Aveva visto la luce, quando nella madre si era spenta. Poco prima di partorire mi aveva sussurrato: “Colei che in vita non hai amato, in morte adorerai”. E’ vero, non l’avevo amata in vita, o, più precisamente, non l’avevo amata negli ultimi anni della nostra decennale unione. L’avevo sposata, invece, perché ne ero stato perdutamente innamorato. Poi, per ragioni, tuttora inspiegabili, il mio amore, la mia passione scemarono, fino a svanire. Lei continuava a venerarmi, ma, più lei mi attestava la sua adorazione più io la detestavo. La mia ripulsa diventò mancanza di sopportazione. Non capisco, ancora oggi, perché non chiesi il divorzio. So che non riuscivo a separarmi da lei, pur invocando nella mia mente che lei scomparisse. Sì, mi augurai che morisse e un giorno mi accontentò. Lei non mi negò mai il talamo ed io ne approfittai per sottoporla a tutti i più sottili e forse disdicevoli piaceri sessuali, a cui lei non si sottraeva ma cedeva con appassionata rassegnazione. Tuttavia, da quelle mie voluttà erotiche scaturì il concepimento di mia figlia. Lei nacque ed emise il primo vagito nello stesso istante in cui mia moglie morì. Ero felice della nascita della bambina, immensamente felice, ma non mi addolorò più di tanto il fatto che la mia consorte avesse lasciato questo mondo. Io e la bambina crescemmo insieme. Per lei fui madre, padre, balia e pigmalione, e io la adorai come mai padre può fare con una figlia. Lei era il mio rifugio e il mio sospiro, il mio sogno e la mia realtà, la speranza e il paradiso. Che cosa mi spinse, quando mi fu chiesto il nome, di denunciarla con quello di mia moglie? Perché proferii il nome Eleonora all’impiegato dell’anagrafe? E lei della madre – tranne i capelli e gli occhi che questa aveva più neri delle ali del corvo, mentre mia figlia aveva i primi a boccoli, biondi, e i secondi, azzurri come i lapislazzuli -prese le fattezze, l’intelligenza e la cultura, fino, almeno ai miei occhi, ad apparirmi del tutto identica. Vivevamo in quasi totale solitudine e più il tempo passava e più in lei cominciava a trascolorare la fanciullezza nell’incipiente adolescenza, più il nostro rapporto si faceva più profondo e appassionato. “Amor mio”, “anima mia”, “luce dei miei occhi”, questi erano gli appellativi con cui la chiamavo: non osai mai invocarla col nome Eleonora. Intanto il suo corpo sbocciava nella sua abbagliante femminilità, vedevo lievitare il suo petto, fiorire di polvere d’oro il suo pube. Tutte le sere lei si abbandonava sul mio petto o sopra le mie cosce nell’alcova del divano color panna, al riverbero del camino crepitante. Tutte le sere lei spingeva le mie mani, in modo innocente, sopra il suo petto, tutte le sere le mie mani, mentre lei stava col capo reclinato sul bracciolo del divano e con le gambe distese a ridosso del mio inguine, scorrevano sulle sue cosce fino a lambire il suo sesso. Tutte le mattine, sul letto, appena svegli, lei incominciava i suoi giochi con me scoprendosi più o meno totalmente nella leggera camicia da notte, rivelandomi giorno dopo giorno il suo diventare donna. Fino a quando giunse il suo diciottesimo compleanno. Lei era nata nello smorire del giorno e nello smorire del giorno festeggiammo la sua nascita. Si era voluta vestire da donna. Un abito lungo di seta, che si apriva con un lungo spacco appena sotto alcuni centimetri dal fianco, profondamente scollato colore dell’argento che l’accarezzava come una marezzata di pioggia, faceva risaltare il suo corpo statuario di silfide. Ci mettemmo a danzare e io non potevo non scorgere i suoi capezzoli d’adolescente, appena coperti dal bordo del vestito, che pigiavano turgidi contro la stoffa, nè potevo impedire al mio sesso di lievitare, quando lei serrava il suo pube sul mio. Le sue guance erano pennellate di fuoco, i suoi occhi bruciavano dell’azzurro incendiato dal sole a mezzogiorno, e il mio cuore pulsava come le campane nel giorno di Pasqua. “Ti amo, papà”, mi disse mentre mi soffiava un bacio sulle labbra, “ti amo come nessuna donna potrà amarti mai”. “Cosa vuoi dire, amor mio?”. “Che sei la mia vita, il mio respiro, il mio principio e la mia fine, che non posso morire se non tra le tue braccia”. “Morire, figlia mia, come puoi pronunciare questa orrenda parola nelle primavera appena sbocciata della tua vita. Tu potrai solo vivere tra le mie braccia: sarò io a morire tra le tue e la mia anima volerà felice con il tuo viso impresso nel mio spirito e il tuo sorriso accarezzerà il mio ricordo”. “Vieni”, continuai, mentre la musica cessava le sue note. E, presa per la mano, ci sospingemmo fino alla grande porta finestra chiusa sulla veranda. La luna ormai biancheggiava nel suo massimo chiarore. “Guarda come irrora di luce le stelle che le fanno corona e accarezza sensuale il manto scuro del cielo. E’ la luna degli amanti, la luna che nasconde e trafuga i segreti delle loro alcove e dei loro sospiri e giuramenti. Si racconta che Semele, la luna, nel suo scorrere con il suo carro d’argento per il cielo, mentre con lo sguardo rovistava ogni anfratto più nascosto della terra, scorse, addormentato in una grotta del monte Latmos, un giovane bellissimo, principe della Caria, Endimione. Si fermò per attimi eterni nel cielo, abbacinata da tanta bellezza e, presa d’amore, ne accarezzò il volto con un raggio e ne baciò le labbra. Erano stati impalpabili la carezza e il bacio; eppure, Endimione si risvegliò”. Mia figlia mi rivolse uno sguardo intenso e, portatasi davanti a me, si abbandonò languida e molle con la schiena e la nuca sopra il mio petto e la mia spalla, mentre la parte destra del suo capo tempestata dall’oro dei suoi boccoli biondi ammaliava la mia gota sinistra. La cinsi con le braccia attorno alla vita e lei si rincantucciò di più su di me. Avvertii, istintivamente, il mio sesso che si scoteva dal suo relativo torpore nel sentire i suoi morbidi glutei gravargli contro. Era stata un frammento di tempo nel silenzio ovattato e traslucido del salone. Ripresi il mio racconto. “La Luna voleva che il bel principe diventasse subito il suo sposo e lo chiese a Zeus, il quale acconsentì a patto che il giovane principe scegliesse se rimanere mortale o cadere in un sonno eterno rimanendo sempre giovane. Selene avrebbe voluto amare il suo principe fino a quando fosse rimasto in vita. Endimione, però, desiderava che la luna restasse la sua innamorata per l’eternità. “Se invecchiassi”, obiettò alla Luna, “il tuo amore finirebbe prima. Io voglio, invece, che tu mi ami per l’eternità”. E, così, da allora Endimione dorme nel suo sonno senza fine, mentre la Luna, notte dopo notte, lo accarezza baciandolo con la sua luce appassionata”. Fremette tra le mie braccia mia figlia e io la serrai più forte. Ma lei, come se si fosse presa di freddo, raccolse le mie mani intrecciate sul suo ventre e, stringendole tra le sue, mentre le separava, le sospinse sopra i suoi seni, che si ritrovarono a raccoglierli increspate di tremore e di fiamme. Due sentimenti furenti cozzarono simultanei dentro di me: il desiderio struggente di stringerli e di accarezzarli e quello di lasciare che i miei palmi su cui stavano pigiate le sue mani languissero placidi sul quel turgido tepore. Ma il mio fallo agì per conto suo rizzandosi prepotentemente. E lei certamente non poté non avvertire quel turgido calore premere dietro il solco dei suoi glutei. La mia mente turbinava, non riusciva più a pensare. La figlia e la femmina si mescolavano insieme e il mio affetto si infrangeva contro i marosi del mio desiderio di maschio. Lei emise solo un sospiro, quasi un lamento e spinse ancora di più le mie mani sopra i suoi seni. Il mio sesso si gonfiava spasmodicamente. Mi ritrassi appena all’indietro, ma lei seguì il mio rinculo, per cui la punta del mio fallo svettante finì con l’infilarsi, dietro la stoffa dei miei calzoni e del suo abito che si avvallava, sgusciando, nella sua rigidità, sotto il perineo. Il calore della sua sessualità così vicina infiammò all’inverosimile il mio sesso ormai pronto ad esplodere il magma delle gonadi. No, non potevo: era mia figlia. Eppure il suo di dietro pareva lentamente, impercettibilmente ondeggiare sopra il mio fallo. Interruppi quella sorta di lussuria del tempo, stracciai con la mia voce quel silenzio infiammato dei sensi, almeno dei miei. “Che dici se andiamo a sdraiarci sul nostro divano, mentre ti racconto un’altra storia?”. Lei si riscosse, volse i suoi occhi di cielo nei miei intensamente e mi disse: “Come vuoi. Però sarò io a raccontartela”. E così, staccandosi da me, accese la lampada spiovente vicina al divano, poi si avviò verso una libreria del salone per ritornare dopo qualche minuto con un libro in mano. Era un libro di Bécquer, “Leggende”. Mi prese per la mano e, portatici presso il divano, ci accomodammo come al solito: lei dalla parte del bracciolo, a destra, ed io seduto accanto a lei. Abbandonata sullo schienale, cominciò a leggere un racconto, “Il principe dalle mani rosse” , il quale narrava le peripezie del principe Pulo e delle sua donna Siannah. Arrivata al canto terzo del racconto si sdraiò sopra di me, la testa appoggiata sul cuscino del bracciolo, le gambe vellutate e bellissime sgusciate totalmente sino al pube dal vestito aperto, la cui stoffa da sotto il suo sedere scivolava raccogliendosi sul tappeto cremisi, per terra. Lei leggeva , il suo respiro si faceva più ansante, la sua voce calda leggermente tremante. La mia mano sinistra stava abbandonata, negletta, sopra un suo ginocchio, la destra sopra la sua coscia sinistra. A un tratto si spinse più in giù col dorso fino a gravare con la radice delle sue cosce sulla mia di destra e nel contempo la sua mano destra prese la mia stringendola sopra il dorso delle mia dita e, sollevandola dalla sua coscia, la depose a gravare sopra il suo pube, mentre leggeva: “La vergine: ‘Il tuo respiro fuma e arroventa come il respiro di un vulcano;'”. E, io sentivo il mio respiro farsi affannoso e arroventato. “La tua mano, che cerca la mia, trema come la foglia sull’albero;”. E davvero la mia mano tremava come presa da un attacco di panico sotto la sua. “Il sangue m’affluisce al cuore, vi trabocca e accende le mie guance; un velo di ombra cade sulle mie palpebre; tutto si cancella e si confonde innanzi ai miei occhi, che altro non vedono se non il fuoco che arde nei tuoi”. La mia mano sinistra inconsapevolmente scorreva bruciante dal ginocchio su su fino all’attaccatura della coscia, mentre la destra, anch’essa inconsapevole, aveva raccolto a mo’ di clipeo il suo grembo e incominciava a stringerlo e a carezzarlo. E lei sempre più affannata continuava: “Principe, che spirito invisibile riempie l’anima di melodiosi accordi e mi fa tremare al suo contatto?”. E la sua mano ora agitava la mia sul suo pube, mentre la sentivo inarcare su di me tesa come la corda di un violino. Io mi ritrovai sgomento e delirante a un tempo con le dita che, pur se sopra il tulle dello slip, premevano sulle labbra fiammanti e ormai roride del suo sesso. E lei: “Il principe: ‘Vergine, è l’amore che passa”. “Oh, papà”, disse sollevandosi improvvisa e sedendo a cavalcioni sul mio grembo e intrecciando le braccia dietro il mio collo, serrandomi forte a sé. “Oh, papà mio, papà mio”, ed era quasi un singhiozzo il suo. E intanto il suo bacino meccanicamente si agitava sopra il mio sesso che era nuovamente inarcato al parossismo. Era il suo istinto di donna, non la consapevolezza della figlia. In qualche modo intuivo che lei voleva fare l’amore. Le mie membra erano ammollate, mentre lei faceva scorrere il suo pube sopra il mio sesso lentamente ma sempre più tenacemente. Mi sentivo ormai disarmato, il mio desiderio divenne più forte della mia ragione e dell’affetto di padre. Se avessi seguito il mio impulso primordiale, avrei scostato la piccola diga del suo slip, avrei liberato dalla prigione stritolante della stoffa il mio sesso e avrei lasciato che affondasse rutilante nelle sue grotte anelanti. Non lo feci, ebbi almeno la forza di resistere a questa bruciante tentazione, ma non riuscii a non abbandonarmi al cullare del suo sesso, finché la mia passione traboccò, pur se dentro i miei boxer. E anch’io, mentre sussultavo, finii con lo stringerla forte al mio petto. Era come se un tornado con la violenza del suo turbine mi avesse colpito. Di colpo mi sentii come l’ultimo degli uomini. Ma lei non si staccò da me, né dette a vedere di essere turbata. Rimase con il capo poggiato sulla mia spalla per alcuni minuti, mentre il silenzio per me si faceva assordante, che si infranse solo con il rumore leggero del suo bacio, soave e caldo sopra le mie labbra. Si sollevò mollemente dalle mie gambe, scese per terra, si chinò per raccogliere sul tappeto il libro scompostamente rovesciato di Bécquer e s’involò, riposto il libro al proprio posto, verso il bagno: “Faccio la doccia”, mi informò, “vuoi farla insieme a me?”. “Più tardi”, balbettai, restando stupidito sullo schienale del divano. Le scene di prima sfilarono nel palcoscenico della mia mente e mi vidi mentre bruciavo dal desiderio di penetrare il grembo verginale di mia figlia. Mi sentii avvampare di vergogna, ma nel contempo una irrequietezza languida mi faceva vibrare dappertutto nel corpo. Quante volte avevo fatto il bagno insieme a lei; di più: ogni giorno la vedevo nuda o quasi. Il mio sguardo era sempre stato d’orgoglio e d’ammirazione. Ne avevo sempre accarezzato le forme, ma come si può fare con il marmo levigato delle statue di Canova. Purissimo piacere estetico e, nel mio caso, paterno. Ma quella sera, anzi ormai notte, no. Era stata una frenesia, una febbre dei sensi, di maschio che vuole la femmina. Avevo dovuto fare ricorso al mio sentimento di padre per non entrare in lei. Lei. Ma lei non si era accesa pure di passione tutt’altro che filiale? Forse, per lei era stato un gioco o una innocente intemperanza degli ormoni dell’adolescente in cui lievitava prepotentemente il corpo di donna. Dio, com’era bella, com’era pieno, pur nella sua acerbità, il suo seno, com’era caldo e bagnato il suo grembo. Mi rividi mentre affondavo le mie dita tra quelle labbra tumide roride del suo miele e il mio sesso ricominciò ad inturgidirsi. No, non era possibile. Dovevo stornare questi pensieri per nulla casti sopra la mia bambina. Bambina! Non era più una bambina. No, non poteva più dormire con me. Ero suo padre, certo, ma ero anche un maschio e la sua femminilità acerba, ma per questo più adescatrice, poteva trascinarmi là dove con la mia logica e con l’affetto di padre non volevo nemmeno immaginare. Eppure, il desiderio era lì, acquattato come un cobra, pronto a schizzare il suo veleno. Nel frattempo mi ero avvicinato al bagno. Sentivo lo scroscio dell’acqua e la sua voce melodica che canticchiava. Lo scroscio si fermò e qualche minuto dopo lei uscì intabarrata nell’accappatoio. “T’aspetto sopra”, mi disse, mentre, passandomi rapidamente vicino, sfiorava la mia guancia con un bacio. Entrai in bagno, mi misi sotto la doccia del tutto frastornato, mi asciugai e salii in camera. Il mio cuore pulsava all’impazzata mentre mi avvicinavo all’uscio.Rimasi abbagliato. Era totalmente nuda davanti allo specchio dell’antico cassettone che spazzolava i capelli. Le luci del lampadario, tutte accese, facevano rilucere l’oro dei suoi boccoli e la sua carne d’avorio appena rosato d’un fulgore celestiale. Rimasi estatico a contemplarla. La sua schiena diritta e vellutata, i suoi fianchi flessuosi come il giunco, i suoi glutei alti e levigati che non si arricciavano nemmeno nella più labile ruga nel declinare verso le cosce. Era un sogno abbacinante che ammaliava gli occhi e l’anima. Si accorse che ero dietro di lei, si girò, mi sorrise, si avviò verso l’armadio, ne aprì le ante, tirò fuori una vestaglia traforata, quasi impalpabile tutta frastagliata di pizzo e si infilò dentro. La trasparenza della seta rendeva quel corpo mirabile palpitante di sensualità. S’accostò al letto, ne scostò le coltri e si accomodò distendendosi come un raggio di luna, che raggiava però come quello del sole. “Allora, non vieni a letto?”. Poggiai l’accappatoio su una sedia e nudo, come facevo da sempre, mi sistemai sotto il lenzuolo. Mi si accostò subito. Il calore del suo corpo trafiggeva tutto il lato sinistro del mio che le era accanto. “Allora ti sono piaciuta con questa vestaglia? Non potevo non indossarla la notte del mio compleanno. Ormai sono una donna. La tua piccola donna. Perché io sono e sarò sempre la tua piccola donna, vero?” E il suo corpo si accovacciò su di me. Non riuscivo a parlare. Avevo paura di guardarla, di guardare dentro di me. “Sì, bambina mia”, farfugliai, “Sarai sempre – come fai a metterlo anche flebilmente in dubbio? – la mia piccola donna, la mia bambina adorata. Ma ora dormiamo: è stata una serata davvero…insolita”. Allungai la mano verso l’interruttore vicino alla testiera del letto e spensi le luci del lampadario. Lei si strinse di più a me, la sua fronte contro la mia spalla, le sue mammelle a pigiare uno sull’omero e l’altro sul mio petto, una sua gamba piegata ad angolo ottuso sopra la mia coscia. Qualche minuto dopo dormiva. Io, però non riuscivo a prendere sonno. Ogni attimo del pomeriggio e della serata mi dardeggiava la mente e il calore e la morbidezza sensuale di quel corpo che mi trafiggeva le carni al mio fianco me li rendeva più fiammanti ed erotici. Il mio membro seguiva i turbamenti del mio pensiero impennandosi come un cavallo imbizzarrito. Smaniavo e mi sentivo impotente nel padroneggiare quella tempesta dei sensi. Ecco che, di colpo, sentii la mano di lei rovesciarsi sul mio sesso e, negligentemente, con le dita armeggiare sul vello del mio pube per, con uno scatto nervoso, chiudersi sul mio fallo, tenendolo ben stretto. Un fuoco violento arroventò le mie pelvi, sciamando come lava sul mio ventre e verso il petto. I suoi seni che vi premevano contro scottarono di febbre e i capezzoli parvero scavare pozzi di lava. Era l’inferno. Non riuscivo a tollerare quel rutilante femminile peso gravare su di me, la sua piccola mano inanellare il mio sesso. Via da me, via, il più presto possibile togliermela di dosso. Allontanandola, credevo che quell’inquietudine febbricitante che mi agitava si sarebbe quietata. La chiamai dolcemente, ma con voce ferma, mormorò qualcosa e, intanto, con la mano, rimuovevo quelle chele di fiamma dal mio pene. Infine, delicatamente la scostai del tutto da me, spingendola per la spalla destra fino a farla distendere supina. Biascicò sotto quella spinta ancora qualche parola incomprensibile, masticò deliziosamente con la bocca, poi il suo respiro riprese il tono iniziale. Io, sempre supino, invece di girarmi sul un fianco, rimanevo a fissare l’oscurità della stanza. In quell’oscurità, però, mi si spalancò improvvisa l’immagine di lei, quando eravamo dietro i vetri della veranda, con le mie mani costrette da lei a colmarsi dei suoi seni. I sui seni. Accarezzarli, sentire scorrere sotto la pelle delle mani il morbido turgore dei capezzoli, il velluto eburneo del petto e poi ancora scivolare più in giù lungo la levigatezza del ventre e, quindi, bearsi del piccolo cespuglio dorato, inebriarsi del tepore afrodisiaco del suo grembo. Mi girai su un fianco verso di lei e la mia mano vogliosa, stracciando ogni lembo della mia volontà, andò a cercare il suo seno. Sgusciò sotto la vestaglia e lo raccolse. Milioni di aghi di fuoco la trafissero mentre lo accarezzava e il cuore mi si schiantò nel petto, quando avvertì sotto il palmo il piccolo capezzolo inturgidirsi. Cercai l’altro seno, lo vellicai, ne raccolsi il capezzolo tra l’indice e il pollice fino a stordirmi di sensazioni. Infine, cercai il suo grembo e lo trovai nella sofficità del suo vello, nel turgore infiammato delle labbra. Ne saggiai le rotondità e lasciai che il dorso delle mie dita scorresse su di esse. La febbre mi divorava il cervello, le tempie mi pulsavano impazzite. Sospinsi tra quella ruga di carne la punta di un dito. Era calda e umida la sua fica e la mia falange sgusciò dentro leggera. Cominciai un lento via vai, poi, non pago, inserii anche la punta del medio continuando in leggero crescendo il via vai di prima. Col pollice cercavo di strusciare il clitoride. Un lamento colse il mio orecchio a ridosso del suo viso, mentre sotto il mio braccio sentii le sue gambe allargarsi. Oh, come avrei voluto baciare quel grembo che si riempiva di rugiada mielata. Chissà se stava facendo un sogno erotico. Non mi passava per la mente che potesse destarsi e sorprendermi a trafugare in modo così vile la sua intimità. No, ero assorbito soltanto dalla valanga delle mie fiammanti sensazioni. E, intanto, imperterrito continuavo a pistonare con le dita l’ingresso della sua vagina. Il mio sesso implorava quel grembo inarcandosi al parossismo. Come avrei voluto ora che la sua mano lo stringesse come prima! Come fulminato da quell’idea, lasciai il suo sesso e la ripresi per la stessa spalla di prima, per rigirarla verso di me. E lei, quasi avesse consciamente raccolto il mio desiderio, accompagnò quella mia lieve spinta rotolandomi addosso. Mi tirai su verso la testata del letto, fino a che, ormai reclinato, il mio bacino arrivò all’altezza della sua mano, che, prontamente raccolsi e la lasciai gravare sul mio membro. Era come se il fuoco dell’inferno lo avesse investito, avvampandolo. La sua mano si strinse su di esso come se fosse stato un sostegno. Su di essa la mia che la spinse in su e in giù lentamente e poi leggermente accelerando. Sentii che stavo esplodendo. Mi sottrassi di colpo e la calda marea si riversò sulla sponda del letto. Ma non ero ancora pago. Pulii alla meno peggio il mio pene e mi incollai nuovamente contro il suo ventre, spingendomi, forzandolo, contro il suo fianco. Ma lei, ancora una volta, era come se avesse letto la mia intenzione. Scivolò di traverso su di me, permettendo alla mia gamba destra di infilarsi sotto la sua, finché il suo pube gravò sopra il mio. Ormai non capivo più nulla. Volevo solo godere e farla godere, pure se era nel sonno. Accompagnai con la mano il mio membro nuovamente inalberato contro la sua fessurina, che lasciò, rorida com’era, agilmente scivolare dentro il mio glande, solo il mio glande e sospingendolo tra le dita lasciai che andasse su e giù. Sentii mia figlia sospirare e ancora sospirare come in un lamento, mentre si stringeva vieppiù a me con il viso ormai totalmente affondato in mezzo al mio petto, ma era sempre addormentata. Continuai ormai demente, tenendolo sempre con la mano, a fare scorrere nel suo saliscendi il mio membro fino a lambire il suo imene, e nuovamente la spuma d’argento incominciò a risalire su dalle gonadi sempre più prepotente. Dovevo ritrarmi subito, lesto, ma lei era ormai quasi per intera coricata sopra di me e, ritratta la mano, il mio sesso si trovò imprigionato sotto il suo grembo, racchiuso nell’incavo del suo perineo. Potevo ancora sgusciare, ma non so quale demone dell’inferno mi costrinse a lasciarlo così voluttuosamente imprigionato. Lo lasciai stretto tra quella piega calda e bramosa, ritrovandomi a rovesciare a ridosso dei suoi glutei il nastro argenteo dei miei precordi. Dopo l’empito devastante del piacere, fu il panico. Pulirla, subito ripulirla. Come fare senza che non si svegliasse. Possibile che con tutto quell’affaccendarmi non si fosse neppure per un momento destata? E’ vero che il primo sonno era pesante. Ma forse era stato l’effetto del calice di spumante che l’aveva fatta sprofondare di più nel sonno. Speravo con tutta l’anima che non si svegliasse. Mi scostai delicatamente da lei, poi mi alzai, accesi la luce della lampada del comodino, presi dei fazzolettini di carta da dentro il cassetto, passai dal suo lato, sollevai la coperta e il lenzuolo. Lei era rimasta a pancia in giù, le gambe appena dischiuse, di cui una disposta a gomito. Delicatamente ripulii la parte interna delle sue cosce e il lembo di lenzuolo sottostante. Poi, sistemate le coperte, rincuorato che non si era svegliata, mi ricoricai. Spensi la luce. Lei mugolò qualcosa, si restrinse un’altra volta su di me e io, ricolmo del tepore del suo seno e del cespuglio del suo grembo che si confondeva con una parte del mio, riuscii finalmente a trovare il sonno. Un sonno inquieto, però, inseguito dalle immagini di mia figlia che, in una sequenza finale, la trovai a rincorrermi lungo un’altura costituita da enormi cubi di diaspro, che ad un certo momento si allargarono in un tratto piano. Lei si fermò, mi si parò nuda davanti ed io desideravo fare l’amore con lei. Si adagiò su quelle rocce levigate ostentando il suo sesso. Mi accostai per farla mia, ma il mio membro andò invece a penetrare la vagina di una cavallina distesa per terra sul fianco. Lei mi guardava stupita e delusa, mentre continuavo a muovermi dentro la carne dell’animale. Non provavo alcun piacere e non capivo perché perpetrassi quella grottesca azione. Lei, infine, fuggiva, volevo afferrarla, ma si faceva sempre lontana fino a sparire e io, intanto, angosciato, non riuscivo a staccare il mio sesso dalla cavallina che sembrava invece godere. Mi risvegliai – ormai era giorno e dalle fessure della persiana la luce schiariva le ombre scure della stanza – e scoprii che mia figlia dormiva tutta raccolta sopra di me, la testa ed un braccio di traverso sopra il mio petto, mentre con la mano sinistra serrava strettamente il mio pene più turgido che mai. Passato qualche istante di piacevole stupore, decisi di allontanare quella mano. Non potevo sciogliermi di nuovo. Tentai delicatamente di staccarmi, ma lei si agitò mugolando e, come se si trastullasse con un oggetto, cominciò a strattonare il mio sesso. Le afferrai la mano deciso a rimuoverla, provocando così un saliscendi di essa. Non volevo, non volevo assolutamente eiaculare. Mi sospesi sulle mani per tentare di sedermi sul letto, costringendola così a mollare la presa, ma lei finì invece di sistemarsi, scivolando dal mio petto, sopra il mio grembo, con la bocca a ridosso della sua mano che continuava tenace ad impugnare il mio pene. Mi sentii soffocare. Il suo respiro divenne un vento infuocato che investì tutto il mio grembo. Ero ormai folle di desiderio. Le presi la mano e la indirizzai insieme al mio sesso teso allo spasimo verso le sue labbra, su cui l’appoggiarono e premettero e, d’incanto, quelle si schiusero e accolsero la punta del mio glande avvolgendolo e cominciandolo a succhiare come fa un bimbo col dito mentre dorme. Mi sentii morire d’un piacere mai provato nella mia vita e lasciai, del resto ormai impotente, che la schiuma della mia passione dilagasse dentro quelle labbra ad infrangersi contro i denti. Solo allora mi riscossi dalla febbre delirante delle mie pulsioni più primitive e scorsi il mio seme colare lungo un angolo delle sue labbra sopra il mio grembo. Tirai spaventato subito un lembo del lenzuolo e cominciai, per quanto era possibile, a ripulirle il viso e il mio ventre dalla mia improvvida passione. Mia figlia masticò nel sonno con le labbra, emise un lungo, languido sospiro, si scostò dal mio grembo e, giratasi sul fianco sinistro, si acciambellò, ormai seminuda, la vestaglia quasi tutta raccolta sotto il fianco, a mostrami la sua schiena e suoi glutei marmorei e oltremodo seducenti. Non potevo più restare a letto. Così mi alzai e, lanciato ancora uno sguardo a mia figlia, abbandonai la mia camera per scendere in cucina a prepararmi un caffè il più forte possibile, con le lagrime che rigavano copiose le mie guance. Piangevo più che di vergogna di disperazione, perché mi rendevo conto che quella notte non era stata una accidentale sarabanda di follia – era da diciotto anni che dormivamo insieme padre e figlia, ma mai le sue forme femminili avevano mobilitato i miei sensi. – Certo, mi ero ritrovato a carezzare i suoi seni o il suo grembo, lei stessa ostentava il lievitare della sua femminilità compiaciuta ed orgogliosa davanti ai miei occhi, invitandomi a saggiarne gli incipienti turgori, ma mai le mie mani si erano soffermate vogliose, né il mio sesso aveva seguito pulsioni libidiche. Quel che era accaduto non era un desiderio perverso, ma era amore, amore di un uomo per una donna, pur se adolescente. Solo che quella donna era mia figlia. E anche se ero cresciuto scevro di pregiudizi, e così avevo educato mia figlia, quel sentimento non si scontrava con un pregiudizio, ma con un tabù, il più universale dei tabù, l’incesto, che non potevo e non volevo infrangere. Dovevo spezzare la mia forzata castità con una donna, con una donna che non fosse mia figlia. Dovevo uscire da quella solitudine di chiostro in cui mi ero rinchiuso con la mia bambina ed aprirmi al mondo e ad altre donne. II Si erano fatte le 7,30. Era l’ora di svegliare mia figlia. Le avevo preparato il latte con i biscotti e così salii a chiamarla. Come al solito non si decideva ad alzarsi. Era uno spettacolo dell’anima guardarla mentre si stiracchiava, si strofinava gli occhi, si girava ora da un lato ora dall’altro sul letto come se volesse riaddormentarsi, boccheggiava e sbadigliava a mezzo il letto, finalmente, indolente, finiva per alzarsi, trascinandosi sulle ciabatte sempre seminuda. Solo che quella era una mattina diversa per me. Non andavo a svegliare la figlia, ma la donna che per una notte intera avevo sottoposto alla furia delle mie impudiche passioni. Lei si esibì nella usuale pantomima. Si tolse tranquillamente la vestaglia e, poi, stiracchiandosi mi venne incontro e, allacciandomi il collo con le braccia, si strinse a me sospirando: “Perché a scuola bisogna andare così presto?”. Poi, con tono di rimprovero: “Le mie compagne il giorno dopo il compleanno rimangono a casa. Perché non mi fai rimanere pure tu?”. E, intanto, i suoi seni, che si ergevano come due cupole turrite, calamitavano i miei occhi. “Non ti puoi prendere una giornata anche tu e ce ne andiamo in giro, magari in montagna a fare una scampagnata”. “A novembre”, borbottai io. “E, allora, la trascorriamo, qui, a casa. Io ti faccio tutte le coccole che vuoi, giochiamo, ti faccio penare a scovarmi nei miei nascondigli. Ascoltiamo un po’ di musica. Insomma: una giornata di ozio. Non ti seduce l’idea?”. Sì l’idea seduceva la parte più intemperante di me, ma l’altra più casta non voleva lasciarsi incantare. Lei s’avvide della mia esitazione: “Su, papà”, e si strinse, acquattata, tutta addosso a me. I suoi seni mi arroventarono come sfere di fuoco il petto e il suo pube con la sua calda pressione istigava il mio sesso. “Ti prego, ti prego, ti prego”, ruzzolò d’un fiato la sua supplica. “Non mi perdo niente a scuola per un giorno. Sai che ho una cultura ragguardevole. Non lavorare nemmeno tu, oggi. Niente libri, nemmeno quelli che piacciono a me. Voglio solo stare una giornata con te a averti tutto mio per un giorno intero”. Perché, perché acconsentii? Quale diabolica entità si era introdotta nella mia mente spingendomi a dire di sì? Né immaginavo che in quel giorno si sarebbe racchiusa tutta la nostra vita. Lei esplose di gioia. Mi tempestò di baci, sugli occhi, sulla faccia, sulla bocca, per poi correre subito a vestirsi. Io la guardavo sconfitto. Le mie lagrime, i miei propositi erano stati inghiottiti, dissolti da quell’esplosione di giovinezza primaverile, da quel corpo di ninfa dei boschi evanescente e sensuale come una driade o come le eteree fanciulle di Hamilton.Consumata la colazione in tutta fretta, eccitata dall’essere rimasta a casa, mi prese per la mano per trascinarmi fuori a girovagare per il nostro parco. “Che bello tenerti per mano e passeggiare con te!” “Vedremo se dirai la stessa cosa tra qualche anno. Ho raggiunto la soglia dei cinquant’anni e mi sto avviando lungo il viale del tramonto. Mi sostituirai con un bel ragazzo. L’importante è che non ti leghi definitivamente con il primo amore, ma che tu faccia le tue esperienze. Il che non significa andare a letto con chiunque, ma fare delle belle amicizie sentimentali, che ti permettano di conoscere in tutti gli aspetti più importanti gli uomini, perché poi, più matura, possa tu fare la tua scelta con amore certo, ma con discernimento”. “Credo che dovrai aspettare parecchio. I ragazzi mi piacciono, ma sono banali e infantili e ignoranti. E poi, quale viale del tramonto. I capelli brizzolati rendono più affascinate gli uomini. Poi, tu se l’uomo più fico che conosca. Fascino come uomo, fascino della cultura. A parte che i tuoi libri sulla storia romana, sono diventati testi di studio a livello internazionale, non c’è campo dello scibile in cui non sei in grado di intervenire. Sei un vero emulo di Mazzarino. E sai porgere le cose in un linguaggio semplice e coinvolgente. I tuoi allievi, anzi, le tue allieve universitarie sono stregate da te quando spieghi. Ammetto di esserne terribilmente gelosa. Sto sempre col timore di vederti un giorno con una di esse per annunciarla come tua prossima compagna”. Sentii la sua voce tremare insieme alla sua mano che stringeva teneramente la mia e un velo di apprensione rese serio il suo viso. “Eleonora, figlia mia adorata, non ho nessuna intenzione di ammogliarmi. Certo, come per te i ragazzi, non posso certo dire che le donne belle e intelligenti mi siano indifferenti. Ma da qui a risposarmi ne corre. Puoi stare tranquilla: non mi vedrai invecchiare con una giovane donna”. “Perché non dovresti farlo: sei affascinante, bello e pieno di vita, il maschio che ogni donna degna di questo nome vorrebbe accanto. E se una di queste tentasse di sedurti, tu cederesti. Sei un uomo passionale, papà, molto passionale, e io ti somiglio in toto”. Smise il suo volto serio e, con le labbra increspate da un sorriso, continuò: “Io non ti lascerò sedurre da nessuna ventenne, ci puoi scommettere. Sarò più attenta di Argo”. “Ma un uomo non può rimanere in perpetua castità, non credi? Qualche storia sentimentale non me la concederesti?”. Si fermò di colpo, fissandomi con sguardo indagatore, intensamente negli occhi: “Hai avuto delle storie dopo la morte di mamma? Quando, con chi e dove? E io non me ne sarei accorta, anzi, tu me lo avresti nascosto? Non ci diciamo tutto sempre noi, non ci raccontiamo anche i più segreti turbamenti? Non ti ho forse costretto fino a sei anni fa di aiutarmi a farmi il bagno perché lo scorrere delle tue mani sul mio corpo mi arrecava sensazioni piacevoli. Tu non hai voluto più aiutarmi, perché, nonostante le mie proteste, hai detto che ti turbavi forse nel tuo inconscio. Ma cosa c’era da turbarsi, se sono tua figlia e mi hai visto nuda da quando sono nata? Non è forse naturale lo stesso turbamento? Mi sarei meravigliata del contrario, anzi offesa, se fossi rimasto indifferente alla mia incipiente femminilità”.”Eleonora, ti rendi conto di quel che dici? Io non devo sentirmi turbato della tua femminilità, ma orgoglioso, affascinato, perdutamente innamorato – ché io sono perdutamente innamorato di te, – ma mai dimenticando che sei mia figlia”. “Ma in virtù di quale logica una figlia non può amare il proprio padre?”. “Perché l’incesto è un tabù ancestrale”. “Incesto, ovvero non casto. Ma quale rapporto d’amore è casto? Forse, quello che monache e preti intrecciano con Dio, non certo degli uomini”. “Eleonora, tu hai vissuto sempre alla mia ombra, i tuoi ormoni sono in ebollizione e riversi su di me le intemperanze della tua adolescenza. Non c’è bisogno di ricorrere a Freud per questo. Anch’io alla tua età mi ero innamorato di mia cugina, ma poi sposai un’altra donna”. “Tua cugina? Non ti ha voluto lei? O è stata solo una cotta?”. “E’ stata più di una cotta: un vero innamoramento. Avevo quattordici anni, quando si trasferì a casa nostra. Mia zia era morta di cancro e mio zio non poteva tenerla con sé, dato che girovagava per il mondo con la sua professione di pilota. La verità era che era lei a non volere stare con il padre. Lo rendeva responsabile della morte della madre, per i continui tradimenti perpetrati, anche se lui aveva sempre pervicacemente negato. Il fatto era che mia cugina non gli perdonava di avere tradito lei. Una ragazza che ama il padre e ne è riamata accetta che vada a letto con la madre perché, per sublimare il suo complesso edipico, è costretta a identificarsi con lei. Insomma, si dice, certo inconsciamente: papà non viene a letto con me, ma è come se lo facesse, perché io sono come la mamma. Così sublima e supera il suo stato di fissazione edipica. Ma, se papà va con altre donne, è lei che si sente tradita. La moglie forse perdona, ma la figlia no, anche se si trincera dietro la sofferenza della mamma. Per concludere, a ventott’anni rimase con noi per quattro anni, fino a quando si sposò. Per me era la donna più bella e sensuale che avessi mai conosciuto. Ricordo che di notte sgusciavo silenzioso nella sua camera e rimanevo silenzioso a contemplarla a volte pure per un’ora”. “E non temevi che ti potesse sorprendere, svegliandosi per un motivo qualsiasi?”. “Oh no. Ero così preso dalla mia passione, che non avevo paura di nulla. Avrei accampato una scusa qualsiasi. E poi stavo attento al suo respiro. Eleonora, credimi, era superbamente bella”. “Ma… si scopriva mentre dormiva, oppure tu hai tentato di scoprirla?”. Mi sentii tremare. Che, forse, lei si era accorta di tutti gli espedienti che avevo architettato la notte? Il cuore mi sprofondò verso lo stomaco. “Tu lo riterresti riprovevole?”. “Figurati: un ragazzo di quattordici anni, con gli ormoni in ebollizione, come lo addebiti a me, è più che naturale che vuole scoprire come è fatta una donna. Io, al posto tuo, avrei tentato di sedurla. Ad una donna adulta piace essere desiderata da un ragazzo ancora inesperto, piace iniziarlo al gioco dell’amore. Mi meraviglio che tu non ci abbia provato, almeno a scoprirla discretamente per vederla nuda, magari delicatamente accarezzarla. Fossi stata te, l’avrei fatto”. “Sei incorreggibile! Hai ragione: e io lo feci. Anzi, la mia temerarietà arrivò al punto che non solo la denudavo, ma la accarezzavo, la baciavo, certo delicatamente, dappertutto”. “Nel suo sesso?”. “Eleonora!!!”. “Papà, non sono più una bambina. Le mie compagne, in buona parte, hanno esplorato, e tante collaudato, il sesso maschile. La più scema sono io e poche altre. Allora hai toccato pure lì. Su, dimmelo, dimmelo”. Ero turbato, tuttavia risposi: “Sì, toccai il suo sesso, lo accarezzai. Mi sentii svenire per le sensazioni. Fui così incosciente che arrivai a baciarlo”. Ma poi desistetti. Ero troppo eccitato e avevo paura che non riuscissi a controllare le mie emozioni: volevo fare l’amore con lei. I miei genitori mi avrebbero ucciso. Approfittare di mia cugina nel sonno. Mi avrebbero considerato alla stregua di Macbeth”. “E finì così? Non è possibile. Sei troppo passionale, per esserti arreso. Su, dimmi la verità. E’ stato con lei la prima volta?”. “Ma sai che questa storia non l’ho raccontata a nessuno. Perché a te non riesco a nascondere nulla? E riesci a strapparmi segreti ed emozioni che non rivelerei neanche ad un sacerdote in confessione?”. “Perché sono tua figlia, la tua confidente e te stesso in versione femminile. E quando parli con me e come se parlassi con te stesso. E poi sono anche una donna, che può capire i desideri che può provare un adolescente di fronte a lei nel rigoglio della sua femminilità. Allora: hai fatto l’amore con lei?”. “Sì, l’ho fatto. L’anno successivo. Facevo di tutto per starle addosso, anche perché capivo che a lei non dispiaceva, anzi mi incentivava. Tra le tante, ricordo una serata. Ero nella mia camera e stavo ascoltando della musica. Lei entrò, mi si sedette accanto ad ascoltare insieme a me. Ad un tratto mi chiese se sapevo ballare. Risposi che cincischiavo dei passi. “Io ballo benissimo. Alzati che ti insegno”. Cercò tra le cassette e mise delle canzoni per un lento. Mi sistemò le braccia intorno ai suoi fianchi e io finii con l’allacciarmi a lei come un rampicante. Sentivo il suo sesso incastonarsi sul mio e fu la prima volta che godetti come se avessi fatto l’amore. Lei lasciò che mi stringessi a sé in quel momento, poi mi regalò un bacio leggero sulle labbra e se ne andò. I momenti così, sai, furono parecchi. Ricordo ancora un pomeriggio ci mettemmo a giocare a mosca cieca insieme alle figlie del nostro giardiniere, che erano una di qualche anno più di me, un’altra più piccola. Per me e mia cugina erano però una scusa. Loro erano un paravento per il nostro gioco erotico, che consisteva nel riconoscere la persona presa, toccandola sul viso, sulle braccia e basta. Bendato, dopo qualche giro a vuoto, con gli indizi che lei mi inviava, finii per raggiungere l’angolo in cui si incrociano le due librerie. Lei vi si era nascosta con il viso contro il muro. Trovatola cominciai a tastarla. Era quel seno meraviglioso che cercavo e il suo sesso. Cominciai a tastarla dai capelli, poi scesi lungo le gote, le cinsi il collo, quindi le afferrai i seni. Non disse una parola. La sentivo soltanto ansimare. Credimi Eleonora. Il cuore rombava nel mio petto. Cominciai ad accarezzarli a stringerli, a rovistarli. Le sbottonai la camicetta e beai le mie mani. Lei si girò, sempre in silenzio, e così affondai il mio viso in quelle rotondità di sogno, mentre con la mano cercavo il suo sesso. Quella notte lei mi aspettò nella sua stanza e mi insegnò a fare l’amore. Furono tre anni di passione. I miei genitori non immaginarono mai nulla. Poi, lei si sposò. Ma so che nel suo cuore era rimasta la passione per quel ragazzo che fino a diciotto anni era stato il più fervido degli amanti”.”Dio, papà, che storia. L’hai esposta così vividamente che me l’hai fatta visualizzare. Lo sai che mi sono eccitata. E poi vorresti darmi a bere che le donne, anche giovanissime, non si interessano a te. Ma se solo a sentirti parlare vengono brividi non di freddo sicuramente”. Arrossii, perché si era turbata. Ma non avevo raccontato quelle storie forse per turbarla? Non era forse vero che mentre rivedevo i seni di mia cugina, i miei occhi rodevano quelli di mia figlia? E se lei se ne forse accorta, lo avrebbe trovato “naturale? Ormai non mi capivo più. Non riuscivo a comprendere quando parlavo da padre o da maschio innamorato. “Su, rientriamo, ti devo far vedere una cosa”. E, senza darmi tempo di commentare, la mano stretta nella mia, mi sospinse frettolosamente verso casa.”Allora, cos’è che devo vedere?”. “Una cosa che ho trovato avant’ieri”. “Cos’è?”. “Oh, quanto sei impaziente: ora vedrai”. E, così dicendo, mi trascina nella sua camera. “Allora?”. Senza rispondere, mi lascia la mano e prende il diario scolastico, poggiato su un lato del tavolo da studio. Lo apre e me lo porge. “Ecco la sorpresa: leggi!”. Sulla pagina erano scritti dei versi intitolati “A Eleonora”: “Spogliarti lentamente con cadenze sensualidegli impalpabili veli che tenui ombranole tue fantastiche formeche irradiano desideri roventi.Anche l’ultimo velo fluttuando giace dinanzi ai tuoi piedi di fatae il tuo corpo rifulge accecandocome un sole fiammante tra le stelle di notteDissetarmi sui tuoi seni in eternoe scalare il Golgota del tuo mistero,perché, come Siva, rovente d’amore,il mio sesso innalzi il suo trionfonelle sue grotte aulenti di mieleper tutti i giorni dei giorni del tempo.” Rimasi decisamente sorpreso, mi sentii mordere il cuore di…gelosia. Non era davvero più una bambina mia figlia, se suscitava sentimenti così forti. “E poi asserivi che i ragazzi non ti interessano. Sicuramente non sono dei versi catulliani, “Ille mi par esse deo videtur”, ma spiegano bene cosa questo tuo cicisbeo desideri”. “Ah”, disse ironica mia figlia, “i tuoi discorsi sui maschi che dovrei frequentare, farmi le esperienze, poi scegliere, che fine hanno fatto. Sei geloso, ammettilo”. “Che c’entra la gelosia. E’ che sei ancora una ragazzina. Non mi pare che …versi simili ti si addicono”. “Ragazzina”. Dovevo mordermi la lingua. Sentirsi definire “ragazzina”, l’avrebbe fatta diventare furibonda.: E, infatti, avvampò. Le gote infuocate, gli occhi tempestosi. “Ragazzina! Quando ti conviene sono una ragazzina. Che forse non vedo come mi guardi? Ti sei accorto bene che non sono una ragazzina. E se te ne sei accorto tu, non pensi che se ne siano accorti gli altri. No, non conosco, nemmeno riesco ad immaginare chi ha scritto questi versi. Ma mi hanno lusingato, non ci piove. Te li avrei fatti leggere subito, se non ci fosse stato il mio compleanno di mezzo, perché sapevo che ti saresti ingelosito. E io voglio che tu sia geloso di me, di me come donna, non come ragazzina. Mi cercherò un bel “drudo” che saprà apprezzare le mie grazie e esplorare dovutamente “le mie grotte aulenti”. Sei un cieco, volutamente cieco”. Era furente. Io rimasi con il diario nelle mani immobilizzato da quella sfuriata, mentre lei infuriata si precipitava fuori dalla camera. Dopo alcuni istanti, mi riscossi e corsi per scusarmi e blandirla. Che voleva dire che mi ero accorto che non era più una ragazzina. Che avesse fatto finta, come mia cugina, di dormire, mentre io esploravo il suo corpo la notte precedente? Che avrebbe pensato di me, che ero un mostro? No, non mi avrebbe allora chiesto di restare un giorno insieme. Non capivo che volesse dire. Rimuginando tutti questi pensieri andai a cercarla. Era seminascosta sul nostro divano con il capo semisprofondato tra ginocchia, le braccia allacciate attorno agli stinchi e i piedi sopra i bordi del divano. I capelli spiovevano sopra i jeans come rivoli d’oro. Mi accostai carezzevole e timoroso. “Piccola mia, non volevo farti arrabbiare. Sei la luce dei miei occhi, come potrei? Sai bene che era un modo per dire che sei la mia bambina, non che sei piccolina. Certo che so che sei cresciuta, ma resti ai miei occhi la mia bambina. Non voglio che sii in collera con me”. E mi chinai a baciarla sui capelli. Ma non si smuoveva, con la testa infossata tra le gambe. Presi a solleticarla sui fianchi. Sapevo che non lo sopportava. Cominciò ad agitarsi. Sollevò la testa. Lo sguardo era meno duro, ma ancora torbido. Dio, com’era bella! Continuai a tormentarla sui fianchi. “Smettila, basta!”, intimò, la voce addolcita, ma sempre con le braccia strette attorno alle gambe. Tentai di intrufolare le mani sopra il suo stomaco per solleticarla lì. Lei lasciò la presa delle gambe e incrociò le braccia a ripararsi lo stomaco, rovesciandosi e distendendosi sul divano. Mi inginocchiai sul tappeto e tentai di forzare le braccia in mezzo ai gomiti pigiati sul costato là dove i suoi polsi si incrociavano. Ora cominciava a sciogliersi in sorrisi e ad emettere gridolini. Le mie mani ormai scorrevano sul suo scollo sopra il maglione. Lei, come per fermarle, le afferrò per allontanarle, ma facendole scorrere sui suoi seni. I suoi seni. Bastava che le mie mani li incontrassero anche incidentalmente perché mi sentissi vibrare. Lei, intanto, si era rovesciata a pancia in giù. “Vediamo se riesci a svincolare le mie mani, ora”. Un gioco, era un gioco? Sicuramente per lei sì, ma non lo era per me. Mi infervorava, mi eccitava, dietro l’alibi del gioco, raccogliere, stringere i suoi seni. E, infatti, con la scusa di districarle le dita che serrava sul petto, finivo per manipolare come volevo la sua vellutata e turrita femminilità. Di colpo si fermò in quello frenetico contorcersi. “Un crampo, papà, un crampo, sotto l’ascella per tutto il costato. Sto morendo, che dolore, papà, che dolore terribile”, gridò sollevandosi a sedere. “Non mi posso muovere, mi tira la spalla e il seno. Fa’ qualcosa. Fammi dei massaggi”. “Non ti spaventare”, tentai di rassicurarla. “Intanto respira profondamente. Più ossigeno invii, più il dolore diminuisce”. “No, papà, si sarà accavallato un muscolo. Lo so perché è capitato più d’una volta a qualche mia compagna quando facciamo ginnastica. La professoressa massaggia il muscolo con forza e lo rimette a posto. Fami la stessa cosa. E’ terribile, fa presto”. Così implorando si alza in piedi, si toglie il maglione, la camicetta e… non aveva reggiseno. E dire che, quando si preparava per uscire, lo indossava sempre. Era un vero supplizio per me. Rimasi per qualche attimo interdetto, poi, partendo dal dorso e seguendo il costato, appena sotto l’ascella, cominciai a spingere su tutto il muscolo fino ad incontrare il suo seno e massaggiarlo. Come facevo a non guardarlo, come facevo a non scorgere che non uno, ma tutti e due i capezzoli, piccoli e rosati, si indurivano ergendosi come piccole fragole di bosco? Come facevo ad impedire al mio desiderio di accendersi e al mio sesso di inalberarsi? “Ancora papà, ancora”. Diceva bene lei “ancora”, ma la mia mano ormai si muoveva per conto suo, tutta presa ad assorbire gli infiniti aghi di piacere che la trapanavano e che si riversavano come cascate nel mio cervello. Intanto, inconsciamente, per tenerla ferma, mentre facevo forte pressione da un lato, l’altra mano per controbilanciare la spinta, invece di fermarsi sul costato, si ritrovò con il suo collo pigiato su di esso, ma con il palmo e le dita a coprire l’altro seno, strofinandolo come facevo con l’altro. Confusamente me ne avvidi. “Credo che si sia rimesso a posto. Alza il braccio”. Intanto, inebetito, rimanevo con i suoi seni racchiusi nelle mie mani. Lei sollevò il braccio. “Finalmente! Non mi fa più male. Oh papà!”, e serrò le braccia sopra le mie mani quasi a volerle fondere sulle sue mammelle. Poi si girò su se stessa e mi lanciò le braccia al collo. “Come farei senza di te. Sei un massaggiatore straordinario. E’ colpa tua per lo strappo. Ragazzina! Non ti azzardare a dirlo più”. Poi mi guardò, tirando il busto indietro, ma rimanendo sempre con le mani intrecciate dietro il mio collo e: “Tua cugina aveva il seno come il mio? Massaggiatore!”, e le sue labbra si incresparono in un sorriso malizioso. “Quante donne hai…massaggiato non in modo disinteressato come me? Come massaggi bene! Ora che ti ho scoperto in questa tua dote mi farò massaggiare spesso in ogni parte del corpo…gratis. Non ti azzardare a massaggiare le allieve. Te l’ho detto. Ti uccido. Griiii!!!” E, le braccia sollevate, artigliò le dita dinanzi al mio viso stridendo come un’arpia”. Giuro. Non capivo, se mi provocava di proposito, o ero io che, preso dai miei turbamenti, stracapivo ciò che per una figlia è un atteggiamento naturale. “Voglio ballare”, esclamò di scatto e corse a prendere un cd per infilarlo nel lettore. Non era certo musica da discoteca, ma un lento come la sera prima. “Vestiti, intanto, che ti raffreddi. Siamo sempre a novembre, nonostante i tuoi ardori”. “E smettila di fare l’apprensivo o è il mio seno che ti turba, massaggiatore?”. “Ma come devo fare con una figlia così screanzata e impudica”, sospirai tra il serio e il faceto. “Mi piace vederti in imbarazzo. Sono tua figlia e me lo posso permettere. Se la mia nudità ti imbarazza, significa che non sono una ragazzina” E, così dicendo, si allacciò al mio collo, sollecitandomi a ballare. “Se non ti copri non ballo”, insistetti deciso. Capì che dicevo sul serio. Raccolse camicetta e maglione e si rivestì. Si abbarbicò a me e ci mettemmo a ballare. Ballare, si fa per dire, a muoversi impercettibilmente strisciando i lombi uno sull’altra sopra lo stesso ristrettissimo quadrato di pavimento. La testa sulla mia spalla si lasciava andare come rapita, sognante sull’onda più che della musica, delle sue sensazioni. Nonostante la ruvidezza del jeans avvertivo il tepore del suo pube. Ma, a parte questo, era il suo strusciare che faceva impennare il mio membro. Quella sensazione mi illanguidiva, mi cullava di un torpido piacere. Sapevo che non era giusto. Tuttavia, se era lei a guidare l’orchestra, perché avrei dovuto desistere io, irritandola, poi, per giunta? Quindi mi lasciai andare sull’onda delle mie emozioni. Non pensavo più, ero in una totale abulia: solo un diluvio di piacere. La sua voce perciò a un tratto mi echeggiò come da lontano. “Perché non fingi di essere il mio uomo? Corteggiami, come se fossi innamorato di me, fammi capire cosa prova una donna quando si trova tra le braccia di un uomo perdutamente innamorato e appassionato di lei.” “Eleonora, come puoi chiedermi questo? Sai che sono perdutamente innamorato di te, ma non posso, è impossibile, trattarti come la mia donna”. “Perché impossibile?”, chiese sollevando lo sguardo verso i miei occhi. “E che, forse gli attori non si immedesimano nella parte, quando interpretano dei personaggi, e si amano, confondono i loro corpi nudi travolti dalla passione, pure senza essersi conosciuti fino a qualche ora prima? Se possono loro, perché non possiamo noi, che, in quanto padre e figlia, ci conosciamo da sempre, ci adoriamo e non abbiamo pregiudizi di sorta?”. Sicuramente mia figlia non mancava di logica ferrea. “Ma tu sei mia figlia!”. “Infatti, abbiamo registi che dirigono in film più o meno passionali la figlia che, nuda, mima di fare sesso con l’attore suo patner”. “Ma quello è il mondo del cinema. Il mondo dell’arte è come quello del circo. Le regole sono diverse”. “E il mondo della nostra famiglia, costituito poi da solo noi due, non è altrettanto diverso? Non abbiamo fatto del nostro rapporto un’arte, un legame d’amore che solo pochi padri e poche figlie riescono a intrecciare. Inoltre è notorio: padre e figlia hanno un nodo tutto particolare, che li rende speciali. Loro possono tutto. Ti prego, tu che non sei per nulla moralista e bigotto, non diventarlo ora per tua figlia. Fammi sentire per tutto questo giorno la tua fidanzata. Pensa a tua cugina. Allora cosa fa un uomo, quando è preso dalla donna di cui è appassionato? E cosa deve fare lei con lui? Per la verità, immagino cosa fare. Se ci stai comincio io”. Potevo prendermela solo con me. L’avevo cresciuta disinibita – non senza valori, questo no, – disinibita nel senso di non crescere secondo schemi ipocriti. Avevo avuto come punto di riferimento i paesi scandinavi e ai quei costumi mi era adattato. Potevo rifiutarmi, questo è indubbio. Ma mi nascondevo dietro il comodo paravento che lei se la sarebbe presa. Non volevo che in quel giorno che le avevo regalato si sentisse snobbata, di più, rifiutata. Per lei era un gioco. Non era vero. Per mettere a tacere la mia coscienza, mi dicevo questo, ma desideravo da morire recitare la parte che mi prospettava. Potevo stringermela, baciarla, palparla, scoprirla come bramavo senza per questo sentirmi in colpa, perché era lei che lo voleva. “Allora, che devo fare?”. “Il fidanzato che si trova a stare una giornata da solo in casa di uno dei due, senza occhi indiscreti e che sono travolti dalla passione”. “Sempre recitando, però”. “Recitando, certo, come vuoi”, biascicò stancamente. “Allora, comincia, amante mio!”, invitò imperiosa con voce roca. Io non sapevo che fare. Ero trepido, intimidito e smanioso di fare a un tempo. Mi sentivo peggio dell’asino di Buridano. Vedendo la mia titubanza: “Incomincio io, allora. Tu mi segui di conseguenza”. Si strinse a me quasi in osmosi, il suo pube incollato sul mio. Accostò le sue labbra al mio viso e cominciò a baciare i miei occhi, per scendere lentamente sulle mie labbra. Le sue erano tumide, il labbro superiore arricciato un po’ in su e mi sembrarono succose come pesche e fresche come melagrani. Si schiusero come un fiore alla luce mattutina e io mi ritrovai a stordirmi in quella bocca. No. Non recitai più. Dimenticai ch’era mia figlia. Le mie mani corsero verso i suoi fianchi, scivolarono sotto la camicetta e risalirono verso i suoi seni. La sentii tremare sopra di me, avvertii il suo pube sussultare sopra il mio, mentre le mia dita coccolavano le mammelle, titillavano e facevano scorrere sopra i polpastrelli i suoi morbidi, acerbi capezzoli, affondai il mio viso sul collo, mentre, una mia mano, abbandonato il petto, slacciava il suo jeans e cercava impaziente il suo pube sotto lo slip e lo trovò, se nel colmò e s’avvide ch’era bagnata. Lei stava godendo, come una donna vera! E le mie dita entrarono in lei, cercarono il piccolo diamante già turgido e lo vellicarono e i suoi lamenti lo stordirono e lo incentivarono. E allora, la raccolsi tra le braccia, la sollevai per deporla sopra il divano. “No, non sul divano”, implorò con gli occhi appena schiusi. “Nel nostro letto. Portami sul nostro letto”. Salii con lei sulle braccia, aggrappata al mio collo, le scale, entrammo nella mia camera e la distesi sul letto. Pronta si liberò dei vestiti, io dei miei. Nudi fummo l’uno sull’altro. La stordii di baci in ogni poro del suo corpo, tormentai i suoi seni, la sfibrai di marezzate, increspature, singulti di piacere. In quel turbinio di baci e di carezze mi sospingevo fino ai bordi della soffice nuvola che come polvere d’oro spaziava sul pube: lo costeggiavo, mordicchiavo il suo inguine, sollecitavo il suo perineo, mentre lei sussultava inarcando il bacino, ma mi impedii di esplorare il suo estasiante mistero. E sentivo che lei non lo sopportava. Si sollevava sul letto e spingeva sul mio capo con le mani, perché scendessi lì, nelle sue grotte fiammanti, però io continuavo ad indugiare. Volevo che il desiderio e il piacere deflagrassero dentro di lei allo spasimo. Ed ecco che cominciò ad implorare con voce lancinante di voluttuosa sofferenza: “Baciala, baciami lì, succhia, succhia la mia…fica”. E mi ritrovai a contemplare estasiato il sussultare delle sue rosee labbra verginali, mentre il suo miele d’ambra si spandeva come una polla gorgogliante dalle profondità della terra. E finalmente bevvi copiosamente. La mia lingua si insinuò dentro la sua fessura stillante d’umori di femmina squassata dal piacere La mia bocca era inesausta di sete del suo grembo e non si stancava di dissetarsi nel miele copioso di quelle grotte verginali. Poi, imperiosamente, fu lei a cercare il mio sesso. E volle stringerlo prima in una poi nell’altra mano e contemplarlo mentre lo impugnava come uno scettro fino a quando cominciò un saliscendi prima blando, quasi a misurare il piacere di vederlo scoprire e ricoprire del suo guanto di pelle a poco a poco, poi più veloce e, infine, in modo frenetico, convulso, fino a quando vide rampollare un piccolo getto d’argento. Io sospinsi il suo capo verso la cuspide malva e lei capì e volle conoscere il sapore del maschio. E le sue labbra si schiusero vogliose a ripulire la spuma bianca che ne velava la punta. E appena lo vide afflosciare premurosa come massaia si curò di farlo impennare con le mani e poi con la bocca. Scendeva piano sopra di lui, lentamente, come per assaporarlo, sentirlo meglio dentro le mucose delle sue guance, lo spinse sino a sentirselo in gola, ne vellicò la punta, scavò con la lingua la sua piccola bocca fiammante, e, mentre riempì entrambe le mani con le gonadi, – si dilettava, baloccava, si fermava a contemplarle, le strofinava, le palpava con la stessa divorante curiosità di una bimba, quando scopre un giocattolo nuovo e seducente, – la sua bocca scorreva insaziabile su quel maglio di carne. Sempre più veloce, sempre più veloce e sempre succhiando e aspirando, quasi volesse estrarne l’anima. Io ero – sono – un mare sconvolto solo dal piacere, sommerso dal piacere, travolto dal piacere. Questa volta non volle fermarsi a guardare rampollare le radici della vita, voleva sentirne il calore dentro la bocca. E così raccolse golosa l’essenza vischiosa del maschio, la rigirò nella sua bocca per gustarne il sapore e, inebriata, la inghiottì. E, nuovamente mi precipitai sul suo grembo a scompigliare il suo vello appena fiorito, a beare la mia lingua del suo clitoride, il mio palato del suo miele, le mie dita della sua vagina palpitante. Si torceva sotto quella tempesta di baci e di mulinare di dita in un parossistico sussultare di orgasmi, vidi i suoi occhi appannarsi e rovesciarsi, come mai avevo visto in una donna. Si lamentava come in deliquio. Annegava in un piacere senza confine. E io ero esaltato nel vederla spasimare nei marosi del piacere che sapevo dispensarle. Poi la vidi sollevarsi a mezzo il letto e la sentii implorare, struggente, delirante. “Prendimi, entra in me, prendimi, muoio, ti prego, non farmi morire”. Tese le braccia e le mani supplichevole, il viso pallido, stravolto dalla passione. “Prendimi, entra in me, ti voglio, ti voglio”. Si distese, sollevò il bacino, allungai le mani sotto le sue terga sollevando il bacino verso il mio sesso. Accostai la punta del mio glande su quella crepa fumigante di desiderio, ma qualcosa, che saliva su su da qualche anfratto riposto della mia coscienza, mi bloccò sulla soglia di quell’antro di passione. Arretrai. “No, non posso, non posso”, balbettai, “non posso. Questo no”. Lei, allucinata, impazzita, mi si rovesciò sopra furente, scarmigliata. “E’ mio, lo voglio, è mio”. E arpionò il mio membro e fece per sprofondarvi sopra. La presi per le spalle e la rovesciai con forza da un lato. Sembrava impazzita, come sotto l’effetto d’una potentissima droga. Si dimenava forsennatamente, gemendo, gridando, implorando. Ma fui irremovibile. La immobilizzai, fino a quando la sentii acquietarsi. Poi la sollevai e la strinsi tra le mie braccia, quasi a stritolarla, a soffocarla. La sentii tremare e poi cominciò a singhiozzare, per piangere infine a dirotto. “Perché, perché non mi hai voluto?”, ansimava sulla mia spalla. “Perché? Non capisci, io sono tua, solo tua, mai nessuno potrà entrare dentro di me. Il mio grembo è solo tuo. Perché non sei voluto entrare in me? Voglio essere tua moglie non tua figlia”. Si scostò da me, prese il mio viso tra le sue mani, gli occhi alluvionati dalle lagrime: “Io sono tua moglie. Non avrai altra donna fuori di me. Tu sarai mio nello spirito e nella carne”. Scivolò sino al bordo del letto, ne scese e, nuda, uscì barcollando dalla stanza. Io la guardai andare inebetito, come se fossi stato privato del pensiero, della voce e del vigore. La testa mi ronzò, tutto mi roteò d’intorno e, poi, fu il nulla. Capii che ero cosciente, quando vidi pendere a ridosso del mio viso le cupole radiose del suo seno. La testa mi ronzava ancora. Che cosa mi era successo? La voce rotta dal terrore, mi impedì di valutare la domanda. “Papà, papà non mi lasciare, non morire”. L’azzurro dei suoi occhi era frantumato dal terrore, mentre il suo sguardo rovistava tremebondo il mio viso. “Puoi respirare, vero? Riesci a muoverti?”. Erano parole che pregne d’angoscia prorompevano in un balbettio, spezzate. Percorsi il suo volto con lo sguardo. Era terreo, sull’orlo del mancamento. Il terrore allo stato più puro la straziava. Quella disperazione di perdermi mi allagò l’anima subito di gioia e nello stesso tempo d’apprensione.” Mi adorava all’inverosimile, ma poteva collasare per lo spavento. Feci forza su me stesso e, nonostante la testa vorticasse un poco, feci finta di stare più che bene. “Figlia mia adorata sto bene, davvero, smettila di preoccuparti”. Allungai le braccia e raccolsi il suo bellissimo viso tra le mani. Era velato d’un madore gelido e tremava.”L’attirai verso di me e la strinsi forte al mio petto, mentre l’accomodavo a sedere sulle mie gambe. “Morire, pensi davvero che permetterei all’annosa Falciatrice di rubarmi alla tua vista, al tuo amore, al tuo abbraccio. Ne passeranno ancora di anni, amor mio”. Raccolta così tra le mie braccia, la sentii prendere calore, sentii il suo corpo smettere di tremare e il suo cuore calmare i suoi battiti rombanti. Rimanemmo così, io seduto sulla sponda del letto, lei accoccolata sulle mie gambe, accucciata sul mio petto in silenzio per un po’ di tempo. La baciavo di continuo sui capelli, mentre con una mano le accarezzavo una guancia. In quei momenti sparì la donna fatale e seducente nella acerbità dell’adolescenza e ridiventò la mia bambina. Ma, furono solo quei momenti. Fu lei a spezzare quel sereno silenzio. “Perdonami, papà. Sono tornata subito, sai, quasi avessi sentito che stessi male. Rovesciato sul letto, mi sono sentita morire. Ti chiamavo, ti baciavo, non mi rispondevi, mi sono messa a piangere disperata sopra il tuo petto, invocando il tuo nome. Non sapevo che fare. Non volevo lasciarti nemmeno per un istante, correre al telefono e chiamare il medico. Credevo che se ti avessi lasciato per un attimo tu non avresti più respirato. E, poi, eri freddo. Riscaldandoti col mio corpo, pensavo, ti saresti ripreso. Mi sono distesa su di te, tenendoti stretto e, ad un tratto ti ho sentito agitare. Mi sono alzata, scesa per terra per guardarti tutto e hai schiuso gli occhi. Che ti è successo papà? Lo so, la colpa è mia. Ti ho stremato con la mia stupida furia d’amore. Ti ho fatto venire non so quante volte, dimenticando che non hai vent’anni. Ma a me non importa che lo facciamo tante volte. Anzi se devi star male, non lo facciamo più. E non temere che per questo vada con i ragazzi. Non mi interessano. Vedi, mi basta stare tra le tue braccia e ho tutto il calore del mondo. Ti amo più della mia vita, più della mia vita”. Quale uomo, padre, si era mai sentito proferire, confessare, parole così appassionate, straripanti d’amore?. La subissai di baci, di carezze e, per incanto, come se avesse una vita propria, il mio sesso si rizzò imperioso. Lei lo avvertì immediatamente sotto di sé. Il suo volto si tinse di rosso, le sue labbra si schiusero in un sorriso. “Papà, oh papà che mi fai? Sì, non stai più male”. E, euforica, si slanciò con le labbra sulle mie, baciandomi turbinosamente. “Non lo tocco, non ti preoccupare, non lo tocco, anzi, visto l’effetto che ti faccio, mi tolgo subito da qui. E poi mi chiamava ragazzina!”, concluse sorniona, mentre fece per alzarsi. La trattenni a me. “Non c’entra il fatto di avere avuto qualche eiaculazione più del dovuto. Lascia che il mio sesso senta il calore del tuo. Mi rinfranca l’anima e mi ristora la mente. Se sono svenuto è per qualcosa che mi è venuta da dentro. Come te anch’io ho desiderato farti mia, ma è stato come se una montagna di gelo, un terrore di perderti, di vederti svanire per sempre, mi lacerasse l’anima. E di colpo, mentre tu fuggivi, era come se quella sensazione di freddo di morte si stesse avverando. E il terrore sovrano che tu scomparissi mi attanagliò la mente, tutto mi girò intorno e poi fu il buio. Capisci, io posso entrare in te, quando questa paura di profanare la tua intimità si dissolve anche dai recessi più nascosti del mio inconscio. Nel tuo intimo tu potresti convincerti che il donarti a me non sia stato per tua libera, cosciente volontà, ma per non dispiacere tuo padre o per compiacerlo, o perché soggiogata dal mio amore. Questi pensieri tutti insieme in una volta mi hanno soffocato e, come quando in un incubo, ci svegliamo, perché la rimozione è tanto forte che il nostro io non vuole accettare di scoprire la verità dei nostri desideri più tenebrosi, il mio io ha risolto il problema facendomi perdere i sensi”. Lei mi ascoltava con un’attenzione divorante. Si scosse da quella fissità e con dolcezza, suadente, ma determinata, ribatté:”No, il tuo discorso non calza. Sono io che ho deciso, ho deciso, capisci, che tu solo devi essere il mio uomo. Tu non sei a scuola con me quando un ragazzo mi fila. Se avessi voluto non mi sarebbe mancato né il ragazzo, né l’occasione. Se sono voluta rimanere a casa, l’ho voluto io. Tu volevi spedirmi a scuola. Semmai sono io che ho… approfittato di te. Ma, se ti turba così tanto raccogliere il dono della mia verginità o addirittura contemplare la mia nudità, bearti di essa, mi farò dura con me stessa. L’ho detto prima: desidero con tutta l’anima di sentirti tutto mio dentro di me, ma ancor di più desidero la tua presenza più della luce del sole. Tu sei il mio sole, tu mi dai la vita. Io sono un vulcano in ebollizione, ma sono in grado di tenerlo a freno, se la sua lava dovesse travolgerti e distruggerti. Checché tu ne pensi, sono una donna con una volontà titanica. Ti starò lontana”. “No, figlia mia, non dirlo neanche per celia. Io voglio, dico voglio, che continuiamo ad amarci come abbiamo fatto in mattinata. Lascia, però, che io risolva questo conflitto dentro di me. Possiamo lo stesso godere della nostra fisicità senza bisogno che ti possegga. Tu devi avere la pazienza di aspettare. Ti farò provare il gaudio,le delizie più impensate, ti farò schiumare dal piacere. Se tu vorrai e ne trarrai godimento, potrò scivolare dentro il tuo buchino, e colmarti di orgasmi più di quanto tu possa almanaccare”. “Non so se le mie terga apprezzeranno un tale servizio. Ma ogni lembo della mia carne ti appartiene e tu puoi spillarne ogni possibile godimento. Però già so che il piacere di sentire il tuo sesso sul solco dei miei glutei è grande, perciò ritengo che dovrebbe essere più che decuplicato, se si farà riparo del tuo vessillo. Voglio solo che tu sia sincero con me. Che continui a giocare con me non per farmi contenta, ma perché lo desideri con la stessa cocente intensità con cui lo impetro io”. “Ti desidero come la sabbia del deserto una carezza d’acqua. Non credi, intanto, che sia giunto il momento di rivestirci e di preparare il pranzo?”. “Di’ che senti freddo, vecchietto. A me piace vederti nudo”. “A me, invece, piace rinnovare di continuo lo scoprirti, come accade con il sole, che si nasconde la notte per scoprirsi più abbagliante ogni mattino, identico e pur sempre diverso, come cantava Orazio nel suo Carme secolare”. La mia considerazione la colpì. “Toccata. Mi vestirò come una suora, così mi renderò più seducente e dovrai togliere tanti drappi prima di trafugare la mia nudità. Intanto, accarezza i miei seni e succhia i miei capezzoli, esigono il ristoro di un penitente”. Mi accostai dietro le sue spalle e la spinsi contro di me. La circondai con le mie braccia e i suoi seni riempirono le mie mani, mentre il mio sesso spavaldo pigiava sulla rosellina che palpitava nella valle dei suoi glutei. No, non era il momento di forzare quell’ingresso. Le mie mani esasperarono di carezze le sue mammelle, mentre lei sfregava i suoi glutei contro il mio membro. Di colpo la girai, la feci precipitare sul letto e i suoi capezzoli saziarono, al momento, la mia ingorda sete del suo sesso proibito. Le mie mani però raccolsero di quel sacro bosco gli spasmi del piacere che dilagava copioso dalle anse del suo seno. Attaccato ai suoi capezzoli, solcato da ondate d’ebbrezza voluttuosa, mi sentivo anche un neonato che, pur essendo sazio di latte, vuole restare attaccato al seno della madre per il piacere che quell’escrescenza morbida di carne rosata gli regala.Nondimeno riuscimmo finalmente a strapparci dal quel rapimento dei sensi, ci alzammo, vestimmo e, la mano nella mano, scendemmo giù a preparare il pranzo. III Seduti a pranzare sul lungo tavolo di legno massiccio, vecchio ormai di generazioni, l’uno dirimpetto all’altra, portavamo il cibo meccanicamente alla bocca. Di prassi, mangiavamo in cucina, ma, per tacito accordo, avevamo preferito mantenere le distanze. I nostri sensi erano incandescenti come ferro fuso e la vampa che emanavano era più violenta di quella mulinante in un altoforno, le nostre mani vibravano, leste a compulsare i nostri corpi. Però, seppure così distanti, i nostri occhi rodevano di desiderio i nostri visi, un desiderio come aura infuocata di un amore senza confini. Ma, prima o dopo, le nostre dita si sarebbero sfiorate e poi intrecciate e poi trascinate a spingerci l’uno sull’altra. E, allora? “Che pensi?”, mi domandò lei, dal canto lontano del tavolo. “Solo te, i tuoi capelli, la tua fronte, i tuoi occhi, la bocca, il tuo seno, il tuo sesso. Se fosse possibile, visto che data la mia età, non potrei fare l’amore con te sfiancando sinanco le ore, fino a farti stremare di voluttà insopportabili; vorrei essere come Siva che sta in eterno con il suo membro nella vagina di Parvati, scuotendosi dentro di lei ogni tanto perché il suo sesso resti perennemente turgido. E’ quella che oggi chiamano la tecnica del tantra. Pensa: il mio pene come il cordone ombelicale che lega il feto alla madre; tu, nello sfolgorio d’alabastro delle tue forme perfette, legata a me sino alla fine del tempo, entrambi cullati su un tappeto di stelle da ondate perpetue di voluttà”. I suoi occhi brillarono come astri sul punto di esplodere e, sebbene fossimo molto discosti, potevo scorgere le falde del suo maglione rosso, all’altezza del petto, sollevarsi prepotentemente come spinte da un mantice. Aggrapparmi a quei seni e non lasciarli più! Lei fu la prima ad alzarsi e a sparecchiare. Il suo profumo acerbo e afrodisiaco d’adolescente mi sfiorò come uno sbuffo di scirocco, quando mi si accostò. Mentre lei rigovernava in cucina, preferii mettermi a passeggiare lungo il salone, giungere sino al mio studio, fissare senza vedere il dorso dei tanti volumi nelle librerie, e poi tornare indietro. Come contemperare la febbre convulsa di averla costantemente nuda tra le mie braccia e la ragionevole coscienza che quel fuoco mi avrebbe ucciso? E lei, lei stessa poteva pensare a me come una sorta di droga per tenersi perennemente eccitata, amata e protetta? Desiderava con tutta l’anima che la facessi mia, agognava sentire il mio membro scavarla dentro le viscere, accogliere il mio caldo seme e sentirmi suo. E, certamente, io lo desideravo almeno quanto lei. Ma non potevo, non potevo. E capivo che non si trattava di rimorso, di riserva morale, data la sua più che giovane età. No, perché ero più che convinto che lei mi volesse più di quanto il deserto brami la pioggia. La cosa era in me, una cosa che veniva dal profondo del mio essere, qualcosa di…metafisico. Quando prima eravamo in cucina e lei si affaccendava tra i fornelli, mi ero accostato cingendola da dietro, le mie mani intente ad allacciarla attorno ai fianchi. Come di consueto, il mio pene si inarcò e si ritrovò a premere sulle sue terga. “Briccone d’uno storico, allora non vuoi farmi cucinare! Così mi distogli dal compito di cuoca. Un pranzo non da figlia, ma da moglie, perché, contrariamente a quanto quasi sempre è accaduto, sarò io a cucinare per te, quando sono in casa, come farebbe una moglie, tua moglie”. Incurante dei suoi commenti le avevo già slacciato il jeans e scoperto i suoi glutei con l’intento di indirizzare il mio sesso sul suo buchino e poi lasciarlo strusciare sotto il velluto tumido e caldo della sua vulva. Ma una leggerissima folata di freddo si riversò sull’intero lato destro della mia persona. E i vapori della cucina sembrarono condensarsi in una sagoma di donna. Fu solo un attimo, più fuggente d’un sospiro, ma bastevole per non potere non riconoscere in quella sagoma i tratti della mia defunta moglie. Un gelo di tomba mi attanagliò il cuore, che si slargò con tonfi soffocati nel petto, le mani mi tremarono ammollandosi, non trattenendo più i jeans di mia figlia, che finirono per scivolarle sulle caviglie, mentre il mio pene si raggrinziva di botto, ritraendosi sopra il plico delle gonadi. “Allora? Il profumo delle mie pietanze è più potente del mio culo?”, disse scherzosa mia figlia. “Continua, non mi distraggo. Aspetta che mi tolgo i jeans. La colpa è tua. Hai voluto che mi vestissi. Sapevo che il mio culetto sollecitava il tuo desiderio come il tuo grimaldello seduce me e mi increspa tutta di languido desiderio quando lo sento gonfiare, indurirsi, strusciare serpeggiandomi dietro voglioso e umido di secreti. Aspetta che lo rimetto in sesto io”, disse decisa, ironica, girandosi e piegandosi per impugnare il mio membro. “No, no”, avanzai io. “Non pranzeremmo più. Non so tu, ma certo io ho bisogno di tonnellate di calorie”. Tentai un tono spiritoso nelle mie parole. Ma il gelo nel mio cuore non si era diluito. “Rimettiti i jeans. Piuttosto non mi incentivare!”. “Incentivarti? Ci puoi scommettere che lo farò. Fosse per te, non mi toccheresti nemmeno con una canna. E, poi, siamo sempre noi donne a prendere le iniziative”. Non risposi, la lasciai e mi portai nel salone. E ora qui rimuginavo su quanto accaduto. Il gelo non stringeva più il mio cuore, ma il mio cervello mulinava spiegazioni. Mia figlia era il ritratto della mia defunta moglie. E lei, mentre mi affaccendavo dietro il suo di dietro, aveva parlato di “moglie”. Certamente questa parole nel mio inconscio si era ingorgata con il mio senso di colpa. Perché moralismi o meno, il tabù dell’incesto era introiettato pure in me, anche se volevo disconoscerlo. Un tabù che ti viene inculcato da millenni non è che svanisca di colpo. Avevo certamente esteriorizzato il mio senso di colpa nel fantasma di mia moglie: “Stai facendo questo, perché non ci sono io a proteggere mia figlia!”. O meglio, ero io che facevo a me stesso questo divieto traducendolo nello spettro di mia moglie. Non potevo andare a letto con mia figlia, se prima non riuscivo a risolvere questo conflitto con me stesso.Fu lei a strapparmi a questi pensieri. “Oggi niente libri, come promesso. Non senti il profumo che spira tutt’intorno? E’ quello dell’amore, del tuo, del mio, del nostro. Su, usciamo nel parco. Passeggiamo un po’ da padre e figlia e, insieme, da innamorati”. Mi gettai sulle spalle un pastrano, mentre lei si avvolgeva in un pesante scialle verde. La seguii senza commentare.Passeggiammo per qualche tempo in silenzio. Il cielo era rannuvolato e grigio e l’aria era più che pungente. Ma entrambi amavamo più il freddo che il caldo, e il pungolo del freddo ci rendeva frizzanti e più romantici. Ad un tratto lei si fermò, lasciò la mia mano e, guardandomi con le labbra divertite, fanciulla mirabile, ninfa dei boschi, si mise a correre in mezzo ai tronchi e alle piante che costellavano il parco, fino a quando i miei occhi non la scorsero più. Il silenzio intriso di lei regnava sovrano. Divertito ed eccitato a un tempo domandai un po’ ad alta voce: “Allora, vuoi gareggiare con gli uccelli o rubar loro un nido? Svelalo anche a me, amor mio, mia bellezza sublime. Accoccolata su di me, nel tuo nido, mi coverai come una quaglia il suo uovo e io martorierò con le mie labbra il tuo grembo ruggente. Non senti stormire le fronde? Gli alberi sono increspati di stili d’ebbrezza e ansano e impetrano il tuo corpo aulente di vergine e tendono verso di te i loro rami a lacerarti le vesti e, novella Dafne, incastonarti nuda nelle loro corazze di legno: mi basta seguirli e trovarti”. E allora la vidi. Esangue, come stremata di voluttà, stava abbandonata con le spalle e la nuca al tronco di un abete e, prendendomi anche l’altra mano, mentre con lo sguardo scandagliava frenetica i miei occhi intensamente, la voce arrochita, mi sussurrò: “Baciami come una donna!”. L’avvolsi tutta intera con il mio sguardo come se la scoprissi per la prima volta e avessi voluto serbarne il ricordo punto per punto. Era radiosamente bella, un sogno di un mangiatore d’oppio, le sue labbra sembravano sanguinare come un cuore lacerato e com’esso palpitavano. Bruciavano e si esponevano come il peccato e, come polvere di ferro attirate da una calamita, le mie si calarono si di esse, prima blande, quasi trepide, poi, quando le sue si schiusero e la sua lingua si insinuò tra le mie, il bacio si fece appassionato, turbinoso, irrefrenabile. Le lingue saettavano, si avviluppavano tra loro, si cercavano avide, assetate, quasi volessero risucchiare dai precordi l’essenza di vita, una bocca dentro l’altra disperata, agognante, torrida, insaziabile. Si staccò improvvisa e implorò: “I miei seni, raccogli, serra i miei seni. Voglio, esigo che le tue mani siano sempre impregnate del calore, degli effluvi dei miei seni, così, anche quando non sarò presente, mi sentirai con te, mi desidererai, ti fremeranno le mani e le bacerai, perché sentirai la loro fragranza. Io voglio, quando ti sono vicina, anche se non facciamo l’amore, che tu scandagli i miei seni, che li ricerchi e vezzeggi come con me fantolino, che ti accoccoli su di essi, che li tormenti di carezze e di baci, che devasti di languori i miei capezzoli e ne succhi gli aromi, che ti streghino e ti leghino attimo per attimo come una fattura d’amore. Anche se non ci fossi, intatta per la vita, nel cavo delle mani potrai conservare così la dolcezza di sogno dei miei seni plasmati dall’amore” Amare, è un verbo che non rende le cataratte di emozioni che schiantavano il mio essere intero. E a un tratto lo smarrimento. “Se non ci fosse?”. Chi non ci sarebbe: io, lei? E, se tutto di colpo fosse finito, troncato dalla morte? Morte, la mia morte? Che morissi anche subito, dopo avere bevuto dalle sue labbra, dai suoi capezzoli, dal suo grembo, oltrepassare la soglia delle ombre con l’azzurro dei suoi occhi imprigionato nei miei. Quale angelo avrebbe potuto darmi più gaudio in paradiso, se il paradiso ci fosse stato? No, no, era qualcosa di più tremendo della morte che in quel momento mi attanagliò l’anima: morire la morte e non poter morire. Lei, mia figlia, che sottraeva le sue orbite divine alla luce del sole, serrate nel gelido rigore della morte! Follia, follia, era come sradicare le stelle dal cielo e listarlo a lutto in eterno o scalzare il sole dal suo cocchio di fuoco e ammantare di coltri gelide la terra. No, ma perché, perché questo pensiero orrendo aveva trafitto come un lungo sottilissimo ago incandescente il mio cervello? Quale demone si voleva trastullare con il mio cuore? Già, i seni, raccogliere i suoi seni, e, in quella malia di placido amore, dissolvere i funerei vapori delle mie ambasce. Stordito, con il cuore che rombava, cinsi i suoi fianchi e lasciai che le mie mani, scompostamente agitate, risalissero lungo il costato fino a raccogliere i suoi seni. Erano miei, miei, sino all’ultimo rantolo della mia vita. La sentii rabbrividire deliziosamente, piegai le ginocchia e portai la mia fronte sul suo ventre. Lei sbottonò la camicetta e la sollevò con il maglione incappucciandomi il capo, che, sollecito, sgusciò in quella soffice e calda grotta. Il mio viso, i miei occhi, il naso, la bocca si tuffarono in mezzo a quelle morbide colline di carne, mentre lei con le braccia avviluppava con passione quella sorta di gravidanza, il mio capo, sul petto per tenermi prigioniero come in un gruppo scultoreo di Rodin. Poi si lasciò scivolare per terra, sempre adagiata contro il tronco dell’albero, e io la seguii in questo abbandono, mentre una mia mano scorreva sotto il suo jeans a esplorare il suo mistero. Stretto al suo seno, nascosto nell’alveo dei sui vestiti, con la mia mano a compulsare ubriaca le labbra roventi del suo grembo, estaticamente abbandonato per metà sulle sue gambe, per l’altra metà sul tappeto di foglie per terra, potevamo rappresentare uno dei più sensuali ed erotici quadri di Courbet. Come un bambino lei mi cullava cantilenando:”Nuda sono nata e nuda voglio restare, vergine pubescente, ma donna nell’agognare, bambina nell’apparenza, ma nella calla brace. Nuda sono nata e nuda voglio restare. Il mio amore mi ha plasmata, mi ha dato forme belle, che mi hanno reso forte nella femminilità. Ed ora si è nascosto, chissà dove sarà? L’innamorato mio, che mi ha donato il sole bruciando di piacere l’intonsa voluttà, dove sarà nascosto? Mi ha stretto nel ballare, ha sciolto il mio piacere, mi ha fatto poi sognare come donna non sa. Ho stretto nelle mani il suo flauto di carne e del suo suono ebbra la bocca s’invischiò. Mi ha fatto l’amor mio, mi ha dato queste forme, così aulenti e tonde per la mia vanità. I miei seni che egli adora, son gonfi di passione e scottano d’ardore profuso a sazietà. I miei capezzolini son fragole di bosco che al padre che conosco soltanto porgerò. Ma lui sta rintanato, da me si è allontanato e senza lui allato di pena morirò. Ma, guarda!, sono sciocca, celato sul mio grembo, d’esso stava suggendo nettare a volontà. Furtivo in mezzo al petto, si tratteneva stretto, e con le dita, accorto, stava a frugarmi là, dove la vita nasce ed il piacere dona a chi vi si abbandona con arsa voluttà. Succhia bambino mio le rose del mio petto, esplora l’umido stretto che implora dello scettro la rigida maestà. Nuda sono nata e nuda voglio restare, fammi però giocare col flauto tuo, papà”. “Irriverente!”, commentai tirandomi fuori dai suoi lussuriosi sacrari e raccogliendo, mentre mi rialzavo, il pastrano disordinatamente rovesciato per terra. “Giocare col mio flauto, purché lo tratti bene. E poi non è facile suonarlo con maestria. Ci vuole tecnica e arte e dita delicate. Inoltre, non cedere subito al suo suono. Il desiderio si arroventa, se l’incalza l’attesa. Proteggi i tuoi seni come una fortezza, e spranga i cancelli vergini con tenace forza. Non ti voglio arrendevole, voglio che tu lotti, i sensi si esasperano, le delizie sono più ghiotte, mi convinco che ti ho conquistato, con una non facile resa, anche se poi alla fine sarà dolce l’intesa. Intrecciare le finte lotte è bello nell’amore, rendono intrigante e più sensuale giocare. Scherzo. No, non è questo che ti voglio dire, voglio solo cantarti l’ebbrezza del mio cuore. Sia che scorazzi nuda o t’aggiri vestita, l’aria che ti circonda ammaliata sospira, i miei occhi ridono nel vederti frullare come un canarino felice soltanto di cantare. Ricamare sul tuo seno corone di baci, sui capezzoli osare le carezze più audaci, sul tuo vello intonare inni priapei, ubriacarmi del succo pregiato che nei meandri intarsiati di fregi che piaceri stillano, tentare il buchino che intarsia lascivo il solco dei tuoi glutei di gazzella e spillare rantoli di piaceri supremi dalle tue labbra sofferte e dal viso straziato dall’estasi del godimento: questo agogno donarti quando tra le mie braccia, presa d’amore, sfinisci. Amo quando raccogli il mio fallo e tra le tue mani rampolla e le tue labbra che avide calano a incastonarlo e ne ingurgitano l’ardore. Amo il tuo pube che serico intrica il suo crine con il mio, che struscia bramoso e infuocato e spinge il mio brando ad urlare il suo trionfo nel gaudio delle tue labbra, crepa di lussuria che schiude la levigata curva del tuo inguine di sogno. Adoro, quando sul candore del lenzuolo nuda mi esponi la tua provocante nudità, divagare per il doppio viale delle tue gambe con le mie dita fervide e indugiare nell’impregnarsi del miele che si addensa sul tuo enigma pubescente e, con un brivido esitante, varcarne la censura fino a lambire la tua sottile verginità, che induce il mio sangue a catapultarsi con scrosci fumiganti negli atri del cuore”.Mentre parlavo, frugava, avida, con gli occhi fiammanti i miei, che l’incastonavano preziosa nelle mie pupille. Raccolsi il suo viso tra le mie mani a calice e le mie labbra scivolarono sulle sue palpebre socchiuse: tremolavano come foglie leggere baciate dalla brezza. La sua bocca si sporse vogliosa e la mia accolse pronta il suo invito. Le nostre carni cominciavano nuovamente a bruciare, le nostre mani cominciavano ad inseguire ubbidienti i tesori agognati. “Rientriamo”, dissi, spezzando bruscamente quel convulso armeggiare di mani. Mi mossi per primo, staccandomi, lei mi seguì frastornata. Un brivido di ghiaccio percorse la mia schiena, come colpita da una invisibile folata di gelo. Istintivamente mi girai. Lei era appena discosta da me, il viso distratto da qualche pensiero. Come una sorella siamese, al suo fianco attaccata, un’ombra con le sue stesse fattezze, pensierosa, insieme a lei incedeva. Fu solo un sospiro di tempo. I miei occhi rincontrarono solo lei, mirabile, signora assoluta del mio cuore, la mia bellissima figlia. Nondimeno rimasi sconcertato e la strana paura diurna si arrampicò sui gradini più riposti dell’anima.Rientrati in casa, mi indirizzai verso il camino, sistemai una cupola di ciocchi e diedi loro fuoco. Lei intanto aveva messo nel lettore un disco di Ciaikovsky, “La bella addormentata”, distendendosi poi sul divano, il capo biondochiomato, semireclinato a guardare un punto indeterminato del camino, adagiato sul bracciolo. Mi accostai e teneramente la guardai. “Se tu sei Aurora, non posso di certo impersonare io il principe Desiderio, regale, bello, giovane e aitante”. Non raccolse la battuta. Rimase come prima in silenzio a guardare, forse malinconica, nel vuoto. “Che c’è, piccola mia, che ti turba? Di colpo così assente e lontana? Ti sei forse adombrata perché ho interrotto brusco il nostro abbraccio? Ormai faceva freddo. Mi preoccupavo per te, che non ti raffreddassi”. Si sollevò di scatto, alzandosi dal divano e fronteggiandomi, lo sguardo scintillante di collera trattenuta. Anche con quel cipiglio torvo rimaneva bellissima. “Bugiardo! Non ti sei staccato da me perché temevi che prendessi freddo. Tu tremi per altro, per altro. E’ per te. La mia ingenuità carpita. E vuoi tirarti indietro, restituirmi alla mia fanciullezza innocente. Dopo quello che hai fatto come credi che potrei tornare ad essere innocente? Solo perché non hai rubato la mia verginità, pensi che io possa, abbarbicandomi al tuo affetto di padre, dimenticare le ore di fuoco che mi hanno devastato il corpo e l’anima? Il male, se di male si tratta, è stato consumato: mai più potrei, perciò, riconquistare la mia purezza di vergine immacolata. Eh, che dici? Impallidisci? Ti senti un padre che ha approfittato d’una fanciulla ingenua? E questo ti tormenta l’anima. E così, ti dici, prima ho peccato, poi, pentito, m’allontano. E io che faccio? Mi metto in un angolo del letto e, di nascosto, mi masturbo sino a sfinirmi? O aspettare che, preso sonno, le tue mani accarezzino il mio corpo, trafughino il mio sesso e avere orgasmi in sogno? O stringere il tuo cazzo, sì il tuo cazzo, perché tu con la mia mano lo imprigioni mentre dormo per inseguire solo il tuo piacere?”. Sbiancai e insieme avvampai. Lei sapeva. Non dormiva allora! E io l’ho iniziata a un giuoco cui lei non era pronta, anzi a cui non dovevo mai accostarla. Maledetto, maledetto! Avevo insudiciato per sempre la sua anima innocente e non potevo più tornare indietro. Come avrei potuto più sostenere il suo sguardo, la sua presenza. Certo, lei mi aveva ceduto, ma, ora era chiaro, solo per compiacermi, solo perché temeva che non le avessi voluto più bene. E lei ha solo me. Da chi avrebbe potuto rifugiarsi per difendersi da me? Io, solo io avrei dovuto difenderla da me stesso. E invece l’ho irretita in un giuoco che è perverso perché da lei non liberamente scelto. Potevo solo inginocchiarmi, piangere e chiedere perdono. O uccidermi. Sì solo questo: cancellarmi dai suoi occhi. “Hai ragione, non merito nulla, mi faccio solo schifo. La tua bellezza di donna mi ha irretito, facendomi dimenticare ch’eri figlia. Nessuna scusa vale il tuo perdono. Posso solo morire. Uccidimi pure, se questo potrà servire a lenire almeno appena il mio peccato. No, non volevo allontanarti da me, lì, nel parco, perché non ti volessi più, ma perché la mia passione si faceva sempre più violenta, incontenibile, e non riuscivo più a capire se anche tu volevi ciò che io volevo, oppure ti stavo costringendo, solo per il tuo amore, a fare ciò che una figlia da un padre non si aspetta. Mi sentivo uno sciagurato che nello stesso tempo bruciava di passione. Non merito di vivere, hai ragione. Ho solo creduto che pure tu volessi essere la mia donna. Io ti adoro! Se questo vale solo qualcosa, perdona l’osare di tuo padre. Voglio solo morire. Senza il tuo rispetto, senza il tuo affetto, privo del tuo amore, voglio solo morire”. Mi sentii stringere il petto. Quasi soffocai. Sbandai sopra il divano. E su di me il suo urlo. “Papà, amore mio, immenso, senza fine, ma che hai capito delle mie parole! Amore mio, tu mi fai morire se il tuo viso non prende il suo colore”. E, precipitandomi addosso, con le mani mi carezzava, tenera e dolce, il viso, irrequieti i suoi occhi mi baciavano, la sua voce era di donna innamorata, d’appassionata amante, non di figlia. I miei orecchi, al ritmo dell’adagio maestoso di Ciaikovsky, colsero l’afflato di quel calore bruciante, le mani esangui cominciarono a riprendere sensibilità, il cuore cominciò ad attutire la sua disperazione, il volto a ripristinare il suo incarnato roseo. “Ti ho amato da quando avevo otto anni. Mi dicevo: ‘Da grande mi sposo con papà’. E, non ricordi, quando sei anni fa non hai voluto più farmi il bagno, quanto me la sono presa? Dodici anni, ma in grado di sapere cogliere le deliziose sensazioni che mi regalavi, quando lasciavi scivolare le tue mani sul mio petto appena lievitante e sul mio sesso. Rammenti, quando insistevo di lavarmi meglio di sotto, perché mi bruciava, e tu volevi che lo facessi da me. Non puoi immaginare il piacere che mi davi. E forse non mi riempiva il corpo di sereno languore quando, nel letto, ti sentivo, la notte, nudo, sotto di me? E la scoperta – finalmente ormai da qualche tempo – consapevole del tuo sesso mentre dormivi. Ogni notte, quando ritenevo che eri profondamente addormentato, la mia mano si inanellava di lui, sia che fosse già inalberato sia che dal suo letargo lo facessi destare io con le mie carezze. E tu magari avrai pensato che ti scioglievi nel sonno per un sogno erotico. Ero io che, masturbandoti con meditata cautela, ti liberavo inebriata del tuo rutilante desiderio. E, se talvolta destandoti, ti ritrovavi con la mano sul mio sesso, ero stata io che ve l’avevo adagiata perché il tepore della tua mano faceva sgorgare presto la mia rugiada. Non vedevo l’ora, quindi, che ti destassi dal tuo sonno di padre e mi vedessi come donna. Se c’è stata seduzione, questa è stata mia. E’ vero: mi sono accorta – fingevo di dormire – delle tue funamboliche traversie per deliziarti con la mia intimità. Non ci saresti riuscito, se io non ti avessi spalleggiato. Altro che resistere al tuo assedio: non vedevo più l’ora che finalmente facessi tue le morbide dune della mia femminilità! Mi ero adombrata, perché convinta che il tuo senso del peccato fosse più forte della tua passione d’amore, della tua febbre dei sensi. Non hai voluto entrare dentro di me! E io agogno sentirmi lacerare dal tuo maglio di carne. Non voglio che sia solo la mia mano a imprigionarti il sesso, ma le tumide labbra della mia vagina. Sono impulsiva, mi conosci, e ti volevo, ti voglio, subito. Ero certa che lì, nel parco, attanagliato dalla febbre divorante, avresti liberato le mie cosce, il mio mistero gocciolante, dalla cella dei jeans e, spingendomi contro il tronco dell’abete, come una donna, roso di passione, le mie gambe attorcigliate sui tuoi fianchi, avresti schiuso le inviolate labbra della mia intimità e prepotente calato il tuo stendardo. Ma, brusco, ti staccasti e nel mio cuore, col disappunto, calò la rabbia e il gelo. Che vuoi? Non sono ancora esperta dei silenzi d’un’uomo. Ora so, però, che mi ami come donna. Allora, fammi tua”.Lei parlava e l’abisso di disperazione e di sgomento che mi si era spalancato in fondo all’anima a poco a poco rinchiudeva le sue voragini, anche se un sottile sciame di sensi di colpa si agitava negli interstizi di quel dirupo che si ricomponeva. Scrutava ansiosa nei miei occhi l’effetto delle sue parole, indugiando ora su un’espressione ora sull’altra, per farmi capire quanto si fosse adoperata per farmi accorgere della sua passione di donna, non di figlia. Le sue guance si erano imporporate, quando confessò come la notte smaniava nel cercare e compulsare la mia sessualità. E quelle strie di fiamma la rendevano ancora più bella e più sensuale. “Fammi tua”, era una preghiera gravida di desiderio. Le sue mani raccolsero le mie, mentre si accosciava sul divano. “Perché non consideriamo oggi come il primo giorno del nostro matrimonio? E non è il dono della verginità che si offre al proprio sposo in questo giorno? Perché non vuoi che sia tua fino in fondo? Possono solo l’ardore, il fuoco delle carezze, i nostri sensi sfibrati dai nostri sessi sollecitati sino allo spasimo colmare il vuoto del tuo sesso che riempie il mio? So che brami scavare la mia carne, fare ruggire il mio ventre di vergine fanciulla. Il mio sesso conosce solo le tue dita, le mie, ma le sue rive anelano d’essere slargate dal tuo maglio, come il mar Rosso schiuse il suo ventre d’acqua al nodoso bastone di Mosè. Senti come pulsa, come brucia e si contrae mentre ti parlo e il desiderio incalza!”. Dice e le mie mani trascina sul suo sesso. Avvertii sopra la stoffa del jeans la vampa incandescente che da esso, sussultante come un cuore in corsa, irradiava con violenza. Mi sentii investire come da una scossa elettrica dal desiderio rutilante che mi invase intero. Erano accadute, dette, troppo cose, però, perché mi lasciassi trascinare da quelle febbre. Dovevo guardare, riuscire a visualizzare, dentro di me che cos’era quell’angoscia così poderosa da soggiogare quella voglia cocente di lei. No, non era uno scrupolo paterno, una remora per l’incesto: era qualcosa di più ancestrale. Il mio lungo peregrinare nei meandri della storia dell’uomo mi avevano reso abbastanza disincantato sui tabù, che nascondevano motivazioni umane, troppo umane. Non ho mai creduto che una giovane madre e suo figlio, un fratello e una sorella, una figlia e il padre – anche i libri sacri raccontano tali imenei – soli e sperduti in un’isola deserta, per sempre separati dal resto del mondo, sprangherebbero la porta ai loro impulsi sessuali e procreativi in nome di una morale ormai lontana. No, non era una remora morale, soprattutto dopo avere avuto piena cognizione che la decisione della mia adorata figlia di unirsi carnalmente a me non era stata per nulla suscitata da atteggiamenti o azioni da me perpetrati coscientemente. Era un’angoscia mortale, un gelo siderale, una sorta di presagio come di un sacrilegio nello scoperchiare la tomba di un faraone. Dovevo capire cos’era. Un desiderio struggente, incoercibile, di forzare quella strettoia lussuriosa di carne palpitante e nel contempo una gelida mannaia sepolcrale. La sentivo, infatti, come la lastra di marmo che piomba con rumore sordo e cupo sopra un loculo per l’eternità. Forse nel profondo volevo essere sicuro che l’amore incondizionato per il padre non la rendesse libera, così fanciulla, per un legame così profondo e irrevocabile. Già, irrevocabile come la morte. Non si torna più indietro dopo un incesto. Io volevo che non fosse tale, ma una atto d’amore libero tra uomo e donna, con totale scienza e coscienza. Capivo che la sensualità di mia figlia, la sua consapevolezza psicologica erano più avanzate di molte ventenni, tuttavia, se avesse avuto questa età, sarei stato certo della sua scelta di donna. La morte della sua adolescenza. Era questo che mi sconvolgeva? No, non era così. L’aveva detto lei. La sua innocenza, l’aveva ormai immolata già dodicenne, quando godeva dello strusciare delle mie mani sul suo sesso, l’aveva già fugata le notti che, furtiva, inanellava, facendolo innalzare, il mio membro nella sua piccola mano. Allora, da dove quell’angoscia davanti a quell’urna rigurgitante di voluttà infinite? Era indispensabile aspettare. “Figlia adorata, se il tuo sesso brucia come un vulcano, il mio s’erge come un obelisco etiope. Il desiderio di te è incandescente. Ma lasciamo – almeno io ne ho bisogno – un po’ di tregua alle nostre emozioni. Ho creduto d’essere un mostro e averti persa. E, immediatamente dopo, compreso che sei e sarai mia per sempre finché vivrò. E’ un cozzo di due oceani imponenti. Dammi una tregua. Tormentami – è uno strazio che delizia il cuore e la mia pelle – magari con le tue carezze, che senta scorrere stretto qui al tuo fianco le tue concupiscenti curve adolescenti e immaginare la tua sensuale nudità”. Fu una preghiera anche la mia e capii che in parte l’accettava. “Non ti libererai di me così senza ch’io lotti, anche se con armi più subdole e sottili, perché tu non retroceda dinanzi alla vertigine che il mio mistero di vergine e figlia ti fa caracollare. Te lo distenderò come un letto di stelle e, come i loro fiotti d’argento invadono il grembo della notte fonda, scivolerai in me come una lama di luce sfolgorante. Intanto, sai che faccio? Mi cambio e corro in cucina. Tu non ti muovere. Faccio tutto io. Una cena afrodisiaca, se trovo gli ingredienti”. Così, s’alza leggera, nuvola di sogno, fiamma guizzante in un camino acceso, turgido desiderio dei miei lombi. Io rimango, le spalle sprofondate e la testa rovesciata sullo schienale del divano, a contemplare il nulla. “Il nirvana, raggiungere il nirvana e l’atarassia”, mi dissi spalancando gli occhi nel vuoto. Ma era inutile. Fremiti scorrevano sotto la pelle come torrenti straripati, e, nella mente era un precipitare dai vari punti cardinali nel centro del cervello di fiumane ripide di immagini, pensieri, sensazioni, cocenti desideri. In un sipario rosseggiante di fiamme dirompenti da invisibili bracieri, nuova adolescente, Salomè, mia figlia, languida, danzava, mentre, un velo dopo l’altro fluttuando ai suoi piedi, svelava i turgidi e flessuosi contorni delle sue forme voluttuose. Se l’amore è follia, il mio sicuramente sapeva d’ossessione. Occhi, labbra, seno, ventre, fica, cosce, tutto mi danzava morbosamente reiterandosi con allucinante velocità nel proscenio della mia mente, frastornandola all’impazzire. Il nirvana, quando i sensi bollono come il magma di un vulcano e il tuo sesso urla d’inseguire il suono del flauto incantatore, il nirvana è solo per chi ha spento irriducibilmente nel cuore gli spasmi primordiali della vita. Non potevo più starmene lì ad ammattire. Spasimavo la sua presenza, il suo profumo fragrante d’ adolescenza. Era in cucina, come la mattina, infagottata in un cardigan in ciniglia a maglie, azzurro, e lungo sino a coprire lo slip bianco di seta merlettata. Stava impastando della farina ed era tutta presa o almeno così appariva a me che la guardavo dalla soglia dell’uscio. M’appoggiai con la spalla allo stipite e lasciai i miei occhi a contemplarla. Era bella e sensuale comunque si vestisse e si muovesse. Era una tentazione illecita anche per un asceta in odore di santità.”E’ quella la cena afrodisiaca?”, chiesi sardonico senza muovermi dall’uscio. Lei, quasi avesse visto dove stavo, non si mosse, né si girò. Rispose solo: “L’ingrediente essenziale sono io”. La voce gaia e calda. Echi di brividi trascorsero l’aria e investirono il mio corpo e una ragnatela di crampi artigliò il mio stomaco.”Ho cambiato idea. Sono troppo impaziente. E, poi, voglio provarmi a fare la focaccia come la fai tu. L’impasto deve essere pesto a lungo e bello morbido”. “Ma, perché non hai usato l’impastatrice?”. “Perché, per un poco di farina, dovevo sporcare quell’aggeggio, che per pulire ci vuole la pazienza che io stasera certo non mi ritrovo. Non venirmi vicino: non guardare quello che sto facendo, per motteggiare”. “Prenderti in giro: non lo saprei fare; divertirmi a vederti inzaccherare di farina e di pasta che ti si attacca pure sul naso, questo certo che mi dà diletto. Impiastricciata. Ti voglio vedere alla fine di questo impasto come sarai ridotta, bianca di farina, con schizzi di pane in pasta dappertutto e con tanto burro nella teglia da fare galleggiare la sfoglia. Poi, è da godersi il finale del pomodoro tagliato a pezzettini. Sarai alla fine tu una pizza margherita”. Speravo che reagisse. Adoravo quando s’inalberava, quando le sue guance diventavano multicolore. Invece, niente, non raccoglieva. “Non venire a vedere. Resta dove sei. Quando avrò sistemato tutto nella teglia, potrai guardare”. E io: “Ma a me piace vederti all’opera. Tu mi hai sempre guardato fare la focaccia. Fammi vedere te”, chiesi supplichevole. “Non ci provare. Poi, ho ormai finito di impastare. Devo solo stendere l’impasto sulla teglia. E, poi, che vuoi vedere? E il risultato che conta, la focaccia ultimata, fumante e pronta da mangiare. Non credere che ci voglia chissà quale arte per impastare un poco di farina”. Aveva realmente terminato l’impasto. Si spostò di lato e prese sul piano della cucina un rettangolo di burro per spalmarlo sulla teglia. Seguivo da lontano il suo da fare. Poi raccolse l’impasto e cominciò con la mano a stenderlo sulla teglia. “Ora posso venire a vedere?”. Ma, senza chiedere il permesso, m’ero già portato alle sue spalle. Sussultò sentendomi di dietro. “Sei peggio di un bambino. Non potevi resistere ancora qualche minuto!”. “Voglio solo sbirciare”. E sporsi il capo sopra la sua spalla per vedere come piallava l’impasto. Una piccola massaia, deliziosa. Con la sua manina pigiava qua e là perché la sfoglia risultasse livellata alla stessa altezza. Era seducente e tenera. La mia guancia s’appoggiò alla sua, poi le mie labbra la sfiorarono con un bacio. “Aspetta, ché ho finito”. Stava dando gli ultimi tocchi. “L’hai fatta lievitare bene? Se no non gonfia”. E le mie labbra si schiusero sul suo collo. Sentii la sua pelle abbrividire. “Certo ch’è lievitata. Non mi distrarre. Sei sleale. Come faccio a sistemare formaggio e pomodoro, se tu mi aizzi?”. “Non sto facendo nulla. Solo dei casti bacetti”. E intanto le mie braccia la circondarono sui fianchi, mentre, imperterrita, la mia bocca la frugava avida sul collo, dietro l’orecchio. Aveva appena stretto tra le mani un panno per pulirsi alla grossa dei residui attaccati alle dita dell’impasto, che le mie dita avevano artigliato sulla stoffa del cardigan i suoi seni. Lei non capì più nulla. Si abbandonò con la sua nuca sulla mia spalla e con le braccia rovesciate all’indietro allacciò il mio collo. Lentamente roteavo le mie mani su quelle colline con estenuante dolcezza. Il suo ansito avvampava il mio orecchio. Poi, incrociati i polsi, le dita della sinistra e della destra scivolarono sotto il tessuto per appagarsi delle nudità di quelle colline vellutate. I suoi capezzoli erano turgidi come corbezzoli. Le mie dita li strinsero e poi li stropicciarono con frenesia. Non resistette più. Si girò di colpo e la sua bocca risucchiò la mia, la sua lingua avviluppò la mia bramosamente. La sua gamba s’inarcò arpionando la mia coscia. Lasciata la sua bocca, le mie labbra cercarono il suo petto, ne scavarono l’incavo focose, poi, strattonato brusco il cardigan che si spalancò ricadendo lungo le spalle e le braccia per afflosciarsi per terra, scompigliarono quella dune di carne maestose devastandole di baci. Il suo pube scorreva smanioso sopra il mio. Le sue mani corsero alla mia cintura. Per istanti eterni la lasciai per liberarmi dei miei indumenti. Quando rialzai gli occhi era luminosamente nuda. La ripresi di spalle. Una braccio a scavare il suo seno che, turgido e pieno, sgattaiolava scivolando ora sopra ora sotto e questo aizzava di più il mio furore. L’altro braccio scendeva verso il suo ventre e, torrida, la mano serrò il suo sesso, rincorse le sue labbra di fuoco, stanò il suo rubino di piacere turgido come un piccolo pene. Il suo lamento mi estenuava il cuore. Il mio sesso come torre di marmo premeva sulle sue terga. “Prendilo, lo voglio, lo voglio, come tu lo vuoi. Vuoi il mio culo. Prendilo, entra nel mio buchino, entra lo voglio. Subito, presto”. E con le mani tentava vanamente di afferrarmi il pene. Ormai folle di desiderio la trascinai verso il tavolo della cucina e ve la rovesciai piegandola sul ventre, il seno eburneo a scacciarsi, come la guancia rovesciata, sul freddo piano del legno di ciliegio. Fuori da ogni remora morale, invasato, squassato dal piacere, adocchiai il burro ormai tutto ammollato e ne afferrai un grumo con le dita. Non si era mossa. Le gambe spalancate, che lasciavano esposta la ferita del suo sesso, schiudevano i glutei marmorei in mezzo ai quali fioriva il bocciolo grinzoso del suo ano. Le mie dita l’aspersero frenetiche di burro e, mentre con una mano spingevo sul suo fianco con l’altra indirizzavo la cuspide malva del mio sesso su quella tremula rosella. L’appoggiai. E si levò un lamento colmo di desiderio. Spinsi deciso e, come risucchiato, il mio membro si annidò tripudiante. E m’accorsi che lei non disdegnò l’irruente mastello che scandagliava le sue parti più lubriche. L’accolse con un gemito crescente, come se avesse agognato da sempre d’essere rovistata in quel tunnel inusuale. Accoglieva i miei testicoli che sbattevano vigorosamente sulle sue terga con voluttà. Si sollevò dal tavolo, sostenendosi solo con un braccio, per cercarli con l’altra mano con brama. Una volta sospesa, le mie mani brancicarono, tentarono di attanagliare interamente i suoi seni, ma la loro pienezza soda, quasi marmorea, sguisciante, mi impediva di serrarli appieno, di soffocarli di struggimento ebbro tra di esse. I suoi glutei si dimenavano inebriati sul mio pube, ma, ecco che i gorghi delle mie gonadi troppo eccitate premettero di uscire. Lei, dentro di sé, dallo spasimo del mio membro, lo comprese e con voce spezzata, impastata dalla libidine incalzante, gridò: “No, aspetta, ancora no, non venire, non venire. Non sono all’acme, non farmi più capire. Aspetta, aspetta, fammi godere ancora, ancora, di più ancora”. Vana la sua richiesta. I miei lapilli ambrati schizzarono prepotenti, mentre io, soffocandola tra le mie braccia, ancora dentro di lei, mi accasciavo sopra le sue spalle. Sublime. Era stato sublime, forse perché più proibito. O, forse, perché supplente del tunnel più agognato: la sua vagina.Mi ritrassi da lei, pronta a balzare a stringersi al mio petto, calda e appassionata, gli occhi sognanti. La trattenni innamorato tra le mie braccia e ne assaporai il calore. Tenera e mielata sospirò: “Ho goduto, goduto. Ma non ero ancora piena, placa. Vedi, quanto desideravi starmi dentro, che non sei riuscito a tenere a bada il tuo ardore. Se è stato tanto grande il godimento che mi hai donato in quella impropria grotta, quanto piacere invaderà il mio grembo, quando lo riempirai del tuo vessillo. Oh, come ti ho sentito nel profondo e il piacere ha raggiunto la mia gola. Se tu volessi ancora penetrare in quella stessa grotta, sarei appagata. Non verresti più subito e le onde di voluttà inonderebbero tutte le fibre del mio corpo. Ti piace da morire strusciare il tuo serpente sui miei glutei acerbi. Sento la sua protervia, l’arroganza che minaccia di ludibrio il mio buchino. Quella strettoia ti attrae torbidamente ed io ne godo quando ti sento ardere a ridosso. Lo vuoi ancora, vero? Anch’io lo voglio. Prendilo, tocca come pulsa d’essere aperto dal tuo fallo”. Abbassò la mano sul mio sesso e lo sentì già rifiorito. “L’immaginavo che già s’era rizzato, goloso di bearsi in quella grotta che lo serra stretto nel suo abbraccio”. Si lascia scivolare sul mio ventre, fino ad inginocchiarsi. Chiudo gli occhi e pregusto il suo regalo. La sua mano stringe come un brando il mio sesso e la sua bocca avida ne aspira dentro, e dentro lentamente lo sballotta, alternandolo in maniera esasperata, un testicolo. Il mio grembo impazzisce di piacere. La sua mano scorre sul mio sesso blanda, ma decisa. Le sue labbra cercano ora lui, la sua cuspide infuocata. Lo avvolgono ingorde. Non posso fare a meno di cingerle la nuca con le mani e spingerla su quel tulipano infervorato. Ecco lo lascia. S’alza, si gira. Allarga le sue gambe e reclina appena il busto, poggiando le sue mani sul bordo del tavolo. Non riesco a pensare, se non quello che lei indirizza. Inseguo solo le onde voluttuose che lei effonde nelle mie carni. Si abbarbica al mio fallo con la mano e lo spinge nel fondo della valle delle sue terga. La sente che si schiude, mentre geme. E’ lei che vi si spinge contro. Impaziente di desiderio bruciante resto immobile. E’ lei, soltanto lei, che impone il gioco. Il mio glande sprofonda la barriera. Sono tutto in lei. Comincia a dimenarsi sul mio pube. Mi scuoto dall’estatico torpore. La serro per i lombi e frenetico mi muovo dentro di lei. Ancora, ancora, ancora sempre più convulso. Mugola travolta dal piacere. Poi come un eco da lontano il suo grido lancinante, pieno di lussuria senza freno: “Godo, godo, godo! Oh, com’è bello! Sì, bello, bello! Vengo, vengo, il piacere mi bagna tutta, mi cola tra le gambe e nella ossa”. Sono demente. Un turbine di estatica follia, di godimento immenso. Lei sussulta come squassata da venti tempestosi, stordita da un piacere mai provato. Ci accasciamo tutti e due per terra. E il freddo dell’impiantito in marmo ci fa emergere dal turbine dei sensi. Carponi ci abbracciamo. Gli occhi lucidi, il volto in fiamme, le braccia illanguidite, ci stringiamo l’uno all’altra stremati, ma felici. Diceva Socrate nel “Fedone”: “Quale strana cosa sembra quel fatto che gli uomini chiamino il piacere! Come mirabile un suo naturale rapporto con ciò che sembra suo contrario, il dolore! Intanto, questi due fatti non ne vogliono sapere di trovarsi contemporaneamente nell’uomo; e poi, se si persegue l’uno dei due e lo si prende, ci si trova costretti a prendere sempre anche l’altro, quasi fossero attaccati, due come sono, ad un unico capo”. Ed era vero! Solo che nel mio caso deflagrava prima il piacere, per poi sopraggiungere il dolore, o, meglio, l’angoscia. Il nulla genere l’angoscia, sosteneva Kierkegaard. Una cosa analoga sosteneva, in altro contesto, Heidegger. Kierkegaard legava l’angoscia all’innocenza, in cui lo spirito dell’uomo è come sognante. “Sognando”, dice K., ” lo spirito proietta la sua propria realtà, ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede fuori di sé”. L’angoscia heideggeriana nasce dalla consapevolezza che prima di esistere siamo solo un ventaglio di possibilità, ovvero un niente di progettualità concreta, quindi nulla. Ora, uno ha paura di qualcosa di determinato, paura che ti rubino l’automobile, i soldi, e così via. Quando, però, ti trovi di fronte al nulla che ti assedia, quando sai che sotto il quotidiano vivere, non c’è una realtà consistente, l’anima, una realtà cosciente di sé, ancor prima che degli altri e del mondo ( questo intendono oggi coloro che difendono l’embrione: seppur larvata, l’embrione ha coscienza di sé. Che è una vera e propria idiozia. Un pensiero è sempre socialmente, storicamente determinato. Se non ci fossero gli altri, il loro modo di pensare e di agire, non saprei nemmeno di esistere. Ecco perché Heidegger, quando analizza la realtà dell’uomo in generale, parte da quello quotidiano, che incontriamo tutti i giorni per strada, quello che non ha un progetto suo, autonomo, autentico, ma l’uomo massa, l’uomo, che pensa e agisce come gli altri all’insegna del “si dice”, in quanto il suo modo di pensare e di agire lo ha ereditato da un contesto storico-sociale che gli preesisteva e in cui lui è stato “gettato”. La “gettatezza”, la deiezione, consiste nell’essere decaduto al livello del mondo, essere uomo-massa. L’uomo preso per sé, quindi non ha senso, figuriamoci un embrione, che non ha nemmeno un primitivo circuito neuronico. L’uomo heideggeriano, infatti, quando vuole isolarsi dalla massa, allontanarsi da quel mondo costituito di cose solide che gli danno sicurezza, ma, nel contempo, paura di perderle, ecco che si trova di fronte al suo reale se stesso, il ventaglio di possibilità, un nulla di progetto, il niente. E, davanti alla consapevolezza che la sua realtà più profonda è una non realtà, il nulla, il terreno della certezza gli frana sotto i piedi e sprofonda nell’angoscia), ecco allora dilagare l’angoscia davanti alla presa di coscienza dell’inutilità della vita, del suo non senso, dei suoi progetti, che sono sempre progetti nulli, perché, quando meno te l’aspetti, arriva la morte a troncarli. Vieni fuori dal nulla e finisci nel nulla. No, l’angoscia mia non era quella heideggeriana, annichilante e pericolosa. E nemmeno kierkegaardiana. Io non ero innocente. Innocente era il nostro amore. Io avevo colto il frutto dell’albero proibito dalla società, non avevo fatto nulla per sottrarmi all’abbraccio appassionato della figlia. Innocente era il nostro amore, ma, noi in quanto parte di una società civile, avevamo dato un calcio ai loro valori e tabù, ponendoci sullo stesso piano degli dei. L’angoscia subentrava in me dopo ogni atto sessuale con mia figlia. In quel silenzio, accarezzato dalle onde che si placavano della irruenza erotica e passionale che ci aveva travolto, vidi ancora una volta un’ombra ridente accovacciarsi accanto alla figlia e gravante anch’essa sulla mia fronte, tale e quale lei. Rideva, questa volta, rideva, con una espressione di rivincita e, distintamente, in un sussurro di gelo, sentii schizzare nelle mie orecchie queste parole: “Stai già scontando, Astofet attende”. Certo che non era stata mia figlia a parlare, eppure osai domandarle. “Che hai detto?”. Lei spalancò quelle orbite ripiene di cielo e ammalianti, le alzò languide verso di me, ancora rapita dalle sensazioni roventi, che l’avevano travolta: “Nulla, voglio stare solo per qualche minuto, qui, tra le tue braccia, ascoltare il canto del tuo cuore, il tepore appassionato delle tue braccia”.”Anche a me, tesoro, ma sul divano, che ne dici? Il marmo è gelato e, se staremo ancora buttati qui per terra, ci prenderemo una polmonite. E, la focaccia? Si sarà passata di lievito. La puoi rimpastare, metterci pomodoro, mozzarella e origano e infornare. Avrà la friabilità del panettone”. Ci rialzammo, ci rivestimmo e, mentre io mi indirizzavo verso il salone, lei si dava da fare per allestire la focaccia. IV Pensavo. In quella giornata non facevo che schiumare di desiderio, scompigliare mia figlia di arditezze erotiche e pensare. Certo, oggi che sono in cura in questa clinica psichiatrica, si può tranquillamente dire che le mie erano fantasie, ipostatizzazioni del mio senso di colpa per una fanciullezza filiale trafugata. Che affermavo il tabù essermi estraneo come valore, ma che era introiettato in me, da indurmi a delle rimozioni così forti tanto da farmi sentire delle voci, le voci della mia coscienza. Pure io, allora, volli convincermi di questo, ma non era così. “Ci sono cose tra cielo e terra più di quanto non ne sappia un filosofo” ed io avrei dovuto tenere presente tale considerazione. E l’angoscia? E il freddo polare che mi investiva ogni volta che quella sorta di doppio umbratile mi avvicinava? Tutto frutto della mia immaginazione sconvolta dal “peccato”? Ma, perché mia figlia si doveva sdoppiare. Forse il suo ardore, il parossismo della sua sensualità era tale da proiettare il suo ectoplasma esteriormente per attingere prima dalle coppe dell’amore di suo padre quel nettare lattiginoso che voleva colmasse il suo ventre palpitante di infuocato desiderio? Ma che dico? Queste sì che sono farneticazioni. Io ero ormai cosciente che ero legato anima e corpo come per una malia demoniaca a quello scrigno di carne devastata dalla lava della passione. Proprio perché adolescente lo struggimento, il fuoco diventavano immensi. Gli ormoni che danzavano nelle sue vene dionisiache, la curiosità fanciullesca, e perciò irrefrenabile, di conoscere il maschio, l’idolatria per il padre e la totale incuranza del tabù dell’incesto rendevano la femminilità di mia figlia una pandemia di lussuria irrefrenabile, che non poteva non travolgere un uomo che era perdutamente innamorato di quella divina creatura. Sì ero innocente, ma ero angosciato. Perché non mi aveva inquietato – tutt’altro – sodomizzarla, mentre, infrangere quella vestale verginità mi sconvolgeva come se invece delle porte del suo sesso, avessi dovuto varcare le porte di Dite? Avrei voluto rimandare all’infinito quel momento. Forse che non mi deliziavano più dell’immaginabile le delizie che lei mi regalava con le sue labbra, le sue mani e le mirabili, rutilanti forme della sua femminilità? Ma so che quel momento diventava sempre più improcrastinabile, che lei non avrebbe aspettato ancora maggiori indugi.Il flusso dei miei pensieri fu interrotto da lei che faceva il suo ingresso trionfale con una fumante focaccia. Si vedeva l’orgoglio per quella sua prima esperienza di massaia. Effettivamente era venuta bene. Cenammo, bevemmo un po’ di vino, lei si servì pure qualche cioccolatino. Ed eccoci nuovamente insieme su quel divano galeotto, lei reclinata, testa e spalle, gravante sul mio petto, le sue gambe rovesciate sopra le mie cosce. Ogni tanto il suo piede, conscio o meno, finiva per ricadere sul mio sesso.”Questa notte devo essere tua. Nessun indugio più ti è concesso, a costo di strapparti il tuo aggeggio e infilarmelo da sola. E’ la notte di nozze. Nessuno sposo viola questo precetto: sverginare la sposa. Non appenderò al balcone il lenzuolo insanguinato, ma lo custodirò come un oggetto sacro. Ti ho dato tutto di me e te lo darò ancora quanto e quando vorrai, ma mi devi rendere donna, facendo tua quell’urna che mi rende vergine vestale. Voglio dissolvermi nel godimento che mi dispenserai rovistando con prepotenza le mie grotte che lo spasimano all’estremo. Voglio sentirmi morire sotto il tuo ventre. Sì, che io muoia, arcangelo dalla spada fiammante, nel vederti avanzare nudo e prepotente nelle braccia, nelle mani, nel petto vigoroso, nel rigoglioso bosco dall’ariete arrogante.Ch’io muoia trafugata come Kore, ma sul tuo cocchio di sole, ch’io muoia sì dopo che la tua vampa ha svaporato di passione le mie carni, ch’io muoia dopo che il tuo marmoreo petto ha deglutito, fervido, il mio, ch’io muoia dopo che le tue braccia si sono fatte serti di alloro attorno ai miei fianchi, e le tue mani incastonino i miei seni e le tue labbra succhino la linfa delle loro fragoline adolescenti, ch’io muoia dopo che la mia bocca ha trangugiato la vischiosa delizia del tuo sesso,ch’io emetta i miei ultimi singulti rantolando di voluttà senza confini dopo che il tuo membro bramato ha infranto i miei intatti cancelli e, ruggendo il suo insaziabile furore, sbalzi dal letargo verginale i demoni che squassano il mio ventre e, menade ormai priva di senno, prostrata e affrantasolo di piacere, sul tuo brando arrossato dal mio sangue, con la mia vita immoli il mio respiro”. Morire, lei voleva morire di piacere. Vivere, non morire di e nel piacere.Brividi solcarono di ghiaccio la mia schiena e la suggestione delle sue parole non inarcò questa volta il mio sesso.Le sue parole mi furono sussurrate sul petto con la vampa di un vulcano in eruzione. Non sollevò il viso verso il mio sguardo. Fu come se l’avesse confessato a sé e al mio cuore, quasi con un certo riserbo, un celato pudore o una segreta paura che tutto svaporasse d’improvviso, che, passata la torbida tempesta dei sensi, il padre oscurasse l’uomo e ricadesse nello scoramento e nel raccapriccio per l’incesto perpetrato. Era un fissazione edipica, era un essere rimasta all’epoca in cui si stringeva così forte al mio collo mentre la tenevo in braccio, come se volesse assorbirmi tutto in sé, come se gridasse a tutto il mondo:”Voi non ci siete. Mio padre è tutto mio!”? O era un amore, nel senso più pieno della parola, per l’uomo? E, se era così, perché io dovevo scacciarla dai miei pensieri e dal mio letto come ardente e tenerissima amante? Peccato, peccato! Ma cos’era peccato? Quale male potevamo arrecarci l’un l’altra amandoci appassionatamente con l’anima e col corpo?”Figlia mia adorata, che io t’ami è un fatto così accecante che non bisogna di commenti. Ho violato le tue terga e ne ho tratto un godimento estremo. Però è come quando ti sazi di un dolce ambito che ti lascia il retrogusto dell’amaro. T’ho violata in quel segreto anfratto che i tuoi bellissimi glutei riparano perché ancora una volta il tuo imene di fanciulla ha stornato il mio sesso che era smanioso di lacerarlo. Tu hai creduto che il tuo vallo più stretto mi seducesse più delle rosee labbra del tuo mistero, come tu lo chiami. No, bambina mia. – Vedi, però, come un brivido m’assale quando dico “bambina mia”? – E come se avessi commesso un sacrilegio, violato un luogo sacro, dilaniato l’innocenza. Come potrà più una figlia ritrovare uno scudo certo nel padre, se il padre gode dei frutti acerbi della figlia e non sa preservarle dalle sue brame ancestrali? Tu sei così bella, così sensuale, che una pantera arretrerebbe di vergogna di fronte alla sinuosità felina delle tue forme. Penso, quando ti guardo, che il sole, la luna e ogni stella che poggino un solo raggio sul tuo viso, sul tuo corpo nudo, rimangano abbagliati, folgorati e sedotti dalla tua bellezza. Pensa il mio sguardo di chi è solo un uomo. Tu hai ammaliato ogni cellula del mio corpo, l’hai fatta prigioniera, il desiderio di te come lava mi cola nelle ossa e brucia le mie carni, eppure… eppure la feritoia accarezzata, serrata, compulsata e tanto agognata del tuo ardente colle, quella feritoia mi fa paura, no, meglio, mi soffoca d’angoscia. Nel mio inconscio, forse, sono convinto che tu voglia immolare all’amore del padre l’intatta bocca che ti fa fanciulla e vergine vestale, quasi un novello Abramo che propose al suo dio, vittima sacrificale, il figlio per rivelargli l’immenso amore. Ma Dio, proprio in nome di quell’amore estremo, respinse inorridito il sacrifico. E, non è forse quest’amore estremo che tu doni, quello che mi sbarra l’accesso a quella soglia che disperatamente bramo? Sì, un sacrifico che per l’immenso amore tu innalzi al padre e alle sue voglie che come padre dovrebbe rifuggire”. Alzò lo guardo, questa volta, verso il mio viso. Gli occhi esplodevano di luce e di bagliore: imploravano solo di assorbirla. “Io t’amo più della mia vita come padre e più della mia vita come maschio. Vi ho fusi tutti e due. Come padre t’ho incontrato nell’istante che emisi il mio vagito che s’apriva al mondo, come maschio t’ho incontrato subito dopo e t’ho coltivato istante per istante, come una pianta rara e bella che si accudisce con trepidezza e amore giorno per giorno. Mi sentivo moglie quando ero appena bambina e non capivo che per diventare tale dovevo averti in me con il tuo sesso. A dieci anni mi vedevo di già donarti un figlio. Infine il desiderio rovente di stringere il tuo sesso tra le mani, di raccoglierlo, anelante, tra le labbra, di sentirlo rovistare nel mio grembo, divenne furia cieca, logorante, che mi stava divorando come un ciocco tra le fiamme del nostro camino. Io ti voglio, il corpo ammollato, i seni gonfi e frementi, la mia grotta aulente di miele dorato. Ti voglio, sdraiata, le cosce imploranti, mollemente stese sulle tue tremanti sotto la rupe che fiera sospinge la cella crudele dei tuoi calzoni. Ti voglio, il mio pube sussulta, langue nell’attesa del tuo assalto che laceri la mia vergine collina. Non resisto, ti voglio. Non tenermi sospesa in questa torrida voglia, che m’invasa e mi strugge. T’accarezza il mio sguardo, la mia bocca t’invita.Questa vergine è stanca e chiede il trapasso che la renda donna, ridente, gemente, del tuo seme che stilla”. E il sospiro divenne un singhiozzo soffocato, le sue labbra increspate d’arsura tremolarono come barbagli di stelle, protese come un abbraccio disperato verso le mie, che, come attratte da un irresistibile campo magnetico, scesero sulle sue. Un uomo e una donna. Solo un uomo e una donna travolti da una passione incontenibile, più travolgente dei torridi simun africani. Un bacio struggente, affannoso, vorticante, infinito. “Portami a letto, entra in me, fammi tua per sempre”. Una implorazione sospirata sulle mie labbra, un lamento estenuato di passione struggente che sancì la mia capitolazione di padre. La raccolsi tra le mie braccia, corpo caldo e palpitante, e, alzatomi, salite le scale con lei in braccio, la adagiai sul letto della nostra camera. Certamente quella volta fu solo un’impressione, durata quanto lo sbattere d’un’ala di farfalla, che solo per un attimo, soltanto per un attimo gelato nell’eternità, bloccò il mio respiro. Un’ombra più trasparente del pulviscolo dell’aria che si adagiò all’unisono con la mia diletta figlia, sotto di lei, sulla coperta. Ma la visione del corpo nudo di Eleonora, della mia bellissima, radiosa, sensuale, raggiante di passione, Eleonora, dissolse all’istante quella parvenza e ogni nebbia d’angoscia nel mio cuore. Nudo, rimasi in ginocchi accanto al suo bacino a contemplarla, lo sguardo incredulo. Non credo che mai tanta bellezza possa incarnarsi in un corpo di donna, sia pure adolescente, quando le forme sgrossate da poco rifulgono di bellezza come un bocciolo di rosa spolverato dalla brina della notte. “O figlia mia sei così bella da stordire, da stregare, da avere pure il riverenziale timore che il semplice sfiorarti possa in qualche modo offuscare la tua bellezza. Bagnarmi nell’azzurro dei tuoi occhi mi pare di violare il cielo più terso là dove non lo toccano i miasmi dell’inquinamento, stordirmi su quelle dune marmoree e vellutate dei tuoi seni è come se volessi attentare, scalfendole, alla purezza delle linee della Venere del Botticelli. Bearmi del tuo pube che sembra una collina abbacinata dall’aurora dorata dai primi lucori del sole con una bambagia di cirro che ne accarezza il manto, è come dissacrare un bosco sacro mai lambito da passo d’uomo. Eppure, nello stesso tempo, sento una vampa attraversarmi intero, come di fronte ad un tesoro sfarzoso di gemme e di gioielli in un scrigno intarsiato di diamanti, che aspetta solo di essere raccolto solo da me”. “Padre, ti prego lascia ai libri per ragazzine queste parole e amami”. Mi gettai su quella ruggente nudità avidamente e fu solo follia, selvaggia, incontinente, distruttiva nel fuoco della passione e di una libidine senza confine. Entrai in lei come aveva così agognato e mi cadde in deliquio dal piacere, quando il mio seme irrorò le sue grotte brucianti. Ma lei lo volle ancora e lo aizzò con le mani, coi seni, con la bocca perché si inturgidisse ancora e ancora e sprofondarlo con insaziata voluttà dentro il suo grembo. Ma mi parve a poco a poco che le parole che andava mormorando recavano l’eco d’un supplizio lontano pregno di voluttà. La sua voce, la sua voce di fanciulla si fece più piena, più roca, più scabrosamente sensuale, i suoi seni si erano ammorbiditi come quelli di un’adulta, più grandi e soffici, i capezzoli erano diventati più carichi di rosa e più gonfi non di passione, ma come di una donna che ha allattato un infante. E il suo sesso mi sembrò più pieno, più grande, più capace. I suoi modi di baciarmi, di stringere, di richiedere il mio era da donna esperta. Il piacere che intanto mi dispensava allagava il mio corpo e la mia mente come un mare. Giochi sottili al limite dell’osceno aizzavano le mie pulsioni sempre più a osare e lei, da figlia appena iniziata al gioco dell’amore a navigata cortigiana, tutta tesa a sfibrarmi con le emozioni erotiche più devastanti. Fu, quando si ritrovò a cavalcioni sopra di me. Fu, quando mi sentii il cuore sull’orlo dell’infarto dilaniato dagli insopportabili piaceri dei sensi, fu, quando sentii la sua voce esasperatamente sensuale e insieme incalzante in questa esasperazione, quasi allucinata, con toni concitati di crudeltà. Fu allora che tentai di emergere dall’oceano dissolutore del piacere e, spalancati gli occhi, indirizzai lo sguardo verso la menade scatenata in un forsennato dimenarsi sul mio pube, mentre le sue dita artigliavano in maniera lasciva i suoi seni. Furono i capelli a colpire per primi i miei occhi. Neri, più neri della notte più profonda, lisci e fluenti come una colata di pece, come quelli della mia defunta moglie. Ma cos’era accaduto? Era diventata più alta? Il volto, il suo volto non era più quello della figlia adolescente, ma di una donna adulta: il volto della madre. Rimasi annichilito, ero sicuramente impazzito. Il piacere così dilaniante aveva provocato uno sconvolgimento di follia nella mia mente. No. Abbandoniamoci a questa follia, follia solo di un piacere immenso. Però, gli occhi, le sue pupille azzurre erano diventate nere più del giaietto e fiammanti come due carboni accesi e mi trafiggevano in quel vorticare del suo corpo su di me con compiaciuta vittoria. Un trionfo, il suo trionfo, e la sua postuma, atroce, incommensurabile vendetta. Era il demonio che in forma di donna, nella incarnazione più compiuta della lussuria, mi sovrastava spietata, accelerando sempre di più la sua razzia sopra il mio sesso. “Godere, hai voluto solo godere tu, non amarmi. Ecco stai godendo come mai avresti pensato di godere, ma l’amore, quell’amore che mi hai negato, ora lo perderai per sempre. Schizza, devi schizzare, l’ultima goccia di quel seme che mi hai costretto a glorificare come se fosse il nettare di un dio, senza una sola stilla d’amore vero, come quello che con gioia t’ho donato. Questa goccia che sto per strappare, già lo sento, dal tuo membro che insegue le sue voglie e non il tuo sgomento, darà tregua all’ombra mia che vaga da tanto tempo folle, senza pace. Con quella goccia tu la perderai. Lei, la tua idolatrata figlia”. Si dimenò più forte, carpì i miei testicoli sfregandoli tra loro nelle sue mani. Sentii lo spasimo del mio pene dentro di lei, mentre, ecco, risorgeva, dinanzi ai miei occhi inorriditi, la figlia idolatrata nella sua più trasumanata bellezza che mi baciava con uno sguardo carico d’amore che nemmeno tutti i serafini del cielo nel loro insieme sarebbero riusciti a ricomporre, che urlava un piacere supremo e la gioia adorante del dono di se stessa che aveva regalato l’estasi al padre. Fu solo un grido: “Ti amo, ti amo, sei la mia vita!”. Si portò i piccoli pugni chiusi in mezzo al petto e si accasciò di botto, senza vita, sopra il mio. No, non sono pazzo. E’ da un anno che sono rinchiuso in questa camera d’una clinica psichiatrica, tenuto sempre a vista. Dicono che mi hanno trovato inginocchiato ai piedi del letto digrignando i denti, piangente, e urlando, con ululati da lupo ferito a morte, che lei, mia moglie, la defunta Eleonora, avesse ucciso mia figlia, la viva, giovanissima, Eleonora. Dicono che diciannove anni prima ero rimasto traumatizzato per la morte della mia compagna, di cui ero perdutamente innamorato, né potei consolarmi con la figlia da essa partorita, nata morta, perché soffocata dal cordone ombelicale. Che le cure prodigatemi mi avevano tenuto in una apparente tranquilla accettazione della tragedia subita, tanto da continuare a permettermi l’insegnamento. Ma che un anno fa deflagrò in tutta la sua violenza un dolore così lungamente represso, replicandolo in tutto il suo turgore, indirizzandolo ad una figlia morta tra le mie braccia. Che nessuno s’era accorto mai che da diciotto anni vivevo con la lucida follia di una figlia vivente nel chiuso della mia grande dimora. Che quanto mi sono costruito è stata la necessità di sopportare il dolore incommensurabile della sposa persa. Una figlia che la sostituisse poteva permettermi di continuare a vivere senza impazzire del tutto. Che, quando, per motivi che solo il mio inconscio conosce, ho preso coscienza che mia moglie era morta con mia figlia, la mia mente non ha sopportato il marasma di questa tragedia e quel che rimaneva del mio sentire logico è dirupato nella follia totale. Che ho ripreso una relativa coscienza qualche giorno fa, quando in lacrime gemevo: “Eleonora me l’ha tolta, Eleonora me l’ha uccisa”. Loro pensano che parlassi della figlia che m’ha tolto la madre. No, non capiscono che è il contrario. E’ la madre, che, per vendicarsi, m’ha strappato la figlia. Non sono pazzo. Loro non hanno visto la mia bambina giorno per giorno crescere e gioire con me e per me. Loro non sanno ch’era diventata la mia sposa. Del resto, la verità è quella che credono gli altri, mai la nostra. Puoi gridare, fino schiumare, la tua verità, ma, se gli altri sono convinti del contrario, è quella loro che s’impone. Che mi tengano pure prigioniero in questo covo di alieni, guardato a vista. Voi che mi leggerete sapete che dico il vero: la mia Eleonora, mia figlia è stata la mia sposa, pur se per un giorno solo, la mia piccola, radiosa, vergine sposa. Io, tra poco, la raggiungerò.
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