Tu, bastardo, non mi telefoni mai. Mai-mai-mai-mai. Molti altri lo fanno. Si vede che sono meno bastardi di te. Peccato che delle loro parole non mi importi granché. Probabilmente pensano a me come io penso a te. “La bastarda non mi ha chiamato. Devo essere sempre io a farlo…” Ho la febbre, sto male. Debolezza e tutto il resto. Una febbre alta, di quelle che non ti fanno capire più niente. Un delirio, dove realtà e sogno si frammischiano, perdono il confine, si compenetrano. Un dormiveglia in cui le sensazioni ti appaiono realtà mentre sono sogni e tu non hai la forza di destarti e nemmeno quella di sprofondare nel sonno vero, dove il sogno è soltanto sogno. Allora tu sei venuto. O meglio, la tua rappresentazione fatta dalla mia mente annebbiata dalla febbre, dal mio corpo squassato dalla temperatura troppo elevata. Creatura infernale, maligna, ti sei avvicinato a me. Bello come non mai. Bello come non avevo il coraggio di ricordare, ombra irreale a turbare lo stato di dolorosa incoscienza in cui galleggiavo. Eri accanto a me e mi guardavi, lo sguardo malizioso appena annebbiato dal fatto che non eri reale. Lo sguardo malizioso troppo ardente per essere soltanto un sogno. Non avevo la forza di muovermi, a fatica ho serrato le palpebre. Ma continuavo a vederti anche a occhi chiusi, così non li ho più riaperti. Ti sei sfilato la T-shirt e l’hai gettata a terra. Così, in piedi col torace nudo, ti sei lasciato contemplare. Anche in sogno non smetti di sentirti un dio. Ti piace che io ti osservi. Demonio o Narciso, hai dato una sferzata al mio cuore. Hai la pelle chiara. Volevo toccarti, ma avevo perso il controllo del mio corpo. Le mie braccia fremevano dalla voglia di abbracciarti, le mie mani spasimavano per accarezzarti. Ma come se il tuo Cupido scagliasse dardi intinti nel curaro, i miei muscoli si erano fatti pesanti e non rispondevano agli ordini del cervello. Così sono rimasta inerte mentre la tua immagine perdeva i confini come un miraggio. Poi la tua catena d’oro scintillò. Circondava il tuo collo in maniera talmente sensuale che mi venne da piangere perché non riuscivo ad alzarmi e a leccartelo tutto, tutto quel collo elegante, muscoloso, coperto dalla tua pelle chiara. Leccartelo fino alle orecchie, leccarti i padiglioni, entrarci dentro con la lingua, seguire ogni rilievo con la punta e poi morderti e succhiarti il lobo. Mentre le dita volevano passare nei tuoi capelli ricci, giocarci, tirarli e arrotolarli. Così vicino a me e così irraggiungibile. Ero già bagnata. Guardavi lontano e, nel farlo, ti sei morsicato il labbro inferiore. Non volevi toglierti i jeans finché non notavo che la tua erezione li deformava. Come desideravo poter allungare la mano, passarla sopra quella ricca prominenza, sentire che tu la spingevi contro le mie dita e ondeggiavi il bacino per aumentare la pressione. Ma la mia paralisi continuava. Tu, invece, hai cominciato a muoverti. Senza la minima pietà per me, hai alzato le braccia, le hai passate dietro la nuca dove hai bloccato le dita di una mano con quelle dell’altra. Così i muscoli delle braccia, del petto e dell’addome si sono evidenziati in un altorilievo che mi ha mozzato il fiato. Sai essere crudele, molto crudele. In quel momento invidiavo quelle donne che, di propria spontanea volontà, si fanno legare al letto con foulard di seta. E una volta legate provano il piacere umiliante di una completa sottomissione. Avrei dato dieci anni di vita per essere frustata, per aver i capezzoli torturati da morsetti e la pelle scottata dalla cera di una candela. Sarei stata la schiava più ubbidiente, avrei soddisfatto i desideri più inconfessabili del mio padrone. Invece ero immobilizzata da un sortilegio maligno che mi faceva impazzire di desiderio per un fantasma proiettato dalla mia mente. Che si esibiva senza che io lo potessi raggiungere. Dal collo in giù, una superficie di pelle morbida e vellutata, col suo fantastico odore di maschio che io avrei potuto baciare e leccare per un’eternità. Partendo dalla catena d’oro, mi sarei spostata sul trapezio, prima a destra, poi a sinistra, l’avrei compreso nella mia bocca totalmente, per morsicarlo con dolcezza. Avrei leccato le ascelle, ne avrei respirato il sudore di maschio in amore. Fino a ubriacarmi, fino a farmi girare la testa. Poi avrei giocato con i capezzoli, con la lingua e con i denti. Li avrei succhiati, li avrei morsicati, li avrei baciati. Quindi sarei scesa lungo la linea alba con la lingua instancabile, mi sarei fermata a esplorare l’ombelico mentre le mani si disimpegnano con i bottoni dei jeans. Quanti bottoni ha la patta di un paio di jeans? Uno, due, tre, quattro, cinque… La tua immagine, il tuo simulacro reale e/o sognato, il tuo fantasma, la tua proiezione nella mia mente si sbottona i jeans. Uno, due, tre, quattro, cinque… Sento i fluidi che la mia passera sta producendo furiosamente che colano giù dalle labbra. Rivedo la scena a rallentatore. Uno, due, tre, quattro, cinque… Il mio corpo immobilizzato protesta. Vorrebbe dita che stringono i capezzoli, denti che li mordicchiano. Vorrebbe te che mi baci le labbra, che mi passi la lingua tra le cosce. Il tuo fantasma si è sfilato i jeans. Porta ancora i boxer, ma in un soffio cadono a terra. Perché sei venuto a torturarmi così? Non mi soffermo subito sulla tua erezione. E’ tutto il tuo corpo che mi incanta. Visto così, nella sua totalità, riesce quasi a bastarmi. Dato che non posso farlo con le mani, indugio con lo sguardo sul fianco. Anche se non è uno sguardo vero e proprio, perché l’immagine che io ”vedo” è dentro di me, prodotta da me. I muscoli addominali che si attaccano all’ileo sembrano la copia di quelli di una statua greca. C’è quasi un gradino. Ed è una caratteristica così maschile, irripetibile per le donne proprio per la diversa inclinazione del bacino, che quasi mi commuove. E’ la cosa più bella di un giovane corpo maschio. I greci l’avevano ben capito! E’ il dettaglio sempre presente in ogni statua maschile. Il dolce gradino degli addominali. Le anche strette, da cui si partono le cosce lunghe e muscolose, senza esagerare come quelle dei culturisti di adesso. Solo il quadricipite leggermente più largo della tuberosità dell’anca. Il segreto è in questi pochi particolari. E tu te li ritrovi tutti e li esponi così sfrontatamente che mi fai rabbia. Non posso accarezzarti, non posso leccarti, non posso baciarti… Continuo a guardarti. Hai davvero un’erezione superlativa. Da sballo. In realtà, tutto in te mi fa sballare. Ma dover solo guardare quel tuo cazzo micidiale è davvero troppo. Vorrei sentirmelo tutto in bocca, lavorarmelo bene di lingua fino ad assaporare il salato del liquido prespermatico, poi scendere fino alle palle, leccarle infischiandomi dei peli scuri e intanto respirare con le narici dilatate il tuo odore, il tuo odore, il tuo odore. Poi tornare a lui, che mi riempia la bocca, giù fino in gola e sentire finalmente che si contrae, mentre ti accasci pieno di piacere. Pazza, sto diventando pazza. Sarà la febbre che mi sconvolge, saranno i farmaci che mi fanno delirare. Ma tu continui ad essere nella mia camera, così vicino che se avessi la forza potrei toccarti, così vero che mi sembra che non si tratti di un sogno. Ti tocchi con la mano destra. Hai dita lunghe e larghe, a guardarle sembrano una specie di promessa, un antipasto prima di gustare il piatto forte che hai tra le gambe. Con delicatezza sposti il prepuzio e scopri il glande, sferico e violaceo. Sembra un’offerta, un dono. Un dono avvelenato che non posso ricevere. Tu che entri dentro di me. Mi allarghi con quel glande pauroso e mi riempi completamente. Poi ti muovi piano piano. Hai un ritmo irresistibile, ti seguo in un’orbita stratosferica che mi porta lontanissimo da questo letto, da questa camera in cui sto sdraiata e schiacciata dalla febbre. Vorrei avere voce per gridare, per gemere, per ansimare. Tu continui accelerando soltanto un poco il ritmo. Ma non è vero, lo so. Ho la febbre alta, è tutto un delirio. Di colpo la tua immagine, il tuo fantasma, la tua proiezione non c’è più. Ora posso perfino muovermi e rispondere al telefono. Comunque, lo so che non sei tu, bastardo.
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