Apparentemente era tutto calmo. I negozi erano pieni di acquirenti, specie quelli che vendevano prodotti alimentari. La gente camminava senza alcun segno di preoccupazione nel volto. Alcuni passeggiavano lentamente sul lungomare, soffermandosi, curiosi, a guardare i pescatori che ‘sbattevano’ i polipi freschi. Questo era uno spettacolo che attraeva specialmente i numerosi militari degli USA e di S.M. Britannica. Nella città vecchia, nei piccoli vicoli simili a carrugi liguri e a meandri di suk mediorientali, le donne erano affaccendate a preparare la cena per i loro uomini. e di quando in quando s’affacciavano dall’uscio che dava direttamente in strada per assicurarsi che i bimbi, tutti presi dai giuochi e dal rincorrersi, non si allontanassero troppo. Nella cantina d’uno di quei ‘bassi’ , Jonathan Miller, driver di un lorry USA, era sdraiato, fumando tranquillamente e sfogliava un magazine che la mattina gli aveva portato Nick. Jona era nero e lucido, come dovevano esserlo i suoi avi quando raccoglievano il cotone nelle piantagioni del Missouri. Ormai era parecchio tempo che stava tutto il giorno su quel lettino, salvo quando faceva i suoi lunghi esercizi ginnici per non perdere la tonicità dei muscoli. Solo di notte, lo facevano uscire, saldamente incatenato, per fargli prendere un po’ d’aria sul bianco terrazzo che fungeva da tetto. Almeno quattro uomini gli erano intorno, pronti a gettarglisi addosso al primo muoversi sospetto. Ma non ce n’erano mai stati. Jona, era divenuto grigio per la paura, la notte che le cose andarono ben diversamente da quello che s’era proposto. Aveva concordato con Nick la cessione di un certo numero di scatoloni di sigarette dietro corresponsione di un bel mucchietto di verdoni. Al momento dello scambio, però, nel buio pesto della periferia, in una strada sterrata che scendeva verso il mare, aveva creduto di poter fare il furbo, e di fregare Nick, Nicolino. Erano dietro al lorry, aveva intascato il gruzzolo e aveva detto che andava a prendere le chiavi del lucchetto che chiudeva le sponde, che erano nella cabina di guida, ci sarebbe voluto un attimo. Dovevano fare le cose in fretta perché era atteso alla NAAFI Canteen. Aveva lasciato il motore al minimo. Salì in cabina e stava per ingranare la marcia e scappare… ma non s’era accorto dell’uomo col coltello spianato che stava raggomitolato sul sedile, nel lato opposto alla guida. Nicolino, intanto, aveva aperto o sportello e gli puntava al fianco un’altra acuminata lama. Jona cominciò a tremare. “Don’t kiss me… don’t…” Apparvero altre ombre, scese dal camion che, intanto, s’era avvicinato in silenzio. Lo disarmarono, gli tolsero i dollari dalla tasca, gli misero un sacco sulla testa, di quelli grandi, che gli scendeva fin quasi alle ginocchia, lo legarono come un salame. Fecero saltare il lucchetto che chiudeva la sponda, e rapidamente, trasferirono tutta la merce del lorry sul loro capiente furgone, ci misero anche Jona. Chiusero accuratamente, e s’avviarono verso la strada asfaltata, curando con due vecchie scope, di cancellare ogni traccia. Sul parabrezza era ben visibile il ‘travel permit’ che rilasciava l’AMG. Il modulo era autentico, perché lo avevano avuto dalla tipografia che li stampava per il Governo Militare Alleato, ma tutto il resto era solo un’accurata imitazione. L’ampia cantina fu quasi riempita con un veloce passamano, cui parteciparono numerose persone. Altro che poche scatole di sigarette. Erano tante, e anche casse di liquori e cioccolata. Jona fu trascinato accanto alla merce. Quando la MP ritrovò il lorry vuoto e senza driver, iniziò accurate indagini, pagò numerosi informatori, e sulla scorta delle certe notizie avute dai loro collaboratori, finì col considerare Jonathan Miller come ‘disapperared’ più che ‘missing’. Nella casa di Nicolino erano raccolti quelli che avevano partecipato all’azione. Cosa fare di quel ‘negro’? Una cosa è rubare, rapinare, svaligiare un autocarro, un vagone ferroviario, magari anche con qualche botta in testa ai guardiani, altra era far sparire un essere vivente che, in fondo, era disonesto come loro, anzi più di loro perché vendeva i beni del suo paese affidati alla sua custodia. Che traditore! Vittorio aveva detto del pericolo che la PM potesse giungere fino a loro. Gli altri avevano scosso la testa. In quella parte della città la PM si limitava a mostrare i muscoli, a girare sulle jeep roteando i manganelli e masticando chewing gum, fischiando alle belle donne, gridando ciao segnorina! Ma si guardava bene dallo scendere dalle auto, dall’avventurarsi a piedi nel dedalo di viuzze troppo strette per far passare un’auto. Solo le pattuglie miste osavano infiltrarsi dappertutto, ma si fermavano esclusivamente per eseguire qualche arresto, per prelevare chi era andato altre un certo limite, insomma, chi aveva usato troppo disinvoltamente un’arma, quasi sempre un coltello. In tal caso c’era una sorta di tacita intesa: nessuna resistenza alla cattura di chi s’era fatto individuare e tutto sarebbe finito li. Le testimonianze, poi, gli avrebbero fornito i soliti alibi. Le pattuglie miste erano sempre comandate da un italiano. Angelino suggerì di portarlo lontano, molto lontano, e di lasciarlo li, legato, in modo da farlo trovare a qualcuno di passaggio. Nicolino aveva ascoltato tutti, in silenzio. “Lo incateniamo in cantina, dove c’è anche quella specie di cesso che abbiamo collegato allo scarico. Intanto ci pensiamo. Se tenta di ribellarsi lo facciamo a pezzi e lo buttiamo in alto mare. Ci parlo io.” Il locale era molto vasto, era il deposito di quanto rubavano, compravano di contrabbando, rivendevano. Era stata realizzata una specie di grossa canna fumaria che gli consentiva di prendere aria dalla terrazza. Alcune lampadine lo rischiaravano discretamente. Era caldo d’inverno e fresco d’estate. La volta, a botte, era stata imbiancata a calce. Molto lungo, collegava più abitazioni della superficie, alle quali era collegato da ripide scale terminanti in rozze grosse porte di legno. Jonathan Miller era ancora nel sacco, disteso per terra. Immobile. Gli erano tutti intorno, slegarono cautamente il sacco, lo fecero sedere per terra, ancora legato. Lui sbatté gli occhi, guardò quegli uomini, conosceva solo Nick. Non riusciva a comprendere dov’era finito. Non mostrava d’aver paura, però. Mentre era chiuso in quella ruvida canapa, dove riusciva a respirare appena, aveva pregato Dio di aiutarlo a venir fuori da quella situazione, s’era anche sorpreso a canticchiare come faceva la domenica, in chiesa, al suo paese. Nicolino gli era di fronte. “Jo, tu stare buono, good, capito?” Jona assentì col capo. “Tu stare qui, poi libero, capito?” Ancora un assenso. “Adesso noi tenerti legato, you in chain, poi libero. Se tu provi a scappare, fuggire, noi kill you! Capito?” “Ya, capito.” Farfugliò Jonathan. Vittorio aveva trovato una specie di collare di ferro e, da buon meccanico, stava armeggiando per adattarlo alla gamba di Jona. Lo stava rivestendo di pelle, e guardò il grosso gancio nel muro. Mariuccia gli aveva portato una catena da pozzo, e lui la fissò al gancio, chiudendola solidamente. Dall’altra parte l’assicurò al collarino. Avrebbe chiuso il tutto con la saldatrice elettrica. Jona era in piedi. Mariuccia s’era fermata a guardare quel giovane di colore. Allungò la mano, gliela passò sul braccio nudo, si guardò le dita aspettandosi di vederle annerite. La pelle dell’uomo sembrava unta, ma non era così. Povero giovane -pensò Mariuccia- cosa gli serbava la sorte. Carlo aveva portato giù una vecchia branda, con alcune coperte. Nicolino si rivolse alla donna. “Noi finiamo qua, tu preparagli qualcosa da mangiare, ma aspetta su. Te lo dirò io quando devi portargliela.” Mariuccia risalì al piano superiore. Jonathan lasciava fare senza parlare, guardando gli uomini che, in fondo, lo trattavano gentilmente. Gli sollevarono la gamba destra del pantalone, circondarono la caviglia col collare, lo chiusero infilando un ferro nei ganci e ribattendolo, saldarono le maglie della catena, si soffermarono a controllare il lavoro fatto. Fecero sedere Jona sulla branda, lo fecero sdraiare, si assicurarono che potesse giungere fino all’angolo dove, coperto, era il buco che collegava alla fognatura. Jonathan fece un cenno con la mano verso la bocca. “Water, please, aqua.” “OK Jo” -disse Nicolino- “Mariuccia, Mary, porta acqua e mangiare, bread. OK?” Jona quasi sorrise. “OK” Era vivo, e non osava sperarlo. Era vivo, grazie a Dio! Lunghe lacrime rigavano le guance d’ebano. Si gettò in ginocchio, si poggiò con i gomiti sulla branda, guardando fisso la nuda parete candida. Mariuccia lo trovò così, quando scese con una brocca d’acqua e un piatto dove aveva messo delle patate bollite, pezzi di pomodoro fresco, una fetta di formaggio, del pane. Un cucchiaio di legno era l’unica posata. Nicolino aveva detto che, almeno per ora, niente coltelli e niente forchette. “Ehi, Jo!” L’uomo sollevò gli occhi su di lei, tento sorriderle. Mariuccia aveva posato brocca e piatto sul rozzo tavolo che era accostato al muro, e gli fece cenno, con la mano, di mangiare. Jonathan, s’alzò in piedi. La sovrastava d’un buon palmo, eppure lei passava per una donna alta. Le fece cenno che avrebbe voluto lavarsi le mani, il viso. Mariuccia andò alla piccola botola sulla fogna, la scoprì, gli fece cenno d’avvicinarsi, prese la brocca con l’acqua, pronta a versarla. Jonathan, si tolse rapidamente la camicia, andò verso la donna, tese le mani, raccogliendo l’acqua che lei faceva cadere dal recipiente, si strofinò energicamente il viso, il petto, le braccia. Rimase così, gocciante, a guardarla, con un lieve sorriso sulle labbra. Mariuccia posò la brocca per terra, si slacciò il grembiule bianco che indossava, e lo porse all’uomo, perché si asciugasse. Rimase a guardarlo, incantata. Era come Michelino, solo il colore era diverso. Anche le labbra non erano uguali. Queste erano più carnose e meno rosse. Chissà dov’era Michelino, in quel momento, dove si trovava il mercantile sul quale era imbarcato, cosa trasportava tra l’Italia e i porti del Nord Africa. Chissà quando sarebbe stata ancora tra le sue braccia. Lo desiderava sempre, anche dopo tre anni di matrimonio, anzi più che mai! Il fratello, Nicolino, cercava di rassicurarla: “Non ti preoccupare, che il tuo timoniere torna, e come potrebbe non tornare da una bella ragazza come te!” Era molto bella, Mariuccia, alta, slanciata, con seno e fianchi statuari, delle gambe che mozzavano il fiato, il volto ovale, incorniciato da lunghi capelli, lucidi, quasi neri, e le braccia che sembravano tornite nel corallo rosa, quello che, appunto, si chiama ‘pelle d’angelo’. S’avvicinava l’ora del coprifuoco, la gente s’affrettava a rincasare. Apparivano le jeep della MP, e le prime pattuglie miste. Il Lungomare, ormai, era quasi deserto. Nella vasta sala, Paul Paterson, il Town Major, era seduto al tavolo ovale, dov’era una grande mappa della città, insieme al suo assistente, Willy Moss, al capo della MP USA, e al comandante della Field Security Section, britannico come lui. C’erano anche il Questore, un colonnello dei Carabinieri, il Colonnello Tonini del genio militare italiano, e Mario Marini, il giovane ufficiale di collegamento, l’Italian Liaison Officer. Il TM disse che era molto preoccupato per la sempre più dilagante prostituzione. Forse più ancora che per il contrabbando di materiali e merci alleate. Lui non vedeva grandi pericoli nella piccola prostituzione fatta di professioniste, e ancor meno di quella esercitata nelle case di tolleranza, anche perché ne era rigorosamente vietato l’accesso alle truppe anglo-americane. Vero che alcuni furbetti si potevano mettere in abiti borghesi per frequentarle, ma il fenomeno poteva considerarsi trascurabile. Quelle che si dovevano sorvegliare erano le cosiddette signore per bene che avevano trasformato i loro appartamenti in veri e propri bordelli, ricevendo Ufficiali alleati, italiani, ed esponenti del modo economico e politico, approfittando dell’assenza dei mariti, al di là della linea di guerra o chissà dove. Quelle riunioni, con alcolici e polverine, potevano nascondere traffici d’informazioni riservate, e non si potevano escludere infiltrate interessate a raccogliere notizie utili ai nemici, o a qualche amico scomodo. Per il Questore, il miglior modo d’agire era individuare le case, irrompervi, sia pure con le dovute cautele e i dovuti modi, e individuare i frequentatori. Per le… signore, si doveva procedere da caso a caso. Il miglior sistema sarebbe stato quello di sputtanarle, creando intorno a loro terra bruciata, rendendole inutilizzabili, ma bisognava anche considerare le conseguenze familiari che ciò avrebbe potuto comportare. Forse una bella paura poteva bastare. L’essenziale era distruggere le immancabili reti di omertà e protezioni che tali situazioni nascondevano. Il Tenente Marini fungeva anche da interprete. Il TM suggerì (disse proprio così, non assunse il tono del comandante) che Marini partecipasse alle retate, poteva essere utile, anche perché la sua funzione di collegamento gli faceva conoscere numerosi alti ufficiali delle varie forze armate, d’ogni nazionalità. Jonathan non poteva sfilarsi i pantaloni, la catena che lo assicurava al gancio glielo impediva. Bisognava preparargliene altri, abbottonati sul lato della gamba destra, e così pure le mutante. Era necessario comprarne altri adeguati alla statura dell’uomo. Mariuccia, intanto, ne aveva preso un paio di Michelino e li aveva arrangiati in modo da adattarsi alla necessità, così pure alcune mutandine. Vittorio scucì accuratamente i pantaloni che indossava Jonathan, in modo che potessero essere trasformati e servire da cambio. Quando Mariuccia scese a portargli da mangiare, ebbe un sussulto. Quello era Michelino, ma in nero. Gli stessi pantaloni, la stessa camiciola, aperta davanti, sul lucente petto nero. Lo aiutò a lavarsi, come il giorno prima, e gli lasciò una grossa catinella di ferro smaltato, per ogni necessità, e un telo di spugna. Nel risalire le scale si sentiva turbata. Jona nei panni di Michelino. Un pensiero la fece arrossire involontariamente. Jona e Michelino. Chissà com’era quello di Jona… lì. Sì, quello lì. Ebbe un fremito che la percorse tutta, e indugiò nel basso ventre. Ci voleva una scusa per tornare a vederlo. Dal ripostiglio prese un materasso che non usavano, dall’armadio due lenzuola e, così carica, si accinse a scendere di nuovo. Quando la vide così appesantita, Jonathan cercò di andarle incontro, fin dove la catena glielo consentiva, prese il materasso arrotolato, nel quale erano state messe le lenzuola, e lo mise sulla branda. Così facendo, le aveva sfiorato il seno. Per ringraziarla, le mise una mano sulla spalla. Una mano così grande e così lieve. Mariuccia ebbe la sensazione del lieve tocco d’una farfalla, una carezza appena accennata, ma di fuoco. Il tumulto del suo grembo l’assalì di nuovo. Quasì scappò, un po’ ansante, e andò a gettarsi sul lettone vuoto, nella sua camera di sposa. Nell’elegante palazzo sul lungomare, al primo piano, il vasto appartamento di Dora Gualano, rampolla d’una ricca e nobile famiglia, ospitava quasi tutte le sere i suoi vecchi e nuovi amici. Una compagnia molto varia, per idioma, per età, per incarico. Dal giovane tenentino ancora fresco di West Point allo stellato generale, dal guardiamarina all’ammiraglio, dall’esordiente professionista ai cattedratici d’ogni facoltà. Si parlavano tante lingue, anche il polacco, ma predominava l’inglese, con le più disparate inflessioni, dallo scozzese all’ineccepibile accento di Cambridge, al texano. Le donne erano quasi tutte giovani, ma sempre attraenti ed eleganti anche se in abiti molto semplici. La meno giovane, Ida Filosa, alla vigilia dei cinquanta, ne dimostrava appena quaranta, vivace come una ventenne, sempre in cerca di flirt che appagassero le sue esigenze, sessuali ed economiche. Del marito, sapeva che era in un campo di prigionia, in Kenia. Sperava di rivederne il ritorno… comunque…. Tra le più giovani, Licia era quella che si notava maggiormente. Non per la particolare bellezza, ma per l’imponenza della persona. Alta, prosperosa, con i capelli corvini sapientemente in disordine, il volto senza trucco, salvo un lieve rosa sulle labbra. Gli occhi nerissimi, smaglianti. Le braccia ben tornite. Era all’università, giurisprudenza. Non voleva gravare sulla famiglia, anche se molto benestante, per i suoi capriccetti vari e molto costosi. La casa di Dora le avrebbe consentito di realizzare i suoi desideri in modo piacevole e generosamente compensato. Che scemi, gli uomini, ti conducevano a godere paradisiacamente e in più ti facevano splendidi regali. Qualcuno, più pratico, sostenendo di non aver avuto tempo per acquistare un ‘pensierino’, le infilavano nella borsetta quello che serviva per farle ricordare il delizioso tempo trascorso insieme. L’azione era stata preparata nei minimi particolari. Agenti lungo le scale, nel vano del portone, sul terrazzo. Furgoni all’angolo della strada, pronti ad avanzare per ospitare gli uomini non identificabili immediatamente e tutte le donne, per ulteriori accertamenti. Gli ordini erano precisi: massima cortesia e massima decisione. Marini si presentò alla porta, da solo, mentre sul pianerottolo attendevano un commissario di pubblica sicurezza, un ufficiale dei carabinieri e un ufficiale della MP. Alla cameriera che aprì l’uscio, con molta circospezione, chiese di parlare con Dora, e quando questa apparve, curiosa e sorridente, le spiegò che per ordine del TM e delle autorità italiane avrebbero dovuto individuare tutti i presente e prenderne nota. Si diceva spiacente, ma non ne sapeva i motivi, lui eseguiva degli ordini. Si trattava di una normale operazione di pubblica sicurezza. La pregava di collaborare, allo scopo di evitare ogni spiacevole conseguenza. Intanto, erano giunti, in aiuto a Dora, il Generale Hayes di SM Britannica e il Comm. Pisani, della Prefettura. Marini ripeté il tutto, informò che era accompagnato da altre persone e che tutto l’edificio era piantonato. Quando Pisani disse che avrebbe voluto informare il Prefetto di ciò che stava incredibilmente accadendo, Marini gli rispose, calmo ed educato, che avrebbe potuto farlo non appena sarebbe stato ripristinato l’allacciamento telefonico, per il momento sospeso. Gli ricordò, anche, che l’operazione era voluta e diretta dal Governo Militare Alleato, e che lui era solo l’ufficiale di collegamento. Il Generale Hayes si limitò a dire: “Well, let’s go and see what’s happening…” vediamo che succeed! I due uomini si avviarono ad avvertire gli altri. Marini aprì la porta e fece entrare coloro che attendevano sul pianerottolo. Fuori della porta, nel frattempo, s’erano messi alcuni Carabinieri e MP. Le operazioni di identificazione stavano procedendo abbastanza celermente e senza incidenti. Pisani e Hayes avevano raccomandato di essere calmi e collaborativi, loro, poi, avrebbero sbrogliato il tutto e certamente alle signore sarebbero state fatte delle scuse ufficiali, salvo ad esaminare se non vi fossero gli estremi d’abuso di potere e violazione di domicilio. Marini aveva spiegato che si dava la precedenza ai signori perché avrebbero dovuto lasciare subito l’appartamento. Era costretto a fare così perché questi erano i precisi ordine del TM. Mentre italiani e alleati erano intenti a trascrivere i dati identificativi di ognuno, Licia face in modo di avvicinare Marini. Era visibilmente pallida, il labbro inferiore tremava appena. “Tenente?” “Si, signorina?” “Sono Licia Forni.” “Si?” “Credo che tu… scusi, lei mi conosca… sono una sua concittadina, più o meno della sua stessa età. Nel nostro piccolo centro ci si conosce tutti. La passeggiata lungo il Corso ci fa incontrare più volte al giorno. O meglio, ci faceva incontrare… Allora andavamo a scuola… ricorda? Io la ricordo benissimo, era uno dei ragazzi di cui si parlava molto tra amiche…” “Si, signorina, la ricordo benissimo. Ora, però, è bene non dirlo a nessuno, mi lasci fare il mio lavoro.” “Tenente, se lo verranno a sapere i miei genitori…” “Stia calma, ne parleremo al momento opportuno.” Si allontanò rapidamente da lei. A mano a mano che la registrazione procedeva, gli uomini venivano accompagnati alla porta e pregati di allontanarsi dall’edificio. Bisognava ricordarsi del coprifuoco. Gli Ufficiali comprendevano bene che non era il caso di soffermarsi. Le donne erano una decina, quasi tutte spaventate a morte. Padri, mariti, fidanzati, fratelli… se fossero venuti a conoscenza di quanto era accaduto… si delineavano drammi che non erano stati neppure immaginati. Dora s’avvicinò a Marini. “Perché dobbiamo venire con voi, noi donne, se gli uomini sono stati rilasciati subito?” “Il TM chiede ulteriori accertamenti. Dopo di ciò, ognuna sarà discretamente accompagnata dove desidererà andare. Vi prego di prepararvi a seguirmi, giù, al portone, ci attende un autobus. E vi prego di parlare il meno possibile. Il silenzio evita curiosità dei vicini e spiatine alle finestre.” Salirono in silenzio sul veicolo che s’avviò, abbastanza celermente, verso la periferia, imboccò il viale dell’ospedale, voltò verso destra, si fermò dinanzi alla grande entrata dov’era un cartello rosso: “Military Hospital”. Le donne si guardarono l’un l’altra, sorprese, preoccupate. Furono fatte entrare nella sala d’aspetto. Sedettero sulle panche di legno. Entrarono alcune persone in camice bianco, due uomini e tre donne. “Sono il dottor Miglio, e questi sono i miei colleghi, americani e inglesi. Le autorità alleate, per la salvaguardia della salute del personale militare, hanno deciso di accertarsi che loro, signore, siano esenti da malattie trasmissibili, sia per via venerea che orale, od altro. Per tale motivo, sarete sottoposte a visita e analisi e subito dopo rilasciate. I risultati degli accertamenti vi saranno resi noti solo se saranno evidenziate patologie, acute o di altro tipo. Vi prego di collaborare. Le visite saranno effettuate dalle nostre colleghe. Grazie.” Ci fu un forte brusìo. Qualcuna dichiarò che nessuno l’avrebbe mai visitata senza il consenso. Miglio le si rivolse con disarmante sorriso. “Vuol dire, signora, che rimarrà qui fino a quando non deciderà di dare tale consenso. Non si preoccupi, comunque, in questo caso avvertiremo la sua famiglia.” La prima ad essere chiamata fu Ida Filona, che s’avviò con aria spavalda. Mario s’avvicinò a Licia. Le sussurrò a bassa voce: “Chiedi di andare al bagno.” Lei assentì, senza rispondere. Si alzò, andò verso l’infermiera che era seduta al tavolino vicino alla porta, e le disse che aveva bisogno della toletta. Marini disse che ci pensava lui. Uscirono nel corridoio. La prese per un braccio e andò verso l’ingresso. “Adesso ti faccio accompagnare dove abiti. Domattina, però, riparti per la casa dei tuoi genitori. Sparisci per un po’ di tempo. Non cercare di metterti in contatto con Dora o con altri. Ormai sono persone schedate.” “Come posso ringraziarti? Accompagnami tu a casa…” La guardò con un lampo negli occhi. “Va a casa, va…” La spinse verso l’ingresso dove attendeva un auto e si voltò, allontanandosi in fretta. Jonathan era il suo pensiero fisso. Lo spiava in ogni movimento, cercando di non farsi vedere. Scendeva piano e se lui dormiva gli si avvicinava, allungava la mano per sfiorarlo, la ritraeva spaventata per quello che provava. Lui, a volte, fingeva di dormire, la seguiva guardingo, sempre più eccitato. Era una schermaglia che durava da tempo. Nicolino era sempre via, coi suoi compari d’affari, Mariuccia era sola in casa. Fu presa dalla solita smania di andare a vedere. Jonathan giaceva supino, col lenzuolo che gli copriva solo parte del ventre, le braccia e le gambe semiaperte, il respiro lento, profondo, il viso quasi sorridente, forse sognava qualcosa, qualcosa di… il suo sesso era prepotentemente eretto. Un obelisco della Nubia, pensò Mariuccia ricordando le foto del suo libro di scuola. Era rimasta a guardarlo, incantata. Allungò le dita, piano, lo sfiorò appena… fu tentata di afferrarlo… sentì i capezzoli strofinare contro la leggera stoffa della vestaglia. Indossava solo quella, e un paio di mutandine. Dio, che bramosia, che frenesia, che fregola. Sentiva le contrazioni della vagina divenire dolorosamente imploranti. Il deserto infuocato che anela il refrigerio della pioggia, della rugiada. Cominciava a muovere il bacino, involontariamente, irrefrenabilmente. La liberazione dal suo tormento era lì. Gli occhi le si empirono di lacrime. La sua mente tumultuava. Non ne posso più Michelino, non ne posso più… Lasciò cadere le mutandine sul pavimento, aprì la vestaglia. Piano, con agilità felina, salì sulla branda, si mise a cavalcioni di Jonathan, che seguitava a fingere di dormire, sempre più sorridente.G li prese delicatamente il grosso fallo, lo indirizzò tra le sue gambe, cominciò a farsi penetrare, lentamente, fino a contenerlo in tutta la sua immensa potenza. Era immenso, invadente ma satollante. Jonathan di scosse, l’afferrò per i fianchi e con magistrale perizia stantuffò col suo pestello impetuoso, ardente, ma balsamo refrigerante per il fuoco che covava nel grembo della femmina. Temeva che tutto sarebbe finito troppo presto, Mariuccia, anche per la lunga astinenza di Jona, ma l’uomo fu inesauribile, instancabile, conducendola all’estasi di orgasmi mai provati, all’ebbrezza di precipitare nella voluttà e poi raggiungere vette inesplorate. Ora le era sopra, leggerissimo, seguitando a farla vibrare come corda d’arpa, gemere di piacere, rantolare di passione. La sede del TM era nell’edificio che recava la scritta “Palazzo del Governo”. Ufficialmente erano stati conservati gli organi dello Stato e locali: Prefettura, Questura, Sindaco… , ma essi potevano e dovevano agire secondo le direttive e i limiti stabiliti dal GMA, Governo Militare Alleato, che per addolcire la forma aveva tolto “OT” dalla propria sigla, Occupied Territoritory. “Lieutenant Marini, Miss Forni is asking for you.” La voce della recepcionist era incolore, professionale, come sempre. Se era sorpresa lo nascondeva bene. Un po’ sorpresa doveva esserlo, perché questa era la prima volta che una donna chiedeva del Tenente Marini, l’ILO, Italian Liaison Officer. E che donna, un pezzo di ragazza che mozzava il respiro. Mario disse di farla accompagnare da lui. Dopo qualche minuto Licia entrò, splendida, affascinante, in un abito che ne esaltava e nel contempo temperava la statuaria prosperità. Mario s’alzò in piedi, le andò incontro, lei gli tese la mano, bianca, morbida, curatissima, lui la strinse cortesemente, senza particolare calore. Le indicò l’angolo dov’era un basso tavolino e due poltrone, attese che lei sedesse, e sedette a sua volta. “Come mai ancora qui? Ti avevo detto di partire.” Licia lo guardava con profonda dolcezza, gli diceva, con gli occhi, la sua infinita gratitudine, voleva fargli comprendere la strana sensazione che provava per lui, un sentimento, però, che lei stessa non riusciva a distinguere. Riconoscenza, devozione, attrazione, infatuazione, capriccio…? “Non posso partire senza ringraziarti.” Rimase silenziosa qualche istante. “Sai, è da quando ero studentessa del liceo che avrei voluto trovare l’occasione per parlare con te. Mi sei sembrato sempre così distante. Io ti guardavo, ma tu non ti accorgevi di me.” “Come non notarti e ammirati, Licia, solo che ho sempre saputo controllare le mie emozioni. Sei sempre stata una delle più belle ragazze della città.” Scosse la testa. “Ma come sei finita in quella casa?! Non credo per denari, perché tuo padre te ne può dare più di quanto te ne servano. Se desideravi un… ragazzo, chissà quanti ne puoi scegliere, d’ogni tipo, età, condizione… Bella, libera, ricca… ma che altro mai ti manca, cocaina?” La voce era fredda, tagliente, inesorabile, pur nascondendo una profonda irritazione. Licia s’era accesa in volto. “Mi trovi bella?” “Non è questo il punto. Si, sei più bella che mai. Perché umiliare la bellezza? Perché?” La donna gli prese la mano, la strinse tra le sue. “Non lo so. Era la prima volta che avevo accettato quell’invito. Ero curiosa del “regalino” che Dora mi aveva assicurato che mi sarebbe stato fatto, se fossi stata “carina”. Non ti nascondo che tremavo… poi, sei entrato tu, con tutta quella gente… ho avuto l’istinto di gettarmi dal balcone… troppo basso… Mi sono vista in pasto ai giornali, marchiata per sempre per qualcosa che, pur essendo disposta a fare, non avevo fatto. Tu mi sei apparso contornato da un alone. Mille immagini si sono affollate alla mente: l’eroe che salva la preda dall’orco… San Michele che uccide il drago… il cavaliere che tornea per la sua pulcella… Come potevo partire, andar via, senza ringraziarti?” E gli carezzava amorevolmente il dorso della mano. “Allora, quando parti?” “Devo proprio?” “Dovresti. Perché, vuoi riprovarci?” “Non ci penso neppure, sarebbe diabolico. Ma ti sono grata perché hai detto ‘dovresti’ e non ‘devi’. Vorrei restare qui. Vedendomi rientrare fuori tempo i miei si insospettirebbero e preoccuperebbero. Vorrei restare qui, specie ora che ho trovato un simile angelo custode.” Mario scosse le spalle. “Ma si, in fondo… resta qui, cerca di finire gli esami. Sei vicina alla laurea, no?” “Grazie, Mario.” Si sporse verso lui e gli schioccò un sonoro bacio sulla guancia. Prese un candido fazzolettino dalla borsa, ne umettò un angolo con la lingua e cominciò a strofinarlo dove lo aveva baciato. “Tolgo il rossetto, altrimenti le belle ufficiali alleate s’ingelosirebbero… Chissà quante ragazze passano per questo ufficio…” Mario sorrise. “Non ci crederai, ma tu sei la prima donna non militare che è entrata in questa stanza.” “Neanche la tua fidanzata?” “Non ho fidanzata, e non devo averne.” Licia lo guardò, sorpresa, con aria interrogativa. Non sapeva se prenderla seriamente o scherzare. “Hai fatto promessa di castità?” “Ho fatto promessa di fedeltà a mio moglie.” Lei sobbalzò. “Sei sposato?” “Si, e ho anche una figlia.” “Ah… comprendo.” “Non comprendi niente, perché mia figlia, che ha quattro mesi, è nata dopo quasi due anni di matrimonio.” “Sei sposato appena sei partito dal nostro paese.” “Sono quasi cinque anni che l’ho lasciato.” “Non me ne rendevo conto. Sono passati cinque anni. Tua moglie è qui?” “No, adesso è con i suoi.” “Vivi nella foresteria ufficiali?” “No, in una villetta, appena fuori dell’abitato, a sud. La condivido con un collega. Sono due piccoli appartamenti, ognuno di due camere e cucina. A me la cucina non serve. Consumo i pasti alla mensa. Alla casa ci pensa l’attendente.” “Me la fai vedere la tua casetta?” Mario la guardò intensamente. “Se non parti.” “Non parto, almeno per ora.” “Tu, Licia, dove abiti?” “Sono stata fortunata. Una mia collega d’università ha una sua abitazione. Gliela hanno acquistato i genitori, che sono di Taranto, proprio per farla risiedere qui durante il periodo degli studi. Io sono sua ospite. Adesso è andata a trascorrere qualche giorno in famiglia. Guai se sapesse quello che stavo per fare.” Guardò l’orologio, al polso. “E già passato mezzogiorno. Non voglio rubarti altro tempo. Ma, dimmi, posso tornare a trovarti?” “Dove vai?” “A casa, mi preparo qualcosa da mangiare e poi, se riesco, mi metto a studiare.” “Non posso invitarti alla mensa, avrei dovuto avvertire in anticipo.” “Non fa niente, grazie lo stesso.” “Potremmo andare a pranzo alla ‘vecchia pignatta’. La conosci, no?” “Veramente, non ci sono mai stata, ma ne ho sentito parlare. Io, però, ho un’altra proposta. Andiamo a casa mia, ho pasta del nostro paese, pomodori in bottiglia di casa mia e delle ottime bistecche da fare ai ferri. Il vino, poi, è della mia terra. Un ritorno alle origini. Vuoi?” Lo guardava con una certa apprensione. Sentiva sovrastare l’ombra della moglie, scorgeva l’ impedimento della ‘promessa’. Lui era assorto, forse titubante. Fece un lungo sospiro. “OK, a casa tua. Scusa un momento.” Si avvicinò alla scrivania, alzò il telefono. “Hallo, Molly, I’ll be back… I don’t know what time.. bye bye..” Si rivolse a Licia. “Andiamo.” Aprì la porta per lasciarla passare, si avviarono all’ascensore, scesero al piano terra, andarono verso il cortile interno dov’era la jeep di Mario. Salirono. “Da che parte?” “Sul lungomare, poco prima del Comando Air Force.” Jonathan era seduto sulla branda. Il giornale che aveva in mano, ‘Stars and Stripes’, era caduto sulle ginocchia. Lo sguardo vagava nel vuoto, la mente non sapeva dare un ordine alle idee che lo assalivano. Gli era stato detto che lo avrebbero lasciato in una viuzza di campagna. Poi non se ne era parlato più. Salvo la catena al piede, che veniva sganciata dal muro solo quando lo facevano salire in terrazza, poteva considerarsi libero. Il vano della cantina s’era arricchito d’una rudimentale doccia. Mangiava sul tavolino che Mariuccia apparecchiava accuratamente. Il cibo era buono e abbondante. S’era abituato alla cucina del luogo, con poca carne e molto pesce. Quello che lo tormentava era il non poter corrispondere con i suoi genitori. Per il resto era una prigionia sui generis. Mariuccia era d’una premurosità commovente, tenera e delicata, appassionata, amante focosa. La mancanza d’attività fisica lasciava intatte le già notevoli forze di Jona, che si manteneva in forma con lunghissimi esercizi ginnici. Tutto il resto era destinato a beneficio della magnifica brunetta dal seno sodo, dal culetto incantevole e dalle cosce splendide tra le quali dava caldo e palpitante rifugio a ‘birdie’, come Jonathan le aveva detto , ogni volta che poteva, spesso scendendo la notte, all’improvviso, specie se Nicolino era fuori per i soliti affari. Jona le carezzava, ammaliato, il pube sericeo, con gesti quasi di sacra ritualità, poi l’adagiava sulla branda, si chinava a baciarla tra le gambe, a baciare il suo nido (this is my bird’s nest), e la penetrava ‘meglio d’un dio’ diceva Mariuccia. Gli amplessi si esaurivano solo quando la natura imponeva le sue leggi. E con Jona la natura era stata più che generosa. Erano stati giorni di tormento, per Mariuccia, quando si accorse che le sue regole mensili non apparivano. Il piacere era tanto, ma l’angoscia la torturava. Incinta senza marito e d’un bimbo di colore. Significava uccidersi o essere uccisa. L’amarissima pozione di comare Carmelina le aveva torto le budella, ma l’aveva liberata dall’incubo. Promise a se stessa che non sarebbe mai più caduta in tentazione. Disse di stare male, chiese a Nicolino di badare lui al prigioniero. Lei sgranava rosari su rosari, dinanzi alla campana di vetro che conteneva la statua della Madonna. La prima volta che, dichiaratasi guarita, scese giù, Jonathan stava sotto quella specie di doccia che aveva realizzato con dei bidoni vuoti, ed era ben evidente quanto ‘birdie’ bramasse il suo nido. Mariuccia sentì che il nido non poteva attendere più a lungo di accogliere ‘birdie’, ‘the paradise-birdie’, l’uccello del paradiso. L’appartamento dove alloggiava Licia non era molto grande, ma era arredato con cura, una sobria eleganza che si evidenziava in ogni piccolo particolare. Appena entrati, andò ad aprire il balcone che affacciava sul mare. Una vista incantevole, dall’attico che dominava il panorama. A sinistra, il lontananza, la punta col faro. Quasi ai piedi dell’edificio, la rotonda dove, al pomeriggio, i pescatori esponevano i succulenti frutti di mare. Poco distante, sulla punta d’un piccolo molo, un antico ristorante era stato trasformato in Navy Club. “E’ molto bello qui.” Mario era con lei, sul balcone, vicinissima, col morbido fianco che si muoveva come una carezza sensuale. Licia ebbe un piccolo sussulto. “Ahi! Cos’è che mi fa male?” Si scostò appena e guardò l’uomo. “E’ la rivoltella. Accidenti quanto è grande, Ma non puoi toglierla?” Mario sorrise, slacciò la cintura dalla quale pendeva la grossa Colt, e rientrò nel salotto per metterla sul mobile con lo specchio. “Non toccarla, Licia, è carica.” “Non ci penso nemmeno, mi fa paura solo a guardarla. Vieni qui, sul balcone. Guarda come è bello.” Gli si mise ancora più vicina, poggiandogli la mano su una spalla. “Starei qui per sempre, ma devo preparare il pranzo. Vieni, ti faccio vedere la casa.” Lo prese per la mano e lo fece rientrare. “Questo, come vedi, è ingresso-salotto-pranzo. Vieni… questa è la camera della mia amica e” -lo condusse dall’altra parte del salotto- “questa è la mia. Da quella porta si va nel mio bagno. Ognuna di noi ha il suo angolo studio, la sua radio… Vieni.” Tornò nell’ingresso e poi, attraverso un altro uscio, in un largo corridoio che portava in cucina. “E questa è la cucina. Abbastanza ampia. Noi consumiamo qui i pasti.” “Possiamo mangiare qui anche noi. Anzi, se posso ti aiuto. Me la cavo benino, in cucina.” “Niente affatto. Adesso mi cambio e torno in cucina a preparare. Tu, attendi un po’ in salotto, poi puoi rinfrescarti… fare quello che vuoi. Hai visto dové il mio bagno. Tra mezz’ora sarà tutto pronto. Sai che mi sento un po’ agitata? Non ho mai cucinato per un uomo che non fosse della mia famiglia. Mi batte il cuore. Senti!” Gli prese la mano e la poggiò a sinistra, sul seno. La lieve stretta fu quasi involontaria. Il seno divenne ancor più sodo. Mario avvertì il turgore del capezzolo. L’allontanare la mano fu una lunga carezza. Licia aveva socchiuso gli occhi. “Vado a cambiarmi.” La voce era bassa, quasi roca. Quando riapparve, indossava una corta vestaglia rosa. Aveva sciolto i lunghi capelli neri e li aveva raccolti con un nastrino, anch’esso rosa. Mario era seduto sul divano, sfogliava una rivista di moda, molto vecchia. Alzò gli occhi a guardarla. Licia gli era di fronte, in piedi. “E’ un giornale di qualche anno. Vedi, sono modelli sorpassati.” Si chinò per indicarne uno. La vestaglia si aprì alquanto. Il seno prosperoso apparve in tutto il suo splendore. Sembrava sodo e dorato come una grossa pesca. Veniva il desiderio di addentarlo. Mario pensò che aveva fatto male ad accettare l’invito. Era giovane e sano, ed erano trascorsi più di due mesi da quando aveva abbracciato la sua donna. Licia si rialzò. “Vado in cucina! Hai molta fame?” “Pochissima pasta, ti prego. Questa sera c’è una cena ufficiale.” “Obbedisco, comandante. Se vuoi rinfrescarti sai dove andare. Ciao!” Si avviò ancheggiando. Mario andò nel bagno, si guardò intorno. Licia aveva posto degli asciugamani puliti sullo sgabello. Tolse la camicia e si lavò a lungo sotto il getto della vasca da bagno. Il rumore dell’acqua non gli aveva fatto sentire che la ragazza era tornata, forse per dirgli qualcosa, ed era rimasta dietro di lui, ad ammirare la solida ma non pesante muscolatura dell’uomo. Mario chiuse il rubinetto, allungò la mano, prese un asciugamani e se lo pose in testa, cominciando a strofinarlo vigorosamente, sul volto, sulle braccia, sul petto. Quando aprì gli occhi, s’accorse di Licia che lo guardava affascinata. “Ho sbagliato qualcosa?” Sembrò uscire da una sogno. Ero venuta per chiederti una cosa… ma dev’essere del tutto insignificante, perché l’ho dimenticata… Quando vuoi, e se vuoi, viene in cucina, non restare solo… non lasciarmi sola. Fra poco bollirà l’acqua… ancora pochi minuti e sarà pronto…” Seguitava a parlare, con frasi smozzicate, quasi cercando le parole. “Vado…” Nell’uscire, si voltò a dare ancora uno sguardo all’uomo che stava rinfilandosi la camicia. “Carmelina é a letto con la febbre alta. Non ha nessuno. Mariuccia, devi andare ad assisterla per la notte. Povera donna. Lei si prodiga tanto per gli altri e adesso rischia di non avere chi le possa dare un bicchiere d’acqua. Pensare che molte donne le devono proprio tanto. Si può dire che le abbia salvate da guai grossi. Povera Carmelina, una pozione per guarire subito non l’ha trovata, per se. Ti accompagno io. Poi, quando finirà il coprifuoco, domattina, torno a riprenderti. Preparati.” Nicolino aveva parlato lentamente, con tono preoccupato. Mariuccia mise alcune cose nella borsa e rimase esitante vicino alla porta della cantina. Avrebbe voluto avvisare Jonathan, ma pensò che il fratello se ne sarebbe domandato il perché. “Andiamo, Nicoli’.” Il percorso non era molto lungo. Nicolino lasciò la sorella al portone di Carmelina e ripartì in fretta perché, le aveva detto, non voleva farsi cogliere dal coprifuoco. Strano, rifletté Mariuccia, mio fratello va sempre in giro di notte e questa sera… Carmelina era a letto, ma non sembrava essere molto accaldata. Disse che la febbre era diminuita, ma lei si sentiva tanto debole da non riuscire ad allungare la mano per prendere il bicchiere sul comodino. “Mariu’, in cucina c’è da mangiare. Io desidero solo un po’ di pane e pomodoro. Tu vedi quello che vuoi. Qui c’è un letto sul quale puoi riposare. Vedrai che non ti darò troppo fastidio. Sento che domani starò molto meglio. Il sole era alto quando Nicolino tornò a prendere la sorella. Appena a casa, Mariuccia disse che sarebbe andata a portare un po’ d’acqua a Jona. Nicolino la fermò, prendendola per il braccio. “Non c’è bisogno. Jonathan se ne è andato!” Mariuccia, bianca come un cencio slavato, cadde a sedere sulla panca accostata al muro. “Se ne è andato?” “Si. E’ andato via. Lo abbiamo portato, questa notte, in un luogo abbastanza lontano, dopo vari giri per fargli perdere l’orientamento. Lo avevamo bendato e coperte le orecchie. Poi gli abbiamo tolto la catena, e lo abbiamo lasciato nel folto d’una siepe. Ci ha ringraziato. Ha detto che sperava di finir bene, di non essere accusato di diserzione. Gli abbiamo detto che se avesse parlato troppo lo avremmo ritrovano in capo al mondo per fargliela pagare. Ha ringraziato tutti. Soprattutto te…! Mariuccia sedeva impietrita, disfatta. Guardava il fratello con acredine. Nicolino le si mise di fronte. “Finiscila, Mariù. Tu devi ringraziarmi. Posdomani torna tuo marito! Capito? Torna tuo marito! Facciamo finta di niente, che è meglio! Ma che credi che non mi sia accorto di quanto ti sia fatta fottere, come una cagna in calore. Vi avrei ammazzato con le mie mani. Tutti e due, tu e quel disgraziato di negro! Ma sono un vigliacco, ho avuto paura del processo, del carcere… ho avuto pietà per Michelino, pover’uomo, che stava smazzando per mare mentre tu chiavavi in cantina. T’ho anche veduta, dimenarti infoiata e mugolante. Che schifo, Mariù. Mia sorella che si fa sbattere da un negro! E che terrore si leggeva nei tuoi occhi, quando temevi d’essere gravida. Bel regalo ci avresti fatto, soprattutto a Michelino. Un bastardo nero, perché non sei riuscita a tenere strette le cosce. Basta, adesso e per i prossimi giorni, fino a quando non tornerà tuo marito, lavati bene, dappertutto… capito? Dappertutto, dentro e fuori, in particolare dentro. Chiedi perdono alla Madonna per quello che hai fatto, perché a Michelino non puoi! Ti spaccherebbe il cuore. E farebbe bene. E visto che ti piace tanto chiavare, regalagli un figlio, può essere che ti calmi, che la tua… cosa… trova pace. Va’ zoccola d’una sorella, e non farti vedere fin quando non torna Michele!” Si voltò, uscì sbattendo la porta. Tornò per gridarle che se non aveva le mestruazioni doveva tornare dalla comare, e rinnovare quello che aveva fatto la precedente volta. Non doveva correre il rischio di farsi ammazzare dal marito. Mariuccia era impietrita, cerea, con gli occhi sbarrati. Dopo gli ottimi spaghetti che ricordavano i vecchi usi di casa, e la bistecca alla griglia, erano seduti sul divano del salotto a bere il caffè. Vero caffè avuto per vie traverse. In quella città, fortunosamente quasi del tutto risparmiata dalle distruzioni materiali della guerra, si trovava tutto. Bastava indirizzarsi alla persona giusta. “Sei una bravissima cuoca. Era da molto che non riprovavo i sapori d’un tempo. E’ inutile le cose genuine sono impagabili. Grazie, mi hai fatto un gran regalo.” “Ti piacciono le cose naturali?” “E semplici, senza tante manipolazioni, senza complicazioni.” “Ti sembro complicata, io, o naturale e semplice?” “In che senso?” “Nel senso che vuoi tu. Mi comporto con naturalezza?” “Mi sembra di si.” “Ti sembro sincera, spontanea?” “Si… forse un po’ impulsiva.” “Che intendi per ‘impulsiva’? Che agisco senza riflettere, solo per spinte emotive. Che sono un’istintiva, una passionale?” Mario sorrise. “E’ un vero e proprio interrogatorio. Cercherò di chiarire quello che intendo dire. Non credo che tu abbia riflettuto sufficientemente prima di decidere di andare da Dora. Forse neanche quando sei venuta a trovarmi, né quando mi hai invitato a pranzo, a casa tua. Credo che la tua visita e il tuo invito abbiano una base emotiva. Un po’ istintiva devi esserlo. Per quanto riguarda la passionalità solo tu puoi stabilirlo.” “E’ un’analisi che risponde perfettamente al mio essere. Non sempre mi pento, però, per la mia scarsa riflessione in materia di scelte, di decisioni.” “Cioè?” “Amaramente pentita e rammaricata per essere andata da Dora. Tutt’altro per essere riuscita ad averti qui, con me.” Arrossì appena, gli prese la mano. “Una cosa che ho sognato tante volte, da ragazza…” Mario pensò che era giunto il momento di andarsene. La guardò fissa negli occhi, ma l’espressione che le lesse nel volto lo intenerì e lo eccitò nel contempo. Le piccole labbra rosse di Licia erano tumide, timidamente frementi, le narici dilatate, il seno affannoso. Le sfiorò la guancia col dorso della mano. Lei la prese e se la portò alle labbra infuocate. Si protese e lo sfiorò con un lieve baciò. Lui le prese il volto tra le mani e la bacio intensamente, con passione, voluttà. Rimasero in silenzio. Si guardarono a lungo. Mario decise di non farsi indietro. Era una gran bella ragazza, e lui si sentiva attratto da quel corpo giovane e fremente. La prese tra le braccia e la baciò ancora, scese con la mano nella scollatura della vestaglia, sul seno, sul capezzolo eretto, più giù, sul piccolo ombelico, verso il delizioso e morbido tepore che la accolse tra le gambe. Licia lo baciava vibrante, eccitandolo sempre più. Si alzò e lo guardò con gli occhi lampeggianti. Lo prese per la mano, lo condusse nella sua camera, cominciò a sbottonargli la camicia…. Lasciò cadere la vestaglia… Scostò la leggera coperta di cotone, si sdraiò sul candido lenzuolo… Erano trascorse alcune ore, giacevano disfatti sul letto disordine. Licia si alzò, così, nella sua splendida nudità, e s’avviò verso il bagno. Mario s’appoggiò sul gomito, pensoso. Era capitato… ma era stato bellissimo, delizioso, appagante. Il suo sguardo si posò su una macchia scura del lenzuolo. Licia era, intanto, tornata. Lui le indicò la macchia, lei assentì col capo, con dolcezza infinita nel volto sereno e dolce. Gli si rifugiò tra le braccia, gli sussurrò nell’orecchio: “Si… è la mia prima volta…”
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