Si chiama Anna (se volete). Ha trentuno anni, a settembre il sesto anniversario di matrimonio. Il marito è Andrea: quattro anni (circa) più di lei. Discreta stabilità economica dopo i primi difficoltosi tempi, che sono adesso epopea della casata. (Ad ogni anno e ogni gradino di medio benessere gli stenti passati si dilatano, un ricordo molto sfumato che ha referenti nella casa più piccola, nella difficoltà di invitare a pranzo amici o parenti, – principalmente una questione di sedie -. Sulle tovaglie non ha mai avuto problemi, sono opera sua, ancora adesso le lavora con civetteria calcolando quanto costerebbero alla Rinascente).La casa è a riscatto, come se fosse loro, questo spiega forse lo sfoggio di tende, ma è Anna che le vuole, aggiunge ed amplifica, sospetta che ciò nasconda una insana passione ma lo nega anche a se stessa, senza negarsi il vizio, perchè il loro fluttuare candido e colorato le costruisce spazi viventi sempre più rigogliosi.Quando la donna a ore è andata via la casa le si aggira attorno, l’avvolge di parquet lucidi, tappeti, cuscini, fiori secchi, cristallerie di Murano, residui doni di nozze, e l’ambigua violenza dei mobili, designer in serie, ma di gusto.L’ordine della casa è un sentiero che Andrea percorre con precisione quando rincasa, stanco, tra anticamera, bacio affettuoso, rumori di televisione, porte sbattute nell’appartamento accanto, cena in cucina per non sporcare il soggiorno, vestaglia di Anna, giornali di Moda (Andrea legge i romanzi a puntate), bagno, sciacquoni, scrosci di rubinetti: un sentiero sonoro che sfuma nell’ansimare della notte. L’amore una volta alla settimana, per tenerezza. I gesti sono rituali, mimano le tenere goffaggini delle prime volte divenuti ora monumenti, Garibaldi con la manona di bronzo sul petto, anche le frasi, esorcismi contro il Demonio del vuoto senza noia.L’amore (si dice così) è un argomento sacro e perciò scurrile. Nelle conversazioni difficilmente ha un referente nell’atto a cui allude, che è come defecare all’incontrario, piacevole ma vergognoso. L’amore è sublime quindi noioso. Scontata comunque la gran parte che esso ha nel mondo: è a questo che alludono quando la sera del sabato si va a cena o al ristorante con gli amici. Il bruciante sottinteso consente fulminee regressioni: i ragazzi coi ragazzi, la banda dei maschi, le bambine tra di loro, ogni gruppo voluttuosamente nel proprio specifico che esalta l’innata qualità anche linguistica d’ognuno. E i rapporti tra i due gruppi sono l’intersecarsi, a sua volta convenzionale e segretamente atterrito dalla diversità, di lance mortali, bang-bang di pistole giocattolo, sberleffi malvagi, tanti altri esorcismi. Solo attorno al banchetto sacrale il terrore reciproco si placa: divorando il vivente cadavere del nemico (ogni assente), Anna passa l’osso ad Andrea, in amichevole intesa, le labbra lorde di sangue e brandelli di carne. Pur compiendo una graduatoria Anna sa che lei e Andrea sono a loro volta il cibo di altri consimili banchetti, anche con gli stessi commensali: e per il terrore del pasto che si farà di lei, improvvisamente e rabbiosamente spacca il cranio del Marito e ne offre il cervello fumigante e velenoso ai convitati, mangia ella stessa socchiudendo gli occhi in attesa del colpo mortale che sta per esserle vibrato.Sono belle serate, non fitte, a volte sostituiscono un Amore perchè si fa tardi. Nella solidarietà di gruppo con le femmine si fanno prove d’armi. Sorridono insieme al pomposo cicaleccio maschile, scimmiesche esibizioni per strappare alla loro testimonianza una prova della loro esistenza: perciò resistono nell’ambiguo, onde il gioco possa ripetersi.Ma l’attenzione è principalmente interna al gruppo. Ogni elemento del calice che s’è realizzato addosso viene offerto al vaglio di sguardi armati, dietro la sottile affettuosa cortina di voci c’è gelido silenzio di giudici (tutto misurato, dal peso del trucco al disegno dell’abito ed è questa la verifica sfibrante e gloriosa al cui fine l’intera settimana è costruita). Il segno della vittoria o della sconfitta è impercettibile all’occhio non allenato, un cedere improvviso, un lampo collettivo di curiosità, una attenzione protratta d’una frazione al di là del limite della convenzione. Perchè la vittoria non va consacrata ma annientata con altra vittoria, niente è stabile formalmente ma ruota all’interno di categorie definite da cinquanta secoli ad ogni livello, la cui rigidezza, impercettibile ai maschi, è tale da consentire una gamma inesauribile di combinazioni grazie al contrasto degli elementi che la compongono a al loro rapporto con quel sottofondo ch’è il corpo.Anna ha graduatorie e distinguo che regolano il suo guardaroba, nè ricco nè povero, perchè uno dei trucchi è tenersi a livello: e sfrutta dell’intervento maschile (la preferenza di Andrea per le minigonne, ad esempio) le variazioni e possibilità offerte alla sua libertà, con l’aria della docilità costruttiva: e il gusto di Andrea si modifica e attenua insensibilmente attraverso il feed-back del complesso colorato degli abiti di Moglie, un messaggio globale su cui si suppone di intervenire con la sicurezza che è la sua parte, e che legge docilmente compitando le frasi richieste.All’interno di questo contesto perde valore e significato l’astratto problema di bellezza o bruttezza. La maggior parte delle amiche ignora (con indifferenza) se Anna è brutta o no. Potrebbe esserlo se avesse meno soldi, con più soldi sarebbe bella. Lei stessa si pone il problema condizionalmente alle situazioni di emergenza (un nuovo invitato, una serata mondana). La nudità della valutazione maschile non ha più sede qui, rimane solo “potrebbe essere se…” unica intuizione d’una mancanza, che anima gli sguardi degli uomini. In effetti le manca qualcosa ma lo ignora ella stessa, cosciente, questo si, che la bellezza è un prodotto sociale, almeno quella chiesta a lei. Nei primi tempi, certo, il suo corpo nudo era bello tra le braccia di Andrea, e n’è rimasta la convinzione, il che basta. L’unico nemico da temere è la vecchiaia: perchè è insidioso intervento del corpo sull’artificio, invincibile perchè sfugge alla valutazione, non consente raddrizzamenti e ripieghi se non in alcune elette persone. Se fosse schiacciata di figli ne avrebbe l’alibi, succhiandone insieme la giovinezza: ma sola è soltanto il suo corpo traditore, in una gara di sopraffazione nella quale è perdente da entrambi i lati. Un pomeriggio esce con l’amica Claudia. Non usa la sua cinquecento ma la macchina straniera di Andrea, motivi di prestigio. I due possessi a volte, come quel pomeriggio, si invertono con reciproca soddisfazione. Giungere in cinquecento in ufficio, una volta conquistato un grado, è disinvolta naturalezza di chi ha campi di sperimentazione, rapporto padronale con le cose. Al contrario l’uso saporoso di cuoio della vettura più grande nel tastullarsi d’un pomeriggio carico di tepori di fine inverno è una dilatazione del corpo, estensione su uno spazio più vasto, ruggire. Il cielo è un po’ grigio di nubi torpide. Non pioverà. Ore dense di urgenze inutili, esitazioni per il parrucchiere, esposizioni e consigli reciproci. Vanno a un’asta. Anna non è mai stata a un’asta, Claudia la introduce. Un palazzo antico al centro, lunga comoda scalinata, manifesti, folla. Il banditore calvo col martello in mano, mucchi di oggetti alle sue spalle, tutti egualmente grigi polverosi e inutili, come il salone che sembra liso, incartapecorito dal tempo, in prima fila ci sono gli antiquari spiega Claudia.Anna sbadiglia, aveva sperato di vedere sbucare tra le mani del banditore l’oggetto magico che avrebbe aggiunto luce alla sua casa e a se stessa, e lei sola in grado di intenderlo. La fila di crani stanchi davanti a lei emette radiazioni di noia, la sedia è scomoda. Dalla parte opposta, con la schiena alla parete, un uomo malvestito la guarda. Sotto la luce striata dei lampadari a pioggia di gocce di cristallo è smunto e magro, il viso scavato, ombreggiato di barba, un usciere o un facchino degli antiquari. Anna sente lo sguardo fendere l’aria velata di fumo, tastarle il viso, i seni, i fianchi, sollevarle la gonna. Gira la testa, cerca di prestare attenzione al banditore, un nodo di ripugnanza. Lo sguardo lascia strisce di attaccaticcio, l’uomo deve essere mal lavato, insomma sudicio, un rigo di grasso sul colletto, l’abito sfilacciato.Claudia va a telefonare al marito (perchè venga a riprenderla), Anna vorrebbe impedirle di muoversi ma non osa. La sedia vuota al suo fianco la fa vacillare. Guarda l’uomo, che si è staccato dal muro e le si avvicina lentamente, districandosi con calma tra la folla. Anna stringe le labbra, raccoglie la sua ira. E’ seccata, non risponderà o sarà seria, non lo guarderà. “La sedia è occupata”. L’uomo ha puntini rossi sul volto, occhi piccoli neri sbucati da una rete di rughe, è abbronzato. L’abito ha un taglio d’altri tempi, deve essere stato d’un signore, un abito con storia. L’uomo si ferma accanto al posto di Anna, non si siede nè le rivolge la parola, neppure quando lo sguardo interrogativo di Anna raggiunge le nere fessure dei suoi occhi. Le tende la mano. Anna è molto indignata, fortuna che Claudia è via. La mano dell’uomo è calda e secca, autoritaria, con la palma verso l’alto, uno strumento di trazione. Anna sente umida la propria, al contatto, e ne è seccata alzandosi. E’ difficile traversare gli ultimi posti, dove il corridoio è interrotto dalle sedie, per fortuna l’uomo la guida reggendola, qualcuno deve alzarsi per farli passare. E’ stanca. Oltre la porta solenne del salone, al di là del ballatoio dove terminano le scale di pietra grigia, c’è un lungo corridoio con tappezzeria stinta, porte sprangate. In fondo la porta con la scritta W.C. in targhetta metallica smaltata di bianco, come a scuola. Un ragazzo li guarda mentre l’uomo, che ha lasciato la sua mano e la precede di un passo, apre la porta ed entra, la fa entrare a sua volta accendendo la luce, chiude a chiave. C’è puzza di gabinetto, la luce debole piove da una lampadina appesa a un filo molto in alto. Il gabinetto è ricavato da una stanza molto vasta, oscura negli angoli, divisa con un tramezzo, più lunga che larga. Sudicie mattonelle bianche scrostate salgono a metà parete: in fondo il cesso alla turca, di fronte a lei il lavandino con mezzo specchio, a destra una vasca da bagno di metallo con buffe zampe di leone, lo smalto ingiallito dall’acqua. Si guarda allo specchio, abbassando gli occhi pensa che il pavimento è un po’ umido.L’uomo si toglie la giacca, l’appende alla parete. Sfila la cravatta, in effetti l’interno del colletto è sudicio. Anna guarda le tozze dita dell’uomo dalle unghie smozzicate aprire i bottoni del pantalone, trascinare alla luce un pene non eretto che penzola ripugnante, roseo in cima, sul nero dei pantaloni. Anna pensa che ancora non hanno parlato e bisognerebbe parlare per trovare una spiegazione. Ma ha fretta di finire e anche voglia di ritardare il momento del colloquio. L’uomo tira da dietro il bagno uno sgabello di legno, siede a gambe larghe lasciando penzolare il sesso. Anna gli si inginocchia davanti, il freddo del pavimento le sale per le ginocchia. Con Andrea accadeva nei primi tempi, era lui a volerlo, a lei non piaceva molto. Poi hanno smesso, probabilmente lo faceva male. Allarga la bocca, cercando di coprire i denti con le labbra rientrate, sotto le dita la fragilità setosa della pelle dell’altro. I pantaloni dell’uomo hanno uno spiacevole odore di stantio e muffa, ma il sesso le da il gusto d’un goloso pezzo di pane uscito dal forno, mangiato in fretta di nascosto, da bambina. Rotea la lingua muovendo la testa, con fretta di finire, un po’ di angoscia nell’attesa dello schizzo rovente nella gola. Ma l’uomo la scosta, si alza in piedi. L’appoggia con le spalle al muro, Anna solleva la corta gonna (fortuna che non ha i collant, ma prima deve slacciare il reggicalze). L’uomo guarda altrove, non l’aiuta. Anna regge contro il ventre con una mano la gonna arrotolata, con l’altra si curva a sfilare le mutandine, che l’uomo intasca. Poi si appoggia al muro a gambe larghe, avvertendo con le natiche il freddo sporco delle mattonelle. L’uomo le passa una mano dietro la nuca, sente che cerca con l’altra la strada, quando l’ha trovata le poggia una mano sul petto, da sopra la camicetta abbottonata, le strizza un capezzolo. Quando è penetrata, Anna urla o crede di farlo, chiude gli occhi e apre la bocca ma non incontra quella dell’uomo, che ha la testa girata di lato. Lo sente muoversi con forza, sollevandola un poco da terra, ed è molto sconquassata. Poi le scoppia dentro mentre lei ancora pensa a questi particolari e l’uomo s’è già staccato da lei dopo averle stretto una mano tozza e dura sulla liscia pelle delle natiche, intanto fiotti caldi l’hanno investita dentro e le grondano tra le gambe, tra le calze orribilmente raggrinzite, brutalmente un dito le forza il delicato anello posteriore, prima di lasciarla bruscamente. Anna geme mordendosi un labbro.L’uomo esce lasciando l’uscio socchiuso. Anna corre a chiudere a chiave. Lavarsi nel lavandino è faticoso, anche con l’aiuto dello sgabello, solo quando si abbassa la gonna ricorda che l’uomo ha intascato le mutandine. Se la gonna fosse trasparente?Claudia le chiede dov’è stata. Al gabinetto, risponde. E’ sgradevole stare seduta senza mutandine. Va a casa in fretta. Fa una lunga doccia, si lascia penetrare in ogni poro da sapone profumato. A letto Marito ha sonno, Anna non sa da dove cominciare. Le volta le spalle. A luce spenta Anna si frega il corpo per scacciare ogni residuo contatto, il sonno rotola via, a occhi sbarrati nel buio l’unico dato che ricorda è lo sguardo freddo, intenso dell’uomo attraverso il fumo del salone, ma ha in bocca sapore di pane caldo. Le lenzuola sanno spiacevolmente di pantaloni. Scopre con la mano, piccola, delicata, venata d’azzurro sul dorso, l’inguine di Andrea, raggiunge il sesso che dorme e non risponde. Ritira la mano, rassicurata dalla consistenza della realtà. Si chiede come la fantasia possa descrivere archi osceni. Il sonno scivola a ondate sul ricordo, se di ricordo si tratta.
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