Destino crudele Erano gli inizi degli anni cinquanta ed io e la mia famiglia non ce la passavamo tanto bene. Mio nonno, mio padre e mio zio erano morti al fronte, il resto della famiglia disperso chissà dove. Eravamo rimasti soli ed affamati. Io, appena undicenne, mia madre Lucia trentaduenne, la sorella Maria 26enne e i miei due fratellini Matteo e Luca, rispettivamente di sette e sei anni. Vivevamo in un monolocale freddo ed umido ed i soli due letti a disposizione erano stati uniti per avere così più calore durante la notte. Il poco cibo per sfamarci era compassionevolmente offerto dal parroco del nostro piccolo paese, che puntualmente ad inizio settimana si presentava a casa con una cesta di pane, del formaggio e qualche ortaggio, portando una ventata di gioia in me e nei miei fratellini. Ci esortava sempre a dire le preghiere prima di mangiare e prima di coricarci e poi si metteva in disparte dietro una tenda e confessava mia madre. Io nella mia innocenza non riuscivo proprio ad immaginare di quali peccati si macchiava, poiché don Nicola era, ogni volta, così sorpreso da pronunciare con enfasi degli “ooohhh” prolungati. Sia mia madre che zia Maria si somigliavano molto e, anche se la mamma era più formosa e di qualche centimetro più alta, i capelli neri e lunghi, il colore della pelle olivastra, gli occhi scuri e le labbra carnose, erano simili per entrambe. Se non fosse stato per quegli stracci che indossavano ogni giorno e per la cattiva nutrizione, sarebbero state le donne più belle del paese. Per qualche tempo siamo andati avanti grazie ai piccoli lavoretti che saltuariamente le due donne riuscivano a trovare e grazie, naturalmente, anche a don Nicola. Poi, però, alle porte dell’inverno tutto ebbe un cambiamento radicale. Don Nicola fu colpito da una grave malattia e nel giro di poche settimane lasciò la vita terrena. Il nuovo parroco non aveva nessuna intenzione di confessare mia madre, perciò eravamo senza speranza alcuna. Fu così che nel giro di pochi giorni mamma Lucia e zia Maria decisero di mettersi in affari da sole. Il nostro monolocale fu diviso in due: da una parte c’eravamo io e i miei fratelli, mentre dall’altra mamma e zia ricevevano in continuazione visite da parte di quasi tutti gli uomini del paese. I lamenti e i gemiti che si udivano alle volte erano così assordanti che mi costringevano a portare fuori a spasso i miei due fratellini. Ormai avevo ben capito quale fosse il mestiere delle due donne di casa e sinceramente non ero per nulla adirato con loro, anzi le ammiravo per il loro coraggio e per la loro determinazione. Con il passare dei mesi le cose cominciarono ad andare molto meglio: non vivevamo più in quello squallido buco e, soprattutto, non soffrivamo più la fame e il freddo. Avevo compiuto dodici anni d’età quando trovai il mio primo impiego: garzone di un panettiere. Alla fine della settimana tornavo a casa con la piccola paghetta ed orgoglioso la mostravo al resto della famiglia e con molta presunzione dicevo ai miei che presto non avrebbero dovuto più fare quello strano lavoro, perché a loro ci avrei pensato io. Gennaro Bostini, il panettiere, era un uomo grasso di circa una cinquantina d’anni, calvo, baffuto e con un vocione da far paura. Sua moglie Lucilla, invece, era altrettanto grassa, ma con qualche anno in meno. Avevano una figlia, Silvia, di quattordici anni che passava intere giornate rinchiusa nella casa sopra la bottega, vestita di un solo tutù rosa, ad esercitarsi in impegnativi passi di danza. Cosicché, le note che uscivano dal vecchio grammofono accompagnavano le mie giornate lavorative. Di tanto in tanto, Silvia, veniva a farci visita, sempre con quell’aria altezzosa ed irriverente, ed io, nonostante tutto, ero tremendamente affascinato da quell’esile figura femminile. Più di una volta mi ero chiesto come avessero fatto i due grassoni a mettere al mondo una sì bella creatura. Per un intero anno le cose andarono avanti senza grossi cambiamenti, ma agli inizi della stagione primaverile la mia povera mamma si ammalò. La sua era una malattia venerea, contratta da qualche forestiero di passaggio, a quei tempi difficile da curare. Grazie all’aiuto di un giovane dottore e ai denari risparmiati, mamma Lucia fu trasferita in una clinica a Roma, dove ci assicurarono che nel giro di qualche mese sarebbe ritornata a casa. La mamma si raccomandò con zia Maria e me affinché badassimo a Matteo e Luca e il 10 giugno 1952 partì alla volta della capitale. Zia Maria, sentendo il peso della responsabilità, decise di non esercitare la professione per un po’ di tempo, almeno sino a quando i due ragazzini non avessero attutito il turbamento per il distacco dalla figura materna. Io, di contro, continuai la mia vita di sempre e, forse perché impegnato durante l’intera giornata, non avvertivo la mancanza di mia madre se non a sera. Una di queste rientrai a casa più tardi del solito poiché sulla strada del rientro dalla bottega ero rimasto affascinato dalla nuova palla in cuoio di Gianni Rosetti, figlio del sindaco del paese, che con altri amici si divertiva a scaraventare il più lontano possibile la bella sfera. Non è che fui invitato a prendere parte al gioco, per carità ero pur sempre il figlio di una malafemmina, ma lo stesso rimasi lì come spettatore. Quando poi arrivai a casa trovai sull’uscio zia Maria che appena mi vide mi venne incontro e mi mollò un sonoro ceffone. Corsi in casa e mi buttai in lacrime sul mio letto e, quando la zia si accorse che neppure le parole consolatorie dei miei fratelli riuscivano a tranquillizzarmi, si sedette al mio fianco e cominciò a scompigliarmi i capelli. Mi spiegò di come era stata in ansia per me e di quanto si sentiva disperata al sol pensiero che mi fosse accaduto qualcosa di grave. Mi asciugai le lacrime e l’abbracciai e solo allora mi resi conto che quel pianto a dirotto non era altro che l’effetto della tristezza per l’assenza della mia cara madre. Cenammo tutti assieme e, dopo aver ascoltato con molta attenzione una fiaba amorevolmente raccontata dalla zia, andammo tutti a letto. Ero lì per addormentarmi quando fui destato dalla mano della zia che mi toccava la caviglia e mi chiedeva sottovoce se fossi sveglio. Alla mia risposta affermativa, mi chiese di seguirla nella sua stanza. Dopo esserci distesi fianco a fianco sul grande letto, sentii la sua calda mano cingermi la mia e il suo respiro farsi più affannato e senza proferire parola alcuna capii che non avrei rivisto più mia madre. Soffocai il mio urlo di dolore sul suo petto. I soldi cominciavano a scarseggiare e zia viveva nel terrore che se avesse ricominciato il mestiere avrebbe potuto contagiarsi della stessa malattia della mamma. Perciò si mise alla ricerca di un nuovo lavoro, ma un po’ per la crisi di quegli anni e un po’ per i pregiudizi della gente, non ottenne nulla di concreto. I giorni scorrevano inesorabili, i risparmi erano esauriti, e riuscivamo a mangiare qualcosa solo grazie alla mia paghetta da garzone. Quando tutto lasciava presagire il ritorno a quegli anni di povertà assoluta, ecco che per una volta la fortuna ci tese la mano. Il maggiordomo di un ricco possidente bussò alla nostra porta e senza disturbarsi di varcare l’uscio comunicò alla zia che il suo padrone era disposto ad assumerla come cameriera nella sua grande casa. Quella sera festeggiammo con canti e balli e fui contento di costatare il sorriso ritrovato sui volti dei miei cari. I miei fratelli cominciarono a frequentare la scuola, mia zia a lavorare presso il vecchio signor Corvaglia che, grazie anche ad alcuni particolari straordinari, elargiva un discreto salario ed io continuavo a lavorare presso i Bostini e continuavo ad innamorarmi sempre più di Silvia, divenuta ancor più bella. Una domenica mattina il sig. Bostini venne a cercarmi a casa e, dopo avermi spiegato che lui e sua moglie dovevano assentarsi per tutta la giornata a causa di problemi familiari, mi chiese se fosse una seccatura per me recarmi a casa sua per fare compagnia alla figlia sino al suo ritorno. Risposi in maniera negativa e dopo avermi dato una pacca sulla spalla e messo una moneta nella mano destra, mi esortò a far presto. Così, con mia immensa gioia e con mio enorme imbarazzo mi ritrovai seduto in un angolo del grande salone ad ammirare quella figura leggiadra danzare sulle note di melodiose sinfonie. Sicuramente ai suoi occhi dovevo sembrare il più classico degli ebeti giacché restavo con la bocca dischiusa e non mi muovevo di un millimetro. Poi d’un tratto la musica cessò di riempire la stanza e per la prima volta dopo tanto tempo mi rivolse la parola. – Ti chiami Roberto, vero? – Sssi … si. – Ti piace la musica? – Sssi … si. – Conosci qualche grande compositore? – … Nnno … no. – Certo, come potresti. Ed interrompendo la discussione si avvicinò ancor più a me e guardandomi fisso negli occhi mi disse: – Sai mi sono accorta di come mi osservi tutte le volte che scendo giù in bottega e di come arrossisci se solo incrocio il tuo sguardo. Dimmi ti piaccio? – Sssi … si … tanto. – Lo sapevo, ma … sai noi due siamo così differenti. Tu sei un povero garzone e tale resterai, mentre io sono destinata a diventare una grande ballerina e ad avere un nuvolo di ammiratori e … Poi troncando il discorso mi fece cenno di alzarmi. Lo feci e lei mi afferrò per mano e mi condusse nella sua stanza. Io la seguivo incredulo di quello che stava accadendo. Appena dentro mi meravigliai della bellezza di quel luogo e assorto nella contemplazione di ogni piccolo particolare che ornava quella stanza, non mi accorsi che Silvia si era liberata delle poche vesti che indossava ed ora si presentava ai miei occhi in tutta la sua bellezza. Si stese sul letto a baldacchino e mi chiese di avvicinarmi. Io ero sicuramente rosso in viso e deglutivo continuamente e nel farlo avanzavo solo di qualche centimetro. Sollevai lo sguardo e mi soffermai ad ammirare la perfezione dei suoi piccoli seni, per poi spostare l’attenzione sul piccolo cespuglietto nero che spuntava tra le gambe e che ben contrastava con il candore del suo corpo. Avevo già visto le mie donne di casa nude e la cosa non mi aveva affatto turbato, ma quello che provavo in quel momento era di ben altro valore. Quando ormai ero ai bordi del letto mi ordinò senza preamboli di spogliarmi. Lo feci e mi vergognai tantissimo quando il mio membro si presentò in tutta la sua magnificenza (sino allora avevo avuto solo qualche erezione notturna, nient’altro). Lei lo guardò con molta attenzione e con un movimento repentino lo toccò. Provai una sensazione tutta nuova: il mio corpo fu invaso dal calore e da un formicolio generale che defluiva nelle mie instabili gambe. Si avvicinò ancor di più al mio membro, tant’è che potei sentirne il respiro affannato direttamente sulla punta. Non resistetti più e, per la prima volta nella mia vita, ebbi un orgasmo. M’imbarazzai tantissimo ed ancor di più quando vidi tra le sue mani alcune gocce di un liquido biancastro ed appiccicaticcio. Lei rise e si prese gioco di me affermandomi che ero solo un ragazzino rammollito. Mi tirai su i calzoni e uscii in fretta e furia da quella casa. I giorni che seguirono furono una vera tortura. Ogni volta che incontravo Silvia avvampavo ed abbassavo lo sguardo e nonostante tutto non potevo non accorgermi del suo perfido sorrisino. Tornavo a casa sempre di malumore e persino i mie adorati fratelli non riuscivano a rallegrarmi. Amavo quell’insolente ragazzina e lei mi umiliava. Tutto ciò non poteva passare inosservato agli occhi di mia zia. Infatti, una sera dopo cena mi chiese d’aiutarla nelle faccende domestiche dato che era molto stanca. Risposi di si e dopo aver dato la buonanotte a Matteo e Luca, ci ritrovammo soli in cucina. – Allora Roberto come va il lavoro? – Bene. – Il signor Bostini ti tratta bene? – Si. Si rese conto che non avevo molta voglia di parlare, perciò non insistette più di tanto e continuammo nelle nostre faccende domestiche. Quando tutto fu in ordine mi chiese: – Faresti una cosa per la tua zietta? – Certo, cosa? – Avrei bisogno di un massaggio ai piedi. Sai, il nuovo lavoro mi porta a stare in piedi per tutta la giornata e quindi a sera un po’ mi dolgono. – Non preoccuparti sai che per te farei qualsiasi cosa. – Grazie Roby. Ci spostammo nella sua camera e dopo essersi seduta ai bordi del suo letto, si tolse le scarpe e le calze e mi offrì i suoi affusolati piedi. Presi dal suo comodino un unguento biancastro e cominciai il massaggio. Zia sembrava rilassarsi molto ed io me ne rallegrai, volevo veramente bene a quella creatura che nonostante non fosse maritata doveva sorbirsi il peso di tre ragazzi. Mentre lentamente proseguivo nel massaggio, zia Maria mi guardò dritto negli occhi e mi disse: – E’ circa una settimana che ti vedo strano, esattamente dal giorno in cui sei stato a casa Bostini per far compagnia alla giovane figlia. Per caso ti hanno trattato male? – No zia. – Senti, so che alla tua età ci si sente un po’ incompresi e non si ha voglia di confidarsi con nessuno, ma sai che io farei qualsiasi cosa per aiutarti o quantomeno, essendo a conoscenza del problema, potrei consigliarti la strada migliore da seguire. Ero lì per lì per confessarle la causa del mio turbamento, ma poi fui preso da un senso d’inibizione tale che arrossii e preferii ritirarmi in camera mia. Col passare degli anni mi feci sempre più un bel fusto, tant’è che la maggiorparte delle ragazze del mio paese avevano un debole per il sottoscritto, ma, nonostante ero prossimo ai 18 anni, non avevo ancora avuto nessun approccio con l’altro sesso. I miei fratelli erano diventati degli studenti modello, mentre mia zia aveva stregato il vecchio possidente a tal punto che ormai guadagnava abbastanza senza dover fare più alcuno sforzo. Io, invece, ero diventato un esperto panettiere e il signor Gennaro era sempre più convinto che un giorno avrei rilevato la sua bottega. Silvia si era trasferita a Roma già da qualche anno ed io la vedevo sporadicamente solo quando tornava a casa per le festività. Il nostro rapporto non era cambiato: io l’amavo follemente e lei neanche si accorgeva della mia esistenza o almeno così mi pareva. Nevicava ed io ero intento a addobbare un alberello natalizio nella vetrinetta del negozio, divenuto col passare degli anni, grazie all’ottimo andamento delle vendite, uno dei più carini della cittadina, quando ad un tratto la vidi arrivare. Era passato quasi un anno dalla sua ultima visita ed io la trovavo ancora più bella di quanto già non lo fosse. Silvia aveva dei lunghi capelli bruni, due occhi azzurri come il cielo, un’altezza imperiosa, circa 175 cm., e due gambe lunghe e slanciate. Si fermò davanti alla vetrinetta e mi guardò come mai aveva fatto prima d’allora. Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata, mentre alcune goccioline di sudore rigavano la mia fronte. Entrò e subito i genitori le si catapultarono addosso, felici di rivederla. Si tolse i pesanti indumenti e rimase solo con un bellissimo vestito lungo color carne. Poi si voltò e mi fece un cenno di saluto con la testa a cui non risposi in quanto paralizzato da quella splendida visione. Si trattenne ancora un po’ nel negozio e dopo aver informato suo padre che sarebbe rimasta a casa per due settimane si ritirò con sua madre. La sera tornai a casa più allegro del solito e, subito, mia zia mi chiese il perché di tanta euforia. Sino allora non avevo mai confessato a nessuno il mio amore per la bella Silvia, ma quella sera era diverso, ne sentivo la necessità. Quando in casa ormai regnava il silenzio, mi levai dal letto e mi diressi in camera di mia zia. Aprii la porta e mi avvicinai al suo letto. Le toccai una spalla e lei ancora sul dormiveglia si destò. – Cosa c’è Roby, non stai bene? – No zia non preoccuparti. – Cosa c’è allora? – Zia, ho bisogno di parlarti. Cosicché sollevatasi un po’ più su, accese il piccolo lumicino sul comò, e si preparò ad ascoltarmi. Le dissi tutto per filo e per segno, raccontandole anche la mia prima e unica esperienza sessuale di quand’ero ragazzino, esperienza che aveva in qualche modo traumatizzato i miei rapporti con l’altro sesso. Lei mi ascoltò attentamente e quando ebbi finito mi disse di entrare nel suo letto. – Sai Roberto è giunta l’ora che tu diventa uomo. Il sesso non deve spaventarti, tutt’altro, deve renderti felice. Mi diede un bacio sulla fronte e poi uno sul naso e poi uno leggero sulle labbra. Si sfilò la sua lunga camicia da notte e si rimise sotto le coperte. Mi prese una mano e se la portò sulla guancia. La baciò, la fece scendere sul collo e la bloccò su uno dei suoi seni. Deglutì e poi mi baciò nuovamente sulle labbra. Questa volta il bacio fu più lungo ed ebbi un sussulto quando sentii la sua lingua farsi largo tra le mie labbra. Intanto, seguivo i movimenti rotatori della sua mano e ben presto provai enorme piacere a massaggiare quei grossi seni. Sentii il mio membro crescere a dismisura nei pantaloni del pigiama e doveva averlo sentito anche mia zia tant’è che mi invitò a denudarmi del tutto. Mi risistemai al suo fianco e lei mi abbracciò e baciò ed il contatto del mio glande col suo caldo ventre fu fatale e come alcuni anni prima raggiunsi precocemente l’orgasmo. Questa volta, però, fu diverso. – Non preoccuparti tesoro. E’ normale, vedrai che col tempo riuscirai a controllare le tue emozioni. – Non so zia, mi sento uno stupido. – Ehi, ma cosa dici. Hai fiducia in me? – Si. – Allora vedrai, farò di te un grande amatore. E così dicendo s’infilò totalmente sotto le coperte. Io proprio non riuscivo a comprendere il suo gesto, quando d’un tratto sentii la sua calda bocca inghiottire interamente il mio floscio attrezzo. Non pensavo si potesse provare una simile beatitudine ed in men che non si dica raggiunsi l’apice del piacere per una seconda volta. Mi diede il tempo di riprendermi, raccontandomi di come una donna ami essere toccata ed indicandomi i punti ed il modo di farlo; poi dopo essersi accorta del mio ritrovato vigore in un attimo mi fu sopra e cominciò a strusciarsi delicatamente sulla mia protuberanza. Sentivo nascere in me il desiderio di violare quella fessura nascosta dalla folta peluria nera, ma non dovevo aver fretta, dovevo fidarmi della mia maestra e mentre riflettevo su questa considerazione, con un lesto movimento se lo infilò interamente all’interno d’essa. Cominciò a dimenarsi su di esso, dapprima con lenti movimenti rotatori, e in seguito, man mano che l’eccitazione cresceva, sempre con più vigore sino a darmi l’impressione, non sbagliata, che mi stesse cavalcando. Grazie alla sua esperienza riuscimmo a prolungare l’atto per una mezz’ora abbondante, al termine della quale pretese che scaricassi tutto il mio seme nella sua invitante bocca. Quella notte fu molto lunga e soddisfacente ed ebbi modo di conoscere ed osservare il corpo di una donna dettagliatamente. Ripetemmo le lezioni per una settimana intera, durante la quale tutto mi fu concesso e al cui termine ero ormai un esperto amante. Questo è quanto accadeva di notte, mentre di giorno cercavo in tutti i modi di avvicinare sempre di più l’eroina del mio cuore. Nel corso di queste giornate mi resi conto che, nonostante si mantenesse sempre sulle sue, non era del tutto insensibile al mio fascino, anzi dalle occhiate furtive che mi lanciava, credevo proprio il contrario. Perciò, spesso e volentieri la si vedeva in giro per il negozio, cosa che riempì di gioia i suoi genitori sempre speranzosi che abbandonasse l’idea di diventare ballerina e si dedicasse alla conduzione dell’attività familiare. Una mattina, però, la moglie del più noto avvocato del paese venne a comperare pane e biscotti in compagnia del figlio ventunenne Arturo. In quel mentre Silvia entrò nel negozio e subito i suoi genitori si affrettarono nelle presentazioni. Arturo era un bel ragazzo longilineo, molto raffinato e soprattutto molto ricco. Notai con mia enorme rabbia che Silvia si atteggiò moltissimo in sua presenza e i due parvero entrare subito in sintonia. Io ero roso dalla gelosia ed il mio cuore batteva così forte che ebbi come l’impressione che potessero udirne i battiti persino gli ignari passanti per strada. Quando i due si congedarono, subito ci fu un tumulto generale: – Hai visto che bel ragazzo si è fatto il figlio dell’avvocato? – esclamò a pieni polmoni la signora Lucilla rivolgendosi a sua figlia. – Si proprio un bel giovine e con un futuro da procuratore. – continuò suo padre. Io assistevo passivamente a tutte queste smancerie, ma ahimè Silvia sembrava compiacersene e senza degnarmi di uno sguardo si ritirò sottobraccio assieme alla madre. Gennaro guardava le sue donne partire e sorrideva felice, poi voltandosi nella mia direzione e guardandomi in modo compassionevole mi disse: – Sai figliolo, il sogno di ogni genitore è di vedere i propri figli sistemati e … lui è sicuramente il miglior partito che si possa desiderare. Mi spiace. Tornò ai suoi doveri, mentre io rimasi di stucco nel comprendere che la mia infatuazione per Silvia non era passata del tutto inosservata. I giorni che seguirono furono per me un vero e proprio tormento. Arturo era ormai il mio incubo più ricorrente e vederlo al negozio più di una volta al giorno e soprattutto costatarne la felicità negli occhi della mia amata, era cosa che mi rattristava enormemente. La vigilia di Natale, poi, fu di una tristezza unica poiché non riuscii a vederla neppure di sfuggita. Sapevo soltanto che era stata invitata a cena nel palazzo dei genitori di Arturo. Mentre tornavo a casa, incontrai una delle famiglie più povere del paese a cui donai i denari, che avevo faticosamente risparmiato per regalare un paio di scarpette da ballo nuove a Silvia. Come al solito a mia zia non sfuggì nulla del mio stato d’animo, perciò da lei esortato fui costretto a confessarle tutto. Il mio dolore fu anche il suo, ma decidemmo di non rovinare la festa ai miei fratelli, perciò consumammo i succulenti piatti amabilmente preparati dalla nostra tutrice e ci dirigemmo in chiesa per la veglia notturna. Il giorno dopo andammo tutti assieme a far visita e ad augurare il buon natale al vecchio Corvaglia. Era la prima volta che entravo in quell’immenso palazzo e rimasi letteralmente affascinato dai decori di quella sublime dimora. Sorpreso da quella visita inaspettata e soprattutto dall’aver ricevuto l’unico regalo natalizio (una meravigliosa sciarpa confezionata da mia zia) da una modesta famiglia come la nostra, fece imbandire una gran tavolata piena di leccornie. Fu una giornata indimenticabile per tutti i presenti, tant’è che prima di tornarcene a casa il vecchio Emilio, questo era il suo nome, parve rattristarsi. La mattina dopo, appena svegli, ricevemmo la visita del suo maggiordomo che invitò cortesemente mia zia a seguirlo in quanto il Signor Corvaglia voleva parlarle al più presto. Mentre zia Maria era intenta a prepararsi noi tre seguivamo tutti i suoi movimenti e c’interrogavamo continuamente sul perché di quell’invito. Attendemmo con ansia per più di due ore il rientro di nostra zia e quando ella varcò la porta, tutti i nostri dubbi aumentarono notevolmente. Era rossa in viso e molto, ma molto entusiasmata. Ci aggrappammo alle sue vesti e la pregammo di raccontarci tutto: – Bene, non so come dirvelo, ma pare che tutti i nostri problemi siano finiti. – Dai zia raccontaci. – interruppe Matteo. – Si, si miei cari. E schiarendosi un po’ la voce continuò: – Il signor Emilio mi ha chiesto in sposa e vuole che noi tutti ci trasferiamo nella sua grande casa. Restammo tutti a bocca aperta e non proferimmo parola alcuna. Allorché mia zia riprese: – Bè, allora non mi dite nulla. – Sai zia, noi siamo consapevoli che ciò cambierebbe la nostra vita in meglio e che il signor Emilio è sicuramente una persona gentile, ma … – disse Luca – Ma? – Ma zia è troppo vecchio per te. – accentuai io. – Lo so ci sono quasi trent’anni di differenza tra noi, ma ciò non conta. – Ma tu lo ami? – riprese Luca. – Non credo di amarlo, ma potrei farlo col tempo. Lui è sempre così gentile e cortese con me. Mi lusinga e mi porta rispetto. Nessuno mai mi ha trattata con tanto tatto ed io provo profonda riconoscenza per quell’uomo. Ci guardò negli occhi uno per uno e attese impaziente un nostro cenno. Fu Luca il primo ad abbracciarla e a ruota io e Matteo. Il matrimonio fu celebrato alla presenza di pochi intimi e la luna di miele trascorsa, tutti insieme, in una villa al mare di sua proprietà. Il mio nuovo zio si dimostrò persona colta e disponibile a qualsiasi dialogo ed in più molto affettuoso e comprensivo. Non tornai più dai Bostini e di lì a poco venni a conoscenza del fatto che Silvia ed Arturo sarebbero convolati a nozze agli inizi dell’estate. Col passare del tempo, sotto la sapiente guida di zio Emilio, divenni un abile commerciante. Viaggiavo molto e piazzavo con ottimi guadagni tutti i prodotti che i numerosi possedimenti fruttavano. Luca e Matteo, invece, si trasferirono rispettivamente a Roma e Pisa; proseguirono gli studi in economia e medicina e alcuni anni dopo si laurearono entrambi brillantemente. Alla fine degli anni sessanta, durante uno dei miei numerosi viaggi, incontrai la signora Silvia Rinaldi. La rividi nella hall del Grand Hotel Mercury di Londra e, come tanti anni prima, ne rimasi affascinato. Sino allora avevo avuto numerose amanti, ma mai nessuna era riuscita ad entrarmi dritto nel cuore come aveva fatto questi. Grazie a qualche sterlina venni a sapere che la bella signora italiana aveva seguito il marito per un congresso ed era il più delle volte sola ed annoiata. L’occasione si presentò a cena, quando vedendola occupare in solitudine un tavolo in lontananza, la invitai con fare gentile ed elegante a condividere il pasto in virtù dei vecchi tempi ormai andati. Mi sorpresi nel costatare come il tempo e gli avvenimenti potevano mutare il carattere di una persona e quella che una volta era per me una persona inavvicinabile, era ora letteralmente ammaliata da ogni mia parola, da ogni mia frase sapientemente elaborata. Quando risalimmo per ritirarci nelle nostre stanze ero ormai consapevole che qualcosa in lei era scattato e nonostante le sue reticenze iniziali riuscii a baciarla con veemenza. Le sue gote si tinsero subito di un rossore pieno ed il suo respiro si fece più affannoso. Sentivo i suoi seni premere sul mio petto e di conseguenza il mio desiderio premere sui pantaloni. Le presi la mano e la tirai verso la mia stanza, cercò di divincolarsi, ma senza molta convinzione. Aprii la porta e come fummo dentro subito la richiusi e la baciai. Le tolsi le vesti con una rapidità e una forza tale che potei leggerle lo spavento negli occhi. Non si aspettava quella reazione, non si aspettava di trovarsi lì in una stanza d’hotel in procinto di tradire il marito a cui era stata tanti anni fedele, non si aspettava di sentirsi così tremendamente eccitata. Osservai attentamente quel corpo: aveva conservato il candore di un tempo, tutto il resto si era trasformato ed ora davanti a me avevo una delle donne più belle che avessi mai visto. La presi subito con forza, senza preliminari. I primi affondi le provocarono qualche fitta, i successivi i primi gemiti di godimento. Entravo ed uscivo da lei con sempre più impeto. Le maltrattavo i seni e le torcevo i capezzoli. La foga con cui arrivai finalmente all’orgasmo fu tale che non mi accorsi che, già da qualche minuto, Silvia stava piangendo. Mi sollevai, mi accesi una sigaretta e cominciai a vagare per la stanza, mentre lei ancora in lacrime giaceva sul letto. Il dolore e la rabbia celate per così tanto tempo erano saltate fuori con una potenza tale che anch’io ne ero rimasto sconvolto. Amavo ancora follemente quella donna ed ora avevo il cuore a pezzi per quello che le avevo fatto. Ritornai sul letto e l’abbracciai. Confessai il mio amore coltivato per tanto tempo e lei stringendomi ancor più forte mi ammise il suo: – Mi sei sempre piaciuto. Amavo tutto di te, ma ero una ragazzina viziata e molto ambiziosa. Mi ero sdoppiata, ero in continua lotta con me stessa. Il mio cuore voleva rifugiarsi tra le tue vigorose braccia e essere soffocato di baci, la ragione, invece, tremava al sol pensiero di quello che avrebbe potuto essere. Quando, poi, ho conosciuto Arturo ho pensato che quello era il momento giusto per sfuggirti e ingenuamente ho creduto che l’amore si potesse comprare. Perdonami Roberto, perdonami per tutto il male che ti ho fatto. Guardai i suoi meravigliosi occhi azzurri grondanti di lacrime e teneramente la baciai. Fu un bacio vero, un bacio passionale, un bacio dettato dai sentimenti ormai rivelati. Accarezzai tutto il suo corpo, baciai la sua intimità e succhiai il suo nettare. Entrai in lei e questa volta potei apprezzarne la sua elasticità, il suo calore. Ad ogni affondo mi guardava dritto negli occhi e ansimava e tenendomi strettamente i glutei, pareva volesse segregarmi per sempre in lei. Stava per raggiungere l’apice del piacere e mi pregò di raggiungerlo con lei, dentro di lei. Non credo di aver mai più provato quella sublime sensazione che la vita mi regalò nell’attimo in cui riversai tutto il mio seme nel suo caldo ventre. Tremammo come due foglie al vento e sorridemmo felici di quella gioia ricevuta possedendoci. Restammo uniti ancora un pò, poi dovette rivestirsi e tornare nella sua stanza perché di lì a poco Arturo sarebbe rientrato. Prima di congedarla, le chiesi quali erano le sue intenzioni adesso che il nostro amore si era riacceso. Mi rispose: – Non lo so Roberto. Ora sono confusa. Non ho mai provato nulla di simile a quello che ho provato in questa serata passata insieme. Sono felicissima di aver finalmente conosciuto la gioia e la meraviglia dell’amore e allo stesso tempo provo rimorso per ciò che ho fatto. Non riuscirò più guardarlo negli occhi. Mi sentirò sporca. – Vieni via con me. – No, non posso. – Se dici di amarmi veramente, allora abbandona tutto e vieni via con me. Io ti amo. – Non posso. Ed in lacrime correndo uscì dalla stanza. Alle sei del mattino, dopo una notte insonne, abbandonai l’hotel e mi diressi a Birmingham con la seria convinzione di dimenticarla al più presto. Qui intavolai una serie di trattative che in seguito mi portarono a sbarcare negli Stati Uniti, dove alcuni anni più tardi decisi di risiedere stabilmente. Nel decennio che seguì tornai in Italia solo in rare occasioni: nel ’74 per affari, nel ’76 per il matrimonio di Luca, nel ’79 per la morte del povero zio Emilio e nel ’82 per la festa nuziale di Matteo. In nessuna di queste occasioni però rividi Silvia. Seppi soltanto che ormai viveva a Roma e che aveva una figlia. Dopo i festeggiamenti per il matrimonio di Matteo, Luca mi propose di aggregarmi a lui e a sua moglie diretti in Spagna per assistere alla finale mondiale dei campionati di calcio Italia – Germania. Non mi feci scappare l’occasione e convinta anche zia Maria, che dopo la morte del marito si era lasciata sopraffare dalla tristezza, partimmo alla volta della penisola iberica. Lo stadio era strapieno e i colori azzurri ben si abbinavano alle sfumature del cielo. Fu una partita memorabile e dopo i festeggiamenti interni all’impianto, già pregustavo il seguito per le vie della città, quando, in lontananza, in mezzo a quella marea di gente la vidi. Sorrideva e teneva per mano una ragazzina di dodici-tredici anni. Nonostante fosse vicina ai quarantacinque anni era ad ogni modo una donna molto bella ed elegante. M’incantai a guardarla a tal punto che sembrava non ci fosse nessun altro a parte lei. D’un tratto smise di ridere e si fece più seria e girando leggermente il capo incontrò i miei occhi. Restammo così, immobili, persi nei nostri sguardi sino a quando non fu riportata alla realtà da suo marito che la invitò a partire. Mentre si incamminava verso l’uscita mi lanciò un’ultima occhiata colma di tristezza e poi si confuse tra la gente. Le voci, i colori, le ombre tornarono a farsi largo nella mia mente e quella che fino ad allora era una festa, diventò di colpo un infelice supplizio: il mio cuore era nuovamente in tumulto. Tornai negli Stati Uniti e durante tutto il viaggio non feci che pensare a lei. Ripresi la mia vita di sempre e col passare degli anni accumulai una fortuna principesca. Conducevo una vita agiata e disponevo di una miriade di donne tra le più belle di New York, ma … ma nonostante tutto mi mancava qualcosa, mi mancava l’amore. Cominciai pian piano ad isolarmi e a non vivere più con entusiasmo, quello stesso entusiasmo che aveva fatto sino ad allora la mia fortuna nel lavoro. Quando, poi, ero ormai giunto alla conclusione che il mio cuore non avrebbe più avuto i sussulti di un tempo, ecco che il destino ci mise lo zampino. Ero su uno dei tanti raccordi autostradali della città, quando ad un tratto scorsi accostata una vecchia auto rossa fumante. Notai una bella ragazza alta e castana imprecare e menar pugni sul cofano della stessa. Mi fermai, perciò, al bordo della strada e le chiesi cosa le fosse capitato. Mi spiegò con un accento marcatamente italiano che non ne aveva la più pallida idea. Mezzora più tardi eravamo seduti a divorare doppi cheesburger in un affollato Mc-Donald’s. Mi disse solo di chiamarsi Rebecca e di essere chiaramente italiana e nient’altro. Non voleva ricordare quasi nulla di ciò che la legava all’Italia e mi pregò di non farle mai domande in merito; io mi attenetti alle sue disposizioni. Era passato un mese da quell’incontro ed io mi sentivo felice come lo ero stato poche volte nella vita. Tra me e Rebecca c’erano trent’anni di differenza, ma nessuno dei due dava peso a ciò e poi l’esperienza di zia Maria e zio Emilio insegnava. Facevamo l’amore tutti i giorni e anche più volte nello stesso giorno. Girava per casa quasi sempre nuda e questo era un pretesto per prenderla in ogni situazione, in ogni momento. Mi raccontava le sue scarse esperienze sessuali ed io le raccontavo le mie e subito dopo metteva in pratica quanto ascoltato, più che altro per dimostrarmi di esserne capace, anzi d’essere migliore delle altre. Ricordo la prima volta che, in segno d’amore, volle offrirmi la sua seconda verginità. Quel giorno per timore di farle troppo male, unsi a lungo l’asta in tutta la sua lunghezza e mi adoperai per lubrificarle per benino il suo piccolo cerchietto scuro. Spinsi con delicatezza ed affondai con molta lentezza, ma nonostante tutto emise un urlo straziante e di colpo uscii da lei e mi catapultai ad abbracciarla e a consolarla. In seguito l’essere posseduta da dietro diventò uno dei suoi modi preferiti di fare l’amore. Amavo tutto di lei: il suo odore, la sua voce, i suoi capelli, i suoi seni, le sue labbra, i suoi occhi, il suo fisico così statuario. Alle volte mi dicevo che era troppo per me, ma subito dopo ribattevo che era il giusto compenso per quell’amore passato mai vissuto pienamente e così ricco di sofferenza. Trovavo alcune similitudini tra lei e Silvia e le associavo al fatto che erano le uniche due donne che avessi mai amato. Una sera nudi, davanti al tepore del caminetto, le carezzavo teneramente i seni, soffermandomi a pizzicarle leggermente i capezzoli sino a portarli ad irrigidirsi del tutto. Sentivo crescere in me il desiderio e volevo prepararla al piacere, ma lei bruscamente mi fermò. Era la prima volta che non voleva e ciò mi sorprese e spaventò al tempo stesso. Le chiesi cosa avesse e lei mi disse semplicemente che non aveva voglia di parlarne. Sapevo che quel giorno aveva chiamato in Italia e che quindi il suo malumore era legato a qualcosa che aveva a che fare con la sua famiglia, perciò non insistetti e tornammo in silenzio. Quando ero lì lì per assopirmi, Rebecca tutta d’un fiato mi disse che i suoi genitori avevano divorziato e che la settimana successiva la madre si sarebbe recata a farle visita. Le dissi che mi dispiaceva per la separazione. – Sai Roby, che mia madre abbia mollato quello stronzo di mio padre mi fa proprio piacere, anzi doveva farlo prima e se ci tieni a saperlo sono andata via di casa per colpa sua, per le sue stupide filosofie di vita e poi perché lui non è … – Non è cosa? – Niente, niente d’importante. – E allora qual è il problema? Lei non rispose ed in quel momento capii che il problema ero io. Deluso feci per alzarmi, ma lei mi bloccò e disse: – Roby, scusami. Non volevo ferirti. Io ti amo, ma sei di qualche anno più giovane di mia madre e non so come lei prenderebbe la nostra relazione. Lei crede che io viva in un appartamentino con altre mie tre coetanee. – Bé, se vuoi potremmo organizzare tutto a puntino. – In che senso? – Ti cercherò un appartamento e ti troverò tre studentesse pronte a confermare la tua convivenza con loro di fronte a tua madre. Non dovrai dirle assolutamente nulla di me e poi quando tornerà in Italia, tu riprenderai il tuo posto al mio fianco. Ti va l’idea? – Sei un genio, certo che mi va. Subito mi mise le braccia al collo e baciò ardentemente. Inutile dire che la notte la concludemmo davanti a quel caminetto. Era già trascorsa una settimana da quando la mamma di Rebecca era giunta a New York ed io, in questo lasso di tempo, ero riuscito ad incontrare la mia amata solo per poche ore. Una mattina ero in ufficio quando la mia segretaria mi annunciò che Rebecca era sulla linea preferenziale. Alzai di scatto la cornetta e potei così udire quella dolce voce: – Rebecca tesoro. – Oh, amore ho così tanta voglia di rivederti. – Quando possiamo farlo? – Hai degli impegni tra un’ora? – Per te sono sempre libero, lo sai. – Bene, allora ci incontriamo al nostro Caffè preferito. – Ma Rebecca, non potremmo incontrarci a casa? – No. – Perché? – Perché ho una sorpresa. – Di che sorpresa si tratta, dimmelo non tenermi sulle spine. – Tra un’ora al Caffè Italiano, non chiedermi altro. Ti amo. Dall’altra parte del cavo il nulla, segno che aveva già riattaccato. Chiamai la mia segretaria e disdissi tutti gli impegni della mattinata. Mi rinfrescai un attimo e subito in auto per raggiungere il posto stabilito. Entrai nel locale e salutai il personale che conoscevo ormai da qualche tempo. Chiesi se Rebecca fosse già arrivata, ma ricevetti risposta negativa e decisi comunque di accomodarmi nella saletta retrostante. I tavolini erano quasi tutti vuoti: una coppietta che si scambiava tenere effusioni, una vecchietta intenta a sorseggiare la sua tisana ed una signora che sedeva in fondo alla sala. Cercai il posto dove accomodarmi e solo in quel momento incrociai il suo sguardo e misi a fuoco il suo viso: Silvia!?! Una miriade di sensazioni invasero la mia mente, il mio corpo. Ebbi un attimo di smarrimento sul da farsi, mentre lei con gli occhi sbarrati continuava a fissarmi. Decisi di avvicinarmi. Le gambe mi tremavano e il cuore mi batteva forte. – Ciao Silvia. – Ciao Roberto. – Quanto tempo è passato. – Si, tanto. Vedo con piacere che comunque gli anni non ti hanno invecchiato. Questo era vero: avevo una forma invidiabile e i numerosi centri estetici frequentati avevano reso la mia pelle ancora più elastica. I due anni di differenza adesso parevano quasi dieci. Però, diavolo, era ancora una donna tremendamente affascinante. – Ti ringrazio. Penso che anche tu sia in forma e … sei ancora una donna bellissima. – Sei molto gentile. Dopo queste parole ci fu un breve periodo di silenzio durante il quale non smettevamo di guardarci dritto negli occhi. Si vedeva il fuoco dell’amore ardere ancora appassionatamente in ognuno di noi. Stavo per chiederle come mai si trovasse lì quando ad un tratto trasalì sentendo la voce di Rebecca. – Vedo che avete già familiarizzato voi due, ma come avete fatto a riconoscervi? A nessuno dei due ho descritto l’altro. Impallidii e mi sentii mancare. Guardai Silvia e mi accorsi che i suoi occhi erano pieni di paura. Rebecca si accorse del nostro cambiamento repentino e ci interrogò con sgomento. – Che cosa sta succedendo? Spiegatemi. Voi già vi conoscevate? Oh mio Dio, mamma ti prego dimmi che non è lui, te ne prego mamma. – Oh, figlia mia. – No mamma, non può essere. Non può essere lui. Guarda che ti sbagli, lui è l’uomo che amo. Non può essere lui, non può essere lui … mio padre! In quel preciso istante date ed avvenimenti si realizzarono nella mia testa. Non volevo crederci, ma dovevo arrendermi all’evidenza. Adesso che erano vicine notavo la loro somiglianza, adesso e solo adesso mi rendevo conto di aver amato il frutto più bello del mio amore con Silvia. Max!!
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