antonio: fortunatamente una stanza era disponibile, e Marta avrebbe potuto soggiornarvi sino al giorno precedente gli esami. Alla sera, ! scusandosi come pellegrini che fossero andati a disturbare il Papa per chiedergli il risultato di una partita di calcio, i genitori di Marta si presentarono a casa mia, portando una bottiglia di non so quale insulso amaro pubblicizzato in televisione. “Io e mia moglie siamo molto imbarazzati,” mi confessò Antonio, “ma abbiamo un po’ paura per il viaggio. Sa, Marta non è mai stata da nessuna parte, e poi da sola… Insomma, ci chiedevamo se lei potesse essere così gentile da accompagnarla, visto che va in Inghilterra proprio in quei giorni. Avrei pensato a un piccolo compenso…” proseguì untuoso e insopportabile l’uomo, e anche questa volta, benché visibilmente scocciato, accettai un simile sacrificio. “Mi occuperò di tutto io, signor Antonio,” lo rassicurai, “non si preoccupi. Domani prenoterò l’aereo, e le farò sapere il costo del biglietto”. Ora, la cosa più complicata sarebbe solo stata aspettare la settimana che mi separava dalla mia presunta partenza. I sette giorni successivi si svolsero secondo un copione fisso. Dopo colazione Marta veniva da me, e con la irritata professionalità di un confessore, io la obbligavo a raccontarmi i suoi “lascivi pensieri da masochista” del giorno prima. Marta dimostrava in questi un divertente ingegno naif: nelle sue fantasie si vedeva costretta a vagare nuda per la città, oppure forzata a stare in ginocchio mentre altre persone la insultavano e le sputavano sul volto. Sognava che io o suo padre le ordinassimo di baciarci i piedi, o di masturbarsi di fronte ai nostri occhi, e dopo ogni resoconto io trasformavo i suoi pensieri in realtà. Era affascinante vedere come arrossiva alla sola idea di mostrarsi nuda, e con quanta gioia scoprisse di poter davvero dare sfogo a sogni che doveva avere represso per molti anni. Tutte le esibizioni venivano accompagnate dai miei commenti: “Solo una lurida schiava potrebbe fare pensieri così sconci. Chi prova piacere in cose del genere non è degno di essere amato da nessuno…” Più le parole erano volgari, più aumentava il piacere di Marta, anche se avevo qualche difficoltà a limitare tutti i riferimenti sessuali per adattarmi al suo mondo, che non andava al di là della masturbazione femminile e della posizione del missionario, solo vagamente immaginata. Del resto, non volevo esporla al trauma del sesso prima della partenza, che di comune accordo con i genitori le sarebbe stata nascosta fino all’ultimo. Vederla aggredire con le dita la figa piccola, poco pelosa e simile a un’albicocca mi eccitava enormemente, ma ero ben deciso a trattenermi. Dopo le “confessioni” era il momento dello studio, di cui in realtà Marta non aveva alcun bisogno. Conosceva perfettamente tutte le materie, e a volte trovavo qualche difficoltà a inventare esercizi che la mettessero in crisi, per il solo scopo di poterla insultare nuovamente. Marta però imparava rapidamente anche le nozioni più contorte, e questo grazie al “premio” che avevo stabilito per le lezioni con esito positivo. Il premio in questione era puro e semplice dolore fisico, che le infliggevo limitando il più possibile la componente sessuale. La facevo inginocchiare sulla ghiaia del mio giardinetto sul retro, le facevo eseguire estenuanti esercizi fisici, ma soprattutto la sculacciavo. Marta godeva moltissimo in quel modo, e subito mi aveva confessato di avere provato un incredibile misto di vergogna e piacere nel guardarsi il sedere arrossato nello specchio della sua cameretta. Solo un giorno ebbi paura di stare perdendo il mio potere su di lei, e decisi di irretirla con un po’ di sesso. La feci inginocchiare nuda di fronte a me, e comodamente seduto su una sedia presi a torcerle i capezzoli fra le dita. Erano capezzoli da vergine, sensibilissimi e pronti a ergersi durissimi al minimo sfioramento, e quello stimolo per lei nuovo la fece soffrire e godere come non mai, fra i pianti di vergogna che ormai contraddistinguevano ogni nostro incontro. Lo sguardo adorante con cui mi lasciò quel giorno mi rassicurò completamente sulla mia posizione. Nel pomeriggio la mia vacanza procedeva altrettanto piacevolmente, con belle letture, magnifiche passeggiate e ottimi spuntini. Poi, la sera, puntuale come un cronometro arrivava l’invito a cena dei genitori di Marta, cui mi sottrassi solo una volta. Erano eccitatissimi dall’idea di far studiare la figlia all’estero, estasiati dalla mia gentilezza e, penso, incuriositi dall’idea di rimanere soli per due mesi. La notte passava tranquilla, con solo qualche zanzara a dare problemi, e al mattino tutto ricominciava, più piacevole di prima. L’ultimo giorno prima della partenza, Marta si scatenò con mia grande soddisfazione in una delle sue migliori fantasie esibizionistiche. Scusandosi, arrossendo e farfugliando cose incomprensibili, mi chiese di potermi fare vedere la sua fantasia del giorno prima. Decisi di farla fare, e le concessi di procedere senza darmi spiegazioni. In un attimo, la ragazzina si spogliò, svuotò una fruttiera che tenevo sul tavolo e la appoggiò per terra. Poi, tremando per l’eccitazione e l’umiliazione, vi si accosciò sopra e fece scorrere un rivoletto di pipì al suo interno. “Ma sei veramente una puttana!” la aggredii, “Pisciare di fronte alla gente!”. Lei esplose come di suo solito in lacrime, e rilasciò definitivamente la vescica riempiendo per metà l’insalatiera di liquido dorato. “Ti piace farti vedere così, sporca schiava, eh?” la incitai eccitato dallo spettacolo, “Scommetto che ti piacerebbe anche cagare, vero?” Marta si irrigidì: “No…”. “Sì, invece, masochista esibizionista schifo! sa! So bene che avresti addirittura un orgasmo a farmi vedere come caghi la tua merda puzzolente!”. La mia piccola schiavetta arrossì ulteriormente, convincendomi a continuare: “Ti ordino di cagare subito! Riempi quell’insalatiera di merda, o non ti darò il premio!”. La bocca della ragazza si piegò verso il basso in un’espressione disperata, e dopo qualche secondo di silenzio, con un piccolo peto sibilante vidi spuntare fra le sue gambe un piccolo stronzo marrone, che rimase a penzolare un attimo prima di piombare nella pipì sottostante schizzandola fra le cosce. “Ecco! Guarda! Sei proprio un animale, una cagna che caga davanti a tutti!” la stimolai, “Umiliati ancora, caga, e forse avrai il tuo premio!”. Nonostante lo stress, Marta dimostrò un eccellente controllo intestinale, e in un minuto circa mi guardò piena di vergogna: “Ho finito…”. Le tirai un fazzoletto di carta. “Pulisciti con questa, masochista depravata, poi svuota quella roba nel gabinetto, lavala e torna qui da me”. Eccitatissima per la sua esibizione, la schiavetta si ripulì e tentò di alzarsi, ma non ero in vena di gentilezze. “Una schiava come te non ha il diritto di stare in piedi. Resta in ginocchio, e vedi di non rovesciare niente!”. Faticosamente, con il corpo bianco latte coperto di sudore e un’espressione disgustata sul viso, Marta si allontanò per ubbidire, e tornò sempre in ginocchio al mio cospetto. “Una viziosa come te non può essere amata da nessuno,” la apostrofai, “e la tua situazione richiede un intervento radicale. Tu sei depravata fino al midollo, e hai bisogno di stare in un ambiente che assecondi fantasie ignobili come quel che mi hai mostrato oggi”. “Ma come?” mugulò Marta. “Zitta, cagna! Le schiave non parlano senza permesso, vero? Da oggi vedi di ricordare anche tu questa regola!” La mia vittima era eccitata come non mai: sentivo l’odore dei suoi umori da un metro di distanza, e continuai nonostante l’eccitazione che mi stava sopraffacendo. “Per tua fortuna, ho convinto i tuoi poveri genitori a farti allontanare. Purtroppo sono stato costretto a raccontare loro una bugia, perché non potevo certo dir loro che hanno una figlia degenere, che per sopravvivere deve comportarsi come il più schifoso degli animali. Questa sera partiremo insieme: loro pensano che ti accompagni in un college inglese, ma là non si sognerebbero neanche di accettare una puttanella che si masturba pensando di essere punita. In realtà ti porterò a casa mia, dove potrai sfogarti”. Marta era raggiante, ed era una buona occasione per turbarla ulteriormente: “Vergognati! Sei così contenta perché mi fai ingMartare due povere persone che hanno dato tutto per farti crescere come si deve? O forse sei felice di ingMartarli tu?” Il suo labbro inferiore, che mi ispirava tante fantasie a ogni nostro incontro, cominciò a tremare incontrollato. “Sei una schifosa pervertita, ma per fortuna hai trovato chi ti può aiutare. Non ti credere che sia tanto facile, ragazzina! Resterai con me fino agli esami di settembre, ma solo se ti comporterai bene. Dammi una sola delusione, e ti rispedisco qui, dicendo che sei stata espulsa dalla scuola! Naturalmente il tuo compito principale sarà quello di studiare per gli esami, ma ho in serbo per te molte sorprese che ti piaceranno”. Tanto per cambiare, Marta si produsse in uno dei suoi pianti, che per quanto sensuali avevano cominciato a darmi sui nervi. Fra le lacrime e i singhiozzi, compresi solo una parola: “Grazie… Grazie…”. Il resto della giornata passò fra i preparativi della partenza. La madre di Marta le aveva già preparato una valigia, e quando io riconsegnai le chiavi del mio appartamento all’agenzia che me lo aveva affittato lei mi stava già aspettando sull’ampio balcone della casa dei genitori. Arrivai con quasi due ore di anticipo sull’orario concordato, per limitare con un altro piccolo trucco psicologico le possibilità che Marta rivelasse il nostro compromettente segreto o che i suoi genitori cambiassero idea. “Mi scusi molto, signor Antonio,” spiegai, “ma sono stato chiamato da un collaboratore, che mi ha avvertito di dover passare a prendere del materiale in ufficio a Milano prima della partenza. Sa, non vorrei perdere l’aereo per una stupidaggine simile, e se non avete niente in contrario, io partirei subito”. Detto, fatto. Prima che potessero rendersi bene conto di cosa stesse succedendo, le valigie di Marta erano state caricate in macchina e, loro figlia era in partenza per “Londra! “. Dopo essermi assicurato con una serie di domande incalzanti che la ragazza non avesse detto nulla ai genitori, cominciai il suo addestramento. “Ricordati i nostri accordi,” la minacciai, “Un solo passo falso, una sola disubbidienza, e ti ritrovi a casa con i tuoi genitori”. Marta aprì la bocca per rispondere, ma si ricordò evidentemente di quanto le avevo detto in mattinata, e si limitò ad annuire. “Da questo momento sei la mia schiava. Sei un oggetto di mia proprietà, senza alcun diritto, ma solo il dovere di ubbidirmi in tutto e per tutto. Senza il mio permesso non potrai fare niente, e sarò io a ordinarti quando mangiare, dormire o parlare. Tu potrai aprire bocca solo in due casi: per rispondere alle domande che ti farò, oppure per chiedere il permesso di pisciare e cagare”. La mia schiavetta era già eccitata: mentre parlavo avevo visto i capezzoli irrigidirsi sotto la camicetta, e il bacino ondeggiare in maniera sospetta. “Ora ti elencherò delle regole di comportamento, che dovrai seguire sino al giorno in cui ti riporterò dai tuoi genitori. Innanzitutto, d’ora in poi mi dovrai chiamare ‘padrone’, perché è questo che sono. Io sono il padrone, e tu sei la mia schiava. Poi, quando ti farò una domanda dovrai rispondermi onestamente, in qualsiasi occasione”. In quel momento eravamo arrivati al casello d’entrata, e approfittai della breve coda per spiegarmi meglio. “Girati da questa parte, schiava,” le ordinai, e lei ubbidì immediatamente, con gli occhi lucidi d’eccitazione. Aprii la mano sinistra, e prima che potesse alzare istintivamente le mani per difendersi, le mollai un sonoro schiaffone che le stampò cinque dita sulla guancia. “Ecco un esempio. Era abbastanza forte questo schiaffo?” Riprendendosi dal ceffone, che le aveva fatto rimbalzare la te! sta contro il poggiatesta, Marta riprese fiato: “S… Sì. Sì padrone.” si corresse prima che potessi redarguirla. Avvicinai la macchina al casello. “Bene. Girati ancora.” Con la mano destra le bloccai i polsi, e mentre trepidante Marta ubbidiva, le tirai un altro schiaffo, molto meno forte anche se ancora sufficiente a farle dondolare la testa. “E questo, era abbastanza forte?” La ragazza, con gli occhi spalancati come fanali, tirò su col naso: “No, padrone”. Avevamo solo una macchina davanti a noi. “Perfetto. Hai capito bene. Ora voglio che tu mi chieda di dartene un altro, della giusta forza. Voglio che ti umili come piace a te, dimostrandomi tutto il tuo masochismo depravato”. Con mezza faccia arrossata, ma con un’espressione che denotava un’eccitazione parossistica, Marta si mise in posizione, e guardandomi finalmente negli occhi, sussurrò: “La prego, padrone, potrei avere uno schiaffo molto forte?”. Il volto doveva bruciarle molto, e la bocca aveva preso a tremare leggermente in attesa del dolore. “No.” le dissi, come il sadico della famosa barzelletta. Presi il biglietto dal distributore automatico del casello, premetti sull’acceleratore, e partii. Durante il viaggio continuai l’istruzione della mia schiavetta. “Ora parliamo di posizioni: sai già che devi tenere le braccia conserte dietro la schiena, per esporti meglio. Inoltre, da oggi dovrai sempre tenere le gambe allargate. Né accavallate, né accostate. Allargate. Questo serve a permettere a chiunque, in qualunque momento, di potersi chinare e guardarti la figa. Per farlo, naturalmente, non dovrai indossare le mutande, che infatti da questo momento in poi ti sono proibite. Toglitele, avanti”. Ormai perfettamente partecipe del suo ruolo di schiava lasciva, Marta si mosse subito, facendo scivolare le orribili mutandine di cotone fino a terra, e sfilandole senza togliere le scarpe basse.”Senti come puzzano,” la umiliai, “sono fradice del succo della tua figa. Sono sicuro che è da stamattina che sei bagnata per la prospettiva di essere trattata da schiava per due mesi, vero?” “S… Sì, padrone. È tutto il giorno che sono eccitata”. “Lo immaginavo, puttanella. Del resto del tuo abbigliamento ci occuperemo più tardi. Per quanto riguarda le posizioni, invece, da adesso dovrai tenere la bocca sempre socchiusa. È un segno di sottomissione importante, e non tollererò di vedere le labbra strette. Ora, una delle cose più importanti di questi mesi sarà la tua educazione sessuale. Hai qualcosa in contrario a imparare come dare piacere con il tuo corpo?” “N… No… No, padrone”. “Certo che no. Dopotutto, dovrebbe essere l’impiego principale di una troia masochista come te, no? Ti insegnerò tutto quel che c’è da sapere, e sono sicuro che sarai una buona allieva”. Marta aveva preso la posizione che le avevo spiegato, con le ginocchia alla distanza di almeno due palmi e le labbra pronte socchiuse a scoprire appena gli incisivi bianchissimi, pronta a ricevere un immaginario cazzo. A questo proposito, mi ricordai che Marta non sapeva nulla di sesso, né tantomeno di pratiche poco tradizionali. Sapevo per esperienza diretta che anche la ragazza più depravata può subire uno shock nello scoprire le dimensioni di un vero pene, o gli usi che se ne possono fare; al di là di quel che le dicevo quando la umiliavo, la mia schiavetta dimostrava davvero una certa tendenza naturale alla depravazione, ma era meglio ammorbidire l’impatto con quanto la aspettava. L’occasione capitò dopo qualche chilometro, mentre passammo un cartello che indicava un autogrill. “Mi scusi, padrone,” mi sussurrò Marta, “ma dovrei fare pipì. Potremmo fermarci un attimo?”. Non aspettavo niente di meglio. Entrai nell’area di servizio, chiusi l’auto e accompagnai Marta al bagno, piantonando l’ingresso per paura che un ripensamento dell’ultimo minuto la facesse fuggire, o chissà che. Per mantenere alta la sua eccitazione, le ordinai di togliersi il reggiseno mentre era alla toilette, confidando nel suo amore per l’esibizionismo. Quando tornò, aveva l’espressione indefinibile delle donne vicine all’orgasmo, che contrastava piacevolmente con la guancia ancor gonfia per gli schiaffi di prima. Tenendola sotto braccio, la portai nel minimarket dove, vicino alla cassa, trovai subito quel che stavo cercando. Racchiusa in una busta di plastica, dallo scaffale spuntava una raccolta di una rivista porno di bassa lega, specializzata in penetrazioni e sesso orale. Risparmiai a Marta l’imbarazzo, forse ancora eccessivo per lei, di comprarla, e passando alla cassa attirai lo sguardo severo della cassiera, che non fece che divertirmi. Tornati in macchina, diedi a Marta, i cui capezzoli erano ormai bene eretti ed evidenti sotto la camicetta leggera, la rivista. “Guarda bene, e impara,” mi limitai a dire, e ripartii mentre la ragazzina entrava sbigottita in un mondo per lei tutto nuovo. La schiavetta guardava le grandi fotografie a colori con attenzione, evidentemente affascinata dai corpi nudi e da ciò che facevano. Nella sua espressione non intravvedevo nulla dello schifo che temevo avrebbe provato, e dopo una mezz’ora abbonante la interrogai: “Ti piace, schiava?”. “Sì, padrone”. “Voglio che tu mi dica cosa ti piace di più e cosa meno”. “Mi… mi piacciono i peni. Sono così grandi… diversi da quelli dei quadri e delle statue. Mi piace molto come li baciano queste donne. Quella bianca è sperma?” Mi divertiva l’uso che Marta faceva dei termini imparati a biologia. “Sì, Marta. È sperma, e viene fuori quando un uomo ha un orgasmo”. “Oh, sì… padrone, lo so. Deve avere un buon sapore. Non sapevo che fosse cos! ì tanto. Invece non capisco quando lo infilano… nel culo. Non si sporca, padrone?” “Certo, a volte si sporca”. La conversazione finì lì, io mi concentrai nella guida, e Marta nella lettura. Ormai l’odore dei suoi umori aveva impregnato l’automobile. Arrivammo alla barriera di Milano dopo qualche ora, con il sole ancora alto. C’era ancora molto traffico, e raggiungere la mia meta fu piuttosto lungo. “Ora ti porterò da un medico,” spiegai a Marta. “che ti prescriverà un anticoncezionale che dovrai prendere tutti i giorni. Non voglio avere sorprese, chiaro? Rispondi a tutte le domande che ti farà come se fossi io a fartele, ma non chiamarlo ‘padrone’. Per tutte le altre persone che ti farò incontrare dovrai usare la parola ‘signore’. Hai capito?” “Sì, padrone”. L’amico da cui la portai putroppo era dovuto uscire urgentemente dallo studio, e il rapido esame necessario venne eseguito dall’infermiera sua moglie, una bionda di trent’anni che condivideva gli interessi del marito, ma che non ero mai riuscito a incontrare. Raggiungemmo una farmacia poco prima che chiudesse, e feci acquistare a Marta, ancora vergine, le pillole che la dichiaravano donna. Tornati in macchina, ebbi la fortuna di incrociare un supermercato aperto, in cui andammo a fare una piccola spesa in previsione dell’arrivo a casa, dove il frigorifero era stato lasciato vuoto per le vacanze. La mia schiavetta mi seguiva silenziosa passo dopo passo, come un cagnolino innamorato del proprio padrone. Sapevo che in quei momenti aveva lo stomaco stretto dall’ansia e dalla paura delle cose misteriose che le sarebbero capitate di lì a poco, e trovavo piacevolmente eccitante rimandare fino all’ultimo l’arrivo nella casa che sarebbe diventata la sua prigione per due mesi. Attorno alle otto e mezza di sera, entrammo finalmente nel parcheggio della mia villetta. Per comprarla avevo dovuto fare qualche sacrificio, ma per me era la concretizzazione di un sogno e di una scommessa, fatta silenziosamente nei confronti di chi aveva cercato di dissuadermi dal diventare uno scrittore professionista. Un po’ per fortuna, un po’ per capacità, i primi due libri erano però diventati dei best seller tradotti anche all’estero, e avevo investito tutti i guadagni in quella casa. Si trovava fuori città, in mezzo a una zona prevalentemente dedicata all’agricoltura, ed era stata costruita pensando alla tranquillità. Era circondata da un giardino con alte siepi, e avevo avuto l’accortezza di comprare per pochi soldi anche un “salvagente” di terreno incolto tutto attorno al suo perimetro, per assicurarmi che nessuno potesse invadere la mia privacy costruendo qualcosa adiacente alla mia proprietà. Scendendo dall’auto, feci notare la tranquillità della zona alla mia preda, cui avevo fatto cenno di portare le valigie in casa. “Muoviti, schiava! Da oggi sei anche la mia bestia da soma, e qui potrò addestrarti come si deve. Come vedi siamo in mezzo alla campagna, e non c’è nessuno nel raggio di un chilometro abbondante. Questo significa,” conclusi aprendo la porta d’ingresso, “che sei mia prigioniera: non puoi chiamare aiuto e non puoi scappare da nessuna parte”. Mi girai a osservare le sue reazioni a questa frase, mentre spostavo l’interruttore principale della luce: il volto di Marta era rosso come un peperone, e non certo per il peso delle valigie. “Ricordati,” la fissai negli occhi, “ora tu sei la mia schiava, e io posso fare di te tutto quel che voglio. Ma non solo: io posso anche riportarti dai tuoi genitori, farti tornare una ragazzina incapace qualunque e farti perdere per sempre ogni possibilità di essere la schiava masochista e depravata che ti piace tanto essere!! ” Arrivammo nella camera degli ospiti. “Lascia qui le valigie, e spogliati completamente. Sei una cagna, e le cagne non hanno vestiti”. Marta obbedì subito, slacciando impacciata i bottoni della camicetta. Davanti ai miei occhi vidi svolgersi la proverbiale trasformazione da brutto anatroccolo in cigno: dal tessuto spuntarono i seni giovani e sodi, coperti da un sottile strato di sudore lucido. I capezzoli erano duri ed eretti, svettanti verso l’alto come capita solo nelle ragazzine. Poi venne il turno della cintura, appoggiata velocemente su un letto vicino, e della gonna, che Marta si sfilò chinandosi leggermente in avanti, e facendo così penzolare in maniera eccitante le mammelle. La ragazza uscì dai vestiti con rapidi passi delicati, sollevando alternativamente i piedi per sfilare le scarpe, poi rimase immobile di fronte a me, con le braccia conserte dietro la schiena e le cosce ben distanziate, come le avevo ordinato. Al loro interno, spiccava una patina un po’ troppo lucida per essere causata solo dal sudore della giornata estiva. Aveva un corpo davvero piacevole a guardarsi, ma ero ben deciso a proseguire con metodo la sua degradazione. Le girai lentamente attorno, mi sedetti sul bordo del letto e, con il solo suono della voce nel silenzio assoluto della stanza, la feci trasalire: “Direi proprio che non ci siamo. Vieni qui davanti a me, e incrocia le mani dietro alla testa”. Marta si avvicinò, con un profumo indefinibile di umori, sudore e chissà quale prodotto di bellezza profumato di fiori. “Innanzitutto,” la esaminai senza sfiorarla, “le ascelle. Tu sei qui per farmi piacere, non schifo. Quei peli,” dissi riferendomi a un lievissimo alone nero, “vanno eliminati”. La ragazza annuì. “Poi i seni. Immagino ti sarai resa ben conto di avere delle tette ridicole. Sembrano quelle di un uomo, tanto sono piccole! Con delle tette così, non è certo possibile trovarti eccitante: purtroppo temo che per il momento non ci si possa fare nulla, ma è proprio vero che sei nata con tutte le disgrazie”. Naturalmente non ! era vero nulla: Marta portava una seconda più che adatta al suo fisico minuto, e i seni erano parabole perfette, ma la mia osservazione la fece arrossire ulteriormente per la vergogna, e iniziare a tremare. “La pancia.” sibilai, “Hai diciotto anni e sei già grassa. Da stasera starai a dieta, fino a che non saremo riusciti a eliminare questo lardo nauseabondo e i cuscinetti di grasso che hai dappertutto”. La ragazza cominciò a respirare pesantemente, cercando di reprimere le lacrime, e ad annuire con forza molte volte di seguito, sull’orlo di una crisi isterica, ma era esattamente quello che volevo. “Poi ci sono i peli del pube. Quelli vanno assolutamente eliminati: le schiave non possono permettersi di nascondere i loro buchi lubrichi, e con una bella depilazione sarai ancora più nuda, e io potrò tenere d’occhio quel tuo clitoride sempre pronto a indurirsi. Sei d’accordo?” Marta inspirò con forza, e scuotendo la testa sussurò debolmente: “Sì, certo padrone.” “Adesso girati, e chinati in avanti prendendoti le caviglie con le mani. Voglio guardarti bene”. La schiavetta fece quello che le dissi, anche se con qualche difficoltà. A pochi centimetri dai miei occhi potevo contemplare la visione paradisiaca dei suoi buchi ancora vergini, che mi apprestavo a violare nelle maniere più bizzarre e dolorose. La fighetta era un’albicocca tumida e coperta di rugiada, con il clitoride rosso per l’eccitazione che spuntava fra le sue pieghe. Il culetto invece era un forellino perfettamente rosa, le cui grinzette conducevano l’occhio a promettenti profondità da esplorare senza pietà. Il cazzo era diventato marmo nei pantaloni, e sgusciando dai boxer lottava per strappare il tessuto sulla coscia e uscire allo scoperto, ma ora il mio scopo era solo quello di demolire Marta, fino a farla credere la creatura più disgustosa del pianeta. “Naturalmente, faremo sparire anche questi peli schifosi e puzzolenti che hai dietro. Sei davvero una bestia: ma non ti pulisci mai la merda dal culo?” Marta rispose contraendo le natiche. “No, certo, una puttana come te non è nemmeno in grado di fare una cosa così semplice”. La incalzai, togliendole il tempo di capire l’assurdità di una simile affermazione. “Questi buchi avranno bisogno delle massime cure. Come hai visto, le donne normali li usano per dare e prendere piacere, ma tu non sei una donna normale. Tu sei una schiava, e il tuo solo scopo è dare, non ricevere. Per questo motivo, cercheremo di renderli più accoglienti del normale, anche perché se non fossi per lo meno più comoda delle altre donne, con l’aspetto che hai non avresti nessuna speranza di essere scopata. Inizieremo presto l’addestramento, e ti assicuro che non mi interesserà nulla di quello che proverai”. La figa di Marta si era messa a pulsare visibilmente, mentre il suo corpo era scosso da tremiti: quell! ‘umiliazione, unita all’idea dei maltrattamenti intimi che avrebbe subito, la eccitavano come la più navigata delle schiave. “Naturalmente, è probabile che una schiava masochista come te, perversa fino al midollo, provi piacere nel subire quello che per le altre sarebbe una tortura. Vedo bene come ti eccita l’idea, e provo davvero disgusto per te. Sei molto fortunata ad avere trovato chi si prenda cura delle tue schifose malattie”. Le labbra del volto rovesciato che mi guardava da in mezzo alle gambe, congestionato per la posizione, si mossero forse involontariamente: “Sì, padrone. Grazie!” “Ma insomma!” le urlai, facendola quasi cadere per lo spavento, “È possibile che tu non sia nemmeno capace di stare zitta? Sei la peggiore schiava che si sia mai vista, e non so neanche perché io stia a perdere tempo con te”. Feci passare qualche istante, per imprimerle bene in mente il nostro rapporto, che dal suo punto di vista era ormai diventato un dono preziosissimo, da non perdere per nessun motivo. “Poi abbiamo i muscoli. Ti credi che non veda che fatica fai a tenere una posizione così semplice?” continuai con il mio esame, “Qui bisogna fare qualcosa per allungarli un po’, e insegnarti anche che gli oggetti non si muovono. Tirati su e girati”. Marta si raddrizzò con evidente sollievo ma forse un po’ troppo rapidamente, e per un attimo barcollò per aver perso l’equilibrio. Quando fu nuovamente in posizione, continuai l’umiliazione. “Infine abbiamo queste caviglie. Sono grosse, sgraziate e soprattutto nella posizione sbagliata. Scommetto che non ti sei mai preoccupata di indossare tacchi alti, vero?” “No, padrone,” confessò sull’orlo della disperazione la ragazza. “Lo immaginavo, eppure non è difficile. Basta guardare una qualsiasi foto, o illustrazione, o un manichino! Per essere piacevole a ! guardarsi, una donna deve tenere il piede come se fosse un prolungamento della gamba, camminare in punta di piedi. Da domani ci occuperemo anche di questo: anche se non hai fatto nulla per meritarlo, domani andremo a comprare delle scarpe adatte, con un tacco a spillo adeguato, e forse riusciremo a renderti guardabili almeno i piedi”. Sul volto di Marta avevano già cominciato a scivolare delle lacrime silenziose, ma non avevo ancora finito. “Adesso seguimi, schiava. Cominciamo a renderti accettabile togliendoti di dosso questa puzza”. Arrivammo nel bagno, dove le mostrai i comandi della vasca per idromassaggio. Rimanemmo in silenzio mentre la vasca si riempiva, mentre Marta continuava a piangere sommessamente, priva ormai di ogni orgoglio personale. “Spero che tu sappia come lavarti. Quando sei pronta asciugati con l’asciugamano nell’angolo e torna da me”. Uscii dalla stanza mentre la ragazza entrava in acqua. “E non masturbarti senza il mio permesso, depravata!” Mentre Marta era impegnata nel bagno, mi diedi anch’io una rapida sciaqquata e preparai l’occorrente per la serata, recuperando una borsa di materiale dalla “cantina”. Quando Marta mi raggiunse, trovò ad aspettarla una parure di lacci di cuoio, disposti in bell’ordine sul letto. “Da questo momento in poi dovrai indossare sempre i segni della tua schiavitù,” le spiegai facendola avvicinare, “alcuni di questi accessori ti saranno tolti in pubblico, ma il collare lo indosserai in continuazione, proprio come una cagna”. Marta aveva nuovamente gli occhi lucidi per l’eccitazione, e si fece allacciare con entusiasmo le polsiere e le cavigliere che avevo preparato, fatte di cuoio nero imbottito, dotate di anelli spessi e resistenti, e chiuse con un lucchetto identico per tutti i pezzi. Le feci alzare i capelli mentre le applicavo il collare: sembrava stesse ricevendo una collana in dono, ma mi assicurai di farle capire la funzione dell’oggetto. Strinsi il cuoio quanto più era possibile senza darle problemi di respirazione, e agganciai una catena all’anello che le luccicava sulla gola. “Ora mettiti a quattro zampe, e stai nella posizione che ti compete,” le ordinai, dopodiché la condussi come una cagnolina fedele in tutta la casa, mostrandole gli oggetti più importanti e ogni stanza, tranne una. Quando arrivammo di fronte alla porta della cantina, mi limitai a strattonarla via con più forza del normale, facendole emettere un mugolio. Cominciavo ad avere fame, ma c’era qualcosa che volevo farle fare fintanto che avesse lo stomaco vuoto. “Inginocchiati,” sbraitai, e la mia schiavetta si alzò con qualche incertezza, mettendo subito le mani dietro la schiena. Usando un moschettone da marina, unii fra loro gli anelli dei bracciali imprigionandola per la prima volta. “Prova a muovere le braccia,” le suggerii, e Marta lottò debolmente contro i legami. “Ora sei legata, legata come una schiava. Ti piace essere legata, e tirata per il collare come un animale?” La sua! voce era come sempre un sussurro: “Sì padrone, sono tanto felice. È quello che ho sempre desiderato…”. “Lo so,” la interruppi, e ora anche se non lo meriti in alcun modo voglio soddisfare una altra tua fantasia perversa”. Trascinai la mia volenterosa prigioniera davanti a una poltrona, e mi sedetti abbandonandomi per un attimo alla sensazione piacevole di un filo d’aria fresca, proveniente dal climatizzatore che stava cominciando a rendere la casa vivibile. “Ora tirerò fuori il mio cazzo,” la avvertii, “e ti insegnerò a fare un pompino”. Marta trasalì leggermente. “È una cosa che fanno tutte le donne, e che devi imparare a eseguire alla perfezione. Ricordati sempre che ora l’unico scopo della tua esistenza deve essere darmi piacere e servirmi”. La schiava annuì, mentre io estraevo dai pantaloni il pene semieretto. “Avvicinati. Come vedi non è bene eretto, perché nonostante tutti i miei sforzi non è possibile eccitarsi con un mostro come te. Il tuo primo scopo sarà quindi di eccitarmi per bene usando la bocca. Inumidisciti le labbra con la lingua”. Marta eseguì con movimenti rapidi, che tradivano la sua paura. “Ora baciami tutto il cazzo”. Le labbra calde e morbide della ragazzina erano un sogno! : il suo corpo si inarcava e la testa si inclinava in maniera deliziosa nel tentativo di raggiungere ogni punto, con bacini tutto sommato casti, come avrebbe potuto dare a un bambino piccolo sulla guancia. “Senti come si sta indurendo? Però devi metterci più passione. Ora usa la lingua, e leccami per bene. Devi dare lappate piene, lente, come un cane. Leccami anche le palle, ma con delicatezza perché sono molto sensibili”. In pochi attimi, il pene fu perfettamente lucido di saliva ed eretto. Il prepuzio aveva scoperto per metà il glande, e Marta studiava il membro con un misto di attenzione e perplessità. “Adesso apri leggermente la bocca, solo quel che basta per prenderlo. Fa un anello con le labbra, e usale per spingere indietro la pelle che copre la punta”. La cappella entrò nella bocca calda e umida della ragazza, e provai un leggero brivido nel violare quel canale. Marta cominciò a tirare indietro la testa, ma la fermai. “No, stai così. Ora usa la punta della lingua per accarezzare lentamente tutta la punta, in particolare sotto… Sì… Lì..”. Mantenere il controllo era difficile, ma era importantissimo mantenere il ruolo del maestro un po’ annoiato. “Ora voglio che tu faccia scivolare lentamente il cazzo in bocca. Fallo appoggiare sulla lingua, e prendine più che puoi. Voglio sentire la tua gola con la punta: fermati solo se non ne puoi fare assolutamente a meno”. La schiava si mosse lentamente, con qualche difficoltà per la posizione scomoda in cui si trovava. Arrivata a buon punto, sentii distintamente il velopendulo toccare la cappella, e la ragazza ebbe un soprassalt! o, scossa dal riflesso naturale che la spingeva a estrarre il cilindro di carne dura dalla gola, ma prima di abbandonare l’impresa fece un altro tentativo, riempiendosi gli occhi di lacrime. “È tutto qui quello che sai fare?” trovai il coraggio di ammonirla, “Non mi dirai di non essere buona nemmeno a fare pompini? Hai visto le ragazze sulla rivista, che prendevano cazzi per tutta la loro lunghezza? Prova ancora, e tieni la testa più all’indietro, così farai meno fatica”. Marta fece scivolare ancora qualche millimetro di carne in bocca, ma ancora ebbe un sussulto. Sapevo bene di chiederle molto, ma il mio gioco consisteva proprio nel pretendere l’impossibile, per umiliarla quando non riusciva a darmelo. “Sei proprio una piccola incapace,” incalzai, mentre la ragazza cercava di fare un altro, disperato tentativo di gola profonda, “ma penseremo anche a questo. Ora fammi un massaggio con le labbra e la lingua. Tiralo tutto fuori, e senza perderlo dalle labbra torna ancora giù fin! ché puoi”. Marta ubbidì, lentamente e cercando il mio sguardo con gli occhi, ma quando sentii nuovamente la sua gola contro il mio cazzo non riuscii più a controllarmi. “Dovrai imparare bene anche la velocità,” le dissi, “Non fare resistenza e fa’ fare a me”. Con entrambe le mani le afferrai i lati della testa, più delicatamente possibile, e iniziai a muoverla con un ritmo più adatto alle mie esigenze. “Muovi la lingua,” trovai la forza di ordinarle, “e passala su tutto il glande quando arrivi alla punta”. Dopo qualche stantuffata, la ragazza riuscì a prendere il ritmo, e a fare un servizio non eccelso, ma forse anche per la sua inesperienza molto eccitante. Con un grande sforzo di volontà, rallentai il pompino per prepararla al mio orgasmo. “Tra poco ti godrò in bocca,” le spiegai, “e voglio che impari da subito a bere sempre tutto. Non perderne nemmeno una goccia, capito?” Gli occhi un po’ lucidi mi guardarono, dilatati. Dopo un leggero gesto di assenso, ricominciai a usare ! il corpo della ragazzina per il mio piacere. Bastarono pochi andirivieni, e presto sentii lo sperma avanzare irrefrenabile. Riuscii a ritardare l’orgasmo solo del tempo necessario a estrarre la maggior parte del cazzo dalla bocca di Marta, per non schizzarle tutto in gola. La ragazza soprassalì, ma nonostante le sensazioni nuove di quella pratica riuscì a tenere la bocca incollata al mio fallo pulsante di godimento. La vidi ingoiare, e subito dopo ricevere un altro schizzo. A giudicare dalla sua espressione, il sapore non doveva piacerle molto, ma fortunatamente non vomitò, come avevo temuto nel pomeriggio. Chiudendo gli occhi sul lecca lecca di carne, Marta mandò giù anche il secondo schizzo. Non appena riuscii a prendere fiato, le diedi il nuovo ordine: “Ora usa la lingua per ripulirmi tutto. Succhia bene tutto lo sperma e ingoia, puttana!” In questo la mia schiavetta fu più brava di quanto avessi mai potuto sospettare, e in pochi secondi estrasse il pene dalla bocca, dal cui angolo sinistro colò un sottilissimo filo bianco. Era stata un’esperienza eccezionale, ma non volevo darle alcuna soddisfazione. “No, non ci siamo. Scommetto che non ti è neanche piaciuto il mio sperma, vero?” Arrossendo, Marta scosse la testa: “No, padrone… m…mi spiace!” “Sei proprio un rifiuto umano, una spazzatura! Pensa a quanti milioni di donne sarebbero state felici di potersi nutrire con una cosa tanto buona e preziosa come lo sperma, e tu fai addirittura la schifata!” Guardandole gli occhi, capii che Marta stava per piangere. “Oltretutto il tuo pompino faceva schifo. Ho goduto solo per un motivo meccanico: non certo perché tu mi abbia eccitato. Sei senza speranza, ma forse riuscirò anche a insegnarti queste cose. Innanzitutto dovrai imparare a prendere tutto il cazzo, fino in gola, e poi dovrai imparare a succhiare per bene, a darmi qualche sensazione in più di mettere l’uccello in un buco freddo”. Era fatta. Marta scoppiò in lacrime, e mentre singhiozzava le liberai le braccia e la trascinai a quattro zampe, senza complimenti, verso la cucina. Feci inginocchiare Marta con la faccia contro il pavimento e le braccia incrociate dietro la schiena: i buchi vergini facevano bella mostra di se fra le gambe deliziosamente divaricate, e il sedere bene esposto mi fece cambiare rapidamente progetto. Appoggiai gli attrezzi con cui volevo preparare qualcosa da mangiare, e riferii alla mia schiavetta le mie intenzioni: “Sai, schiava, quel tuo culo all’aria mi ha fatto venire in mente una cosa. Tu sei qui per essere addestrata al tuo ruolo, e nel non gradire il mio piacere hai certamente commesso una grave mancanza. Volevo rilassarmi e mangiare qualcosa, ma penso che tutto sommato tu meriti una punizione per il tuo comportamento, e se la rimandassi ti abituerei subito male. Alzati, e mettiti in piedi appoggiata con il ventre al tavolo, sul lato lungo”. Marta scattò in posizione, con una rapidità che suggeriva come non avesse capito cosa la aspettasse. “Appoggiati sul tavolo, e apri le gambe fino a toccare con le caviglie le gambe del tavolo”. Mentre la schiavetta ubbidiva con ! qualche difficoltà, estrassi da un cassetto delle piccole corde sintetiche, come ne tenevo nascoste un po’ in tutta la casa. Usando gli anelli sulle cavigliere, fissai le gambe della ragazza in posizione divaricata, e dopo un attimo anche i polsi vennero bloccati alle altre due gambe, lasciandola completamente immobilizzata. “Ora aspettami qui,” la avvisai minaccioso, dirigendomi in cantina.
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