Capitolo 1Il buio era totale: le nubi, alte nel cielo, consentivano soltanto il passaggio di qualche sfarfallio isolato proiettato dalle stelle più lucenti.In quell’ora tarda della notte, anche gli animali notturni avevano concluso il loro lavorio e nel consueto, assoluto silenzio si apprestavano a far ritorno nelle sicure tane.I rintocchi della piccola campana della cappella si diffusero improvvisamente limpidi nell’aria rigida annunciando il Mattutino.Per gli abitanti del piccolo villaggio, duecento anime in tutto, quei rintocchi significavano soltanto che era nuovamente giunta l’ora di svegliarsi e di abbandonare i tiepidi giacigli di foglie di pannocchia per incominciare al più presto, l’ennesima, interminabile, bestiale giornata di lavoro.Le oltre cento suore del convento di clausura, invece, erano già tutte in piedi. Pronte, con indosso il ruvido, informe saio nero, paludate nei loro rigidi ed ingombranti copricapi di candido lino inamidato, aspettavano, serene, l’inizio della giornata.Ognuna, nella sua microscopica, scarna e gelida cella, era in attesa, per uscire sul corridoio, che la Madre Badessa, passando, bussasse alla porta. Quello era il segnale che la clausura notturna era terminata e che dovevano recarsi nella cappella per assolvere il primo Ufficio della giornata: la recita del Mattutino. Giunta alla porta del Domitorium, la Badessa si fermò nell’attesa che tutte le consorelle avessero occupato il giusto posto nella duplice fila; intonò, con voce ferma e cristallina un inno e, con passo lento e solenne, si avviò verso le scale che conducevano alla piccola cappella. Chiudevano la doppia fila dieci novizie. Erano per lo più giovani donne che non avendo ancora preso i voti, in teoria, potevano ancora rinunciare a entrare nell’Ordine per tornare nel mondo secolare. In teoria: in pratica, non era affatto così. Una volta entrate lì dentro, era molto più facile uscirne da morte che non da vive. Le novizie indossavano soltanto un saio marrone scuro, piuttosto sdrucito, stretto in vita da una corda zeppa di nodi, di giorno utilizzata come cintura, di notte, molto spesso, come cilicio. Le loro teste, prive di velo, erano quasi completamente rasate in segno di rinuncia alle vanità del mondo esterno. Passando davanti alle strette finestre del corridoio, una testa priva di veli si sollevò, voltandosi a guardare verso l’esterno; verso quel mondo al quale era stata costretta o forse sarebbe meglio dire, condannata a rinunciare. Fuori era ancora completamente buio, dalle piccole schegge di vetro colorato delle finestre non filtrava alcuna luce. Soltanto in lontananza, dietro l’orizzonte, incominciava ad intravedersi il pallido chiarore del giorno che stava per sorgere.Uno struggente sospiro sfuggì dal petto della giovane donna. Quella che la precedeva nella fila, si voltò, contravvenendo, anch’essa, alla ferrea Regola. Gli sguardi delle due ragazze s’incrociarono per un breve attimo. Non ebbero bisogno di parole e non ebbero vergogna di mostrare, l’una all’altra, le lacrime che sgorgavano copiose dai rispettivi occhi.Consce del grave crimine commesso, le due ragazze ripresero immediatamente il canto, con la testa china e le mani giunte all’altezza del mento, sperando che nessuna consorella si fosse accorta che invece di rimanere concentrate nel canto di preghiera, avevano osato rivolgere un pensiero di rimpianto verso il mondo esterno irto di pericoli per la loro anima.Speranza vana. La Badessa, custode e detentrice di tutti i poteri all’interno del monastero, sottoposta teoricamente soltanto all’autorità del Vescovo, si era accorta che in fondo alla duplice fila, per qualche istante, l’intensità del canto era diminuita. Immaginò, sapendolo per esperienza diretta, cosa fosse accaduto; ne prese nota, per l’imminente futuro, continuando a procedere senza tentennamenti nel passo o incertezze nella voce. La sua storia di donna sepolta viva nel monastero, era in sostanza uguale a quella della maggior parte delle sue disgraziate consorelle costrette dalla fame, dai tempi, dalle famiglie ad entrare in quell’ordine monacale. Lei, nella sua sventura, era stata soltanto più fortunata delle altre; immensamente più fortunata. Figlia secondogenita del Vicario del contado, era destinata, fin dalla nascita, ad essere la Badessa del Monastero di clausura, così come il minore dei suoi fratelli era destinato ad essere l’Abate dell’Abbazia: tutto per mantenere i centri di potere entro l’ambito della famiglia ed accrescerne le ricchezze.Aveva fatto il suo ingresso in monastero, all’età minima consentita da quel particolare Ordine: diciotto anni. In considerazione della potenza e ricchezza della famiglia della ragazza, le alte gerarchie dell’Ordine ed il Vescovo in particolare, si erano prodigati a spianarle la strada e farle compiere una rapida ed immeritata carriera fino ad elevarla al rango di Badessa già all’età di venticinque anni. Ora ne aveva quasi trenta. Il suo animo, una volta bello come il suo volto, col tempo si era inacidito. Era diventata cattiva, colma di odio e rancore verso tutti e verso il mondo che l’aveva costretta a diventare la guardiana di quelle perfide, pettegole, inutili donne e a condividere con loro quella maledetta vita in quell’ancor più maledetto monastero. I sogni giovanili della giovane castellana, Badessa in pectore, erano stati ben altri. Nel castello paterno, da dietro gli arazzi che mascheravano le porte di acceso al salone dei ricevimenti, spiava i volti e le figure dei cavalieri invitati alle sontuose cene che il padre era solito imbandire per mantenere stretti i legami con i suoi vassalli. Molti erano anziani, altri, invece, erano soltanto invecchiati prematuramente dalle campagne militari e dalle molte battaglie; altri ancora, ed erano la maggioranza, stavano appena affacciandosi alla vita da adulto; questi, erano gli uomini che la facevano sognare. Giovani, alti, aitanti, convinti di poter conquistare il mondo. Nelle lunghe serate d’inverno, sedute davanti al grande camino della sala riservata alle donne, la giovane futura Badessa ascoltava affascinata le dolci storie d’amore che le fantesche raccontavano per riempire il lento trascorrere del tempo. Storie ricavate dalla mitologia; da fatti accaduti in posti lontani; a persone conosciute, ma che, ormai anziane, non avevano più altro che i ricordi, per far parlare di se. Storie gonfiate, ingigantite; in cui tutti i sentimenti erano portati all’eccesso. Storie d’armi e d’amori in cui le armi erano sempre brandite da braccia invincibili; gli amori, immancabilmente contrastati, erano struggenti ed eterni. Lui era bello, alto, forte, giusto, onesto, spesso povero; lei bellissima, bionda, dolce, delicata, sensibile, qualche volta figlia di un ricco signore; per lo più moglie infelice di un vecchio, ricchissimo satiro.Di varianti, in queste storie, ce n’erano tante, ma tutte, alla fine, rette da un denominatore comune: l’incontenibile amplesso tra i due protagonisti. I racconti ingigantivano l’immenso piacere che le belle di turno provavano nell’essere infilzate dal grosso ed instancabile membro del cavaliere. Ogni fantesca, si sbizzarriva nel raccontare questo momento a modo suo, cercando di rendere ogni storia sempre più piccante ed erotica; ma tutte, anziane e meno anziane, finivano per rimpiangere e sospirare sui bei tempi andati in cui, dietro ogni angolo buio, c’era un bel cavaliere pronto ad alzare loro le gonne e penetrarle in tutti i modi possibili. Su queste storie la nostra giovane lavorava di fantasia, sognando di essere rapita dal prode guerriero di turno, che finalmente la estirpava dalla noiosa vita del castello. Nelle sue sfrenate fantasie notturne, nascosta allo sguardo di tutti dai pesanti tendaggi del baldacchino, riviveva, in solitario amore, i languidi sguardi, le dolci carezze, i focosi baci, i furenti amplessi raccontati in tutti i particolari dalle impudiche fantesche.Con il passare del tempo, il suo corpo reclamava attenzioni e sensazioni sempre più forti: la sola fantasia non era più bastevole a soddisfare i suoi potenti istinti animali. Nuda, nella sua alcova, la ragazza avvertiva l’inadeguatezza delle carezze che da sola elargiva al suo corpo; il desiderio che altre mani le accarezzassero i seni, le cosce, le natiche, il sesso, si faceva sempre più prepotente. Fu allora che pensò di coinvolgere nei suoi notturni giochi erotici, la sua giovane ancella personale, di pochissimi anni più grande di lei. Non impiegò molto ad elaborare ed attuare un piano per rendere la serva ancora più docile al suo perverso volere. Accusandola falsamente del furto di un anello di scarso valore, urlò e sbraitò minacciando la ragazza che l’avrebbe denunciata al padre. Logicamente, a nulla valsero le dichiarazioni di innocenza che la fanciulla balbettava tra le lacrime. Colpevole o meno, un’accusa del genere avrebbe, comunque, comportato conseguenze gravissime per lei e per tutta la sua famiglia. Nel migliore dei casi sarebbe stata scacciata con ignominia dal servizio, lei e i suoi familiari che lavoravano al castello; nel peggiore, almeno per lei, si sarebbero aperte le porte della prigione, senza processo e senza sapere quando ne sarebbe uscita. La giovane signora, certa che ormai non avrebbe ricevuto nessun diniego, si mostrò magnanima e condiscendente: avrebbe taciuto sulla scomparsa dell’anello, finché l’ancella avesse ubbidito senza storie a qualsiasi ordine.La sera stessa, mascherata alla bell’e meglio in modo da sembrare un maschio, l’ancella impersonò il Cavaliere Errante che carezza, bacia, lecca il corpo della giovane bellissima principessa. Certo, mancava la penetrazione, ma quelle carezze, fatte da un’altra mano, erano molto meglio di quelle che la futura Badessa si elargiva da sola; e quella lingua, guizzante sulle sue grandi labbra, sul suo clitoride, intorno al suo ano, dava molta, molta più soddisfazione delle sue dita.Continuò a sognare i maschi, ma era sempre più soddisfatta ed appagata da quello strano rapporto saffico. Con il tempo, i gusti della viziosa giovane cominciarono a subire dei lievi ma fondamentali cambiamenti: non si limitò più ad impersonare soltanto la bellissima principessa; sempre più spesso reclamò per se il ruolo di Cavaliere. A volte dolce e premuroso, a volte, e sempre più frequentemente, duro ed autoritario.L’ancella cominciò a temere l’arrivo della notte. Non sapeva mai chi o cosa volesse fare la sua padroncina. Sul corpo, sempre più spesso, le restavano i segni di quando la padrona impersonava il rude cavaliere che rapiva la bella fanciulla. I segni dei pizzicotti, dei non troppo scherzosi sculaccioni che doveva assolutamente farsi dare prima di accondiscendere ad aprire le gambe, erano sempre più evidenti e dolorosi. Sempre più di frequente la povera ragazza doveva impersonare la nobile dama che non voleva sottostare alle attenzioni del vecchio marito o del malandrino che l’aveva sorpresa, da sola, a passeggio nei boschi. Quando le annunciava che, quella notte, avrebbe dovuto recitare il ruolo di uno di quei personaggi che ormai odiava, la ragazza sapeva di doversi aspettare una notte di sofferenze. L’ordine tassativo era di disobbedire a qualsiasi comando le fosse dato, cosicché la padroncina era costretta a dargliele di santa ragione per farsi obbedire. Nonostante che il terrore di venire scacciata la inducesse a sopportare, senza opporsi, qualsiasi punizione, spesso veniva legata saldamente al letto, nuda, e, secondo la posizione in cui si trovava, supina o pancia sotto, una sfilza di violente scudisciate sui seni o sulle natiche segnavano finalmente l’ora di mettersi a dormire. Come c’era da aspettarsi, arrivò la volta che la giovane viziosa passò il limite; la volta in cui, i suoi genitori, decisero che era indifferibile la sua entrata in convento, pur se nel modo privilegiato che tutti ebbero modo di constatare.La sorella più piccola di sua madre era gravida; anzi, era giunta al momento del parto. Tutto il castello si era radunato in prossimità del ponte levatoio per vedere l’arrivo del gran dottore dalla città. La mammana del castello non era sufficiente per la cognata del Signore, che, si sussurrava insistentemente, fosse anche il padre del nascituro.Il Dottore arrivò con un gran codazzo di allievi, munito di un incredibile quantitativo borse colme di strumenti più o meno scientifici, atti a garantire la perfetta riuscita del parto. Biascicando una incomprensibile lingua formata da una mescolanza di latino, lingua volgare e dialetto di nascita del dottore stesso, ordinò che tutta la famiglia si radunasse intorno alla puerpera onde verificare con i propri occhi le magnificenze della scienza moderna. La donna, adagiata sul letto nuziale, fu denudata fino alla cintola ed il suo ventre sottoposto alle palpazioni di tutti gli allievi che dovevano verificare i tempi delle contrazioni.Era una giovane sana e robusta, dai fianchi larghi. La mammana aveva pronosticato che non avrebbe avuto alcun problema nello sfornare il nascituro, per quanto grosso fosse; infatti, tutto stava andando per il meglio. Il parto si era aperto ed il medico cominciava a paventare, per la semplicità con cui si stava svolgendo l’evento, una parcella bassissima per la sua prestazione: neanche sufficiente a ricoprire le spese di quella lunga trasferta.Ai primi naturali lamenti, il medico farfugliando frasi ancor più incomprensibili, assunse un’aria molto preoccupata. Indicò ad un allievo una delle sue grosse borse, ordinando, questa volta molto chiaramente, che per il bene della puerpera e del nascituro, si procedesse immediatamente ad una “defecatio precox”. Immediatamente, da una delle borse sorse una enorme siringa che fu subito riempita per tre quarti con acqua calda ed il restante con una pozione portentosa creata del medico stesso. Tutta la soluzione non era meno di dodici pinte; circa tre degli attuali litri.Dopo aver bene agitato la siringa, il medico stesso innestò una cannula di legno lucido, grossa come il polso di un bambino. La grandezza del foro interno della cannula, spiegò un allievo, in lingua comprensibile, ai presenti interdetti, era l’ultimo ritrovato della scienza in fatto di parti difficoltosi dovuti alla mancata “defecatio”. Infatti, appena completata l’introduzione del liquido portentoso, il dottore stesso, con le sue proprie mani, per riguardo al rango della puerpera, avrebbe applicato, al posto della siringa, un lungo tubo di budello di bue che le avrebbe permesso di svuotarsi direttamente nel pitale senza doversi alzare e soprattutto senza sporcare di feci le preziose lenzuola di lino. La donna, nonostante le doglie, fu messa carponi sul letto, con le terga bene in vista a tutti i presenti. La sodomizzazione, all’epoca, era una pratica molto comune e la maggior parte delle donne era portata ad accettarla come un fatto naturale, essendo riconosciuto come il solo sistema contraccettivo veramente funzionante; la puerpera, da parte sua, non faceva certamente eccezione, ed aveva subito talmente tante di quelle volte quella pratica, che ormai il membro del marito, entrando, non le procurava altro che un leggero fastidio. Nonostante ciò, non poté trattenere un grido di dolore quando la grossa cannula le fu infilata nel culo, fino in fondo. Quel grido, i successivi lamenti della zia che faticava a ricevere nella pancia già estremamente gonfia, il notevole quantitativo di liquido, produssero sulla futura Badessa un brivido di piacere mai provato prima. Era fortemente eccitata dal palese, innaturale dolore che la puerpera stava provando.Il culmine della eccitazione, quasi un vero orgasmo, lo provò quando il floscio budello di bue si gonfiò con il liquido che la zia stava evacuando. Il parto andò bene nonostante l’aiuto del medico; nacque un bel maschio, sano e robusto; ma la ragazza non riusciva a dimenticare il piacere provato alla pubblica sodomizzazione ed all’umiliante svuotamento della zia. Da quel momento, il suo desiderio maggiore fu quello di provare, di nuovo, quelle magnifiche sensazioni. Dotata di notevole fantasia, non tardò a trovare il modo per appagare il suo desiderio. • Questa notte, – comunicò all’ancella, impaurita dall’aver capito che qualcosa di nuovo c’era nell’aria, – tu farai la parte di mia zia, io quella del dottore che ti aiuta a partorire. -• Ma io mica sono gravida. – Obiettò la ragazza sempre più spaventata.• Non ti preoccupare. Farò in modo che lo sembrerai. – fu l’unica risposta.Chiaramente, non aveva una siringa da clisteri a disposizione, ma la fervida immaginazione l’aveva aiutata a risolvere il problema: il grosso soffietto di pelle, usato dai domestici per ravvivare le fiamme nel camino, una volta riempito d’acqua sarebbe stato un ottimo sostituto della siringa del dottore; una canna, completamente cava, avrebbe preso ottimamente il posto del budello usato per la “defecatio”. Il proposito, chiaramente irrealizzabile, era quello di riempire d’aria la pancia della povera ancella finché non fosse stata tanto gonfia da sembrare gravida, poi, iniziare la recita del parto con l’arrivo del dottore, la visita, il clistere e tutto il resto. Logicamente, quella notte, non arrivarono neanche a metà della recita. Nell’ano della serva, nuda, inginocchiata sul letto, la giovane padrona inserì senza tanti riguardi il grosso becco del soffietto, poi cominciò a pompare aria con l’intento di gonfiarle il ventre fino a farla sembrare gravida. Alla terza, quarta pompata, però, la povera serva cominciò ad urlare e dibattersi per il dolore, tentando inutilmente di sfilarsi dal culo il becco del soffietto. La giovane castellana a quel punto, infuriata per la presunta, scarsa collaborazione, cominciò a picchiare la fanciulla con una pesante cinghia; urlando e minacciandola di pene e dolori ancora più atroci se non avesse collaborato ben più attivamente.La scena che si presentò agli occhi della signora madre, svegliata dalle grida, non era per nulla edificante. La povera ancella fu immediatamente cacciata di casa con ignominia mentre per la giovane figlia si spalancarono le porte del monastero.In pochissimi giorni fu approntato tutto il necessario. Il corredo, che la giovane doveva portare con se in monastero, era praticamente pronto da tempo. La messa a punto degli accordi con le alte gerarchie dell’ordine e con il Vescovo per la dote e le garanzie di carriera furono presi nell’arco di tre giorni. Contemporaneamente, nel castello fervevano i preparativi per la grande festa di addio che le nobili famiglie erano solite dare in occasione della partenza di una figlia per il monastero: una festa molto simile a quella che oggi viene chiamata la festa dell’addio al celibato; in quel caso, l’addio al nubilato. A ben pensarci, nonostante le buone intenzioni, si trattava di una festa molto crudele: per la prima ed ultima volta nella sua esistenza, la futura suora poteva assaporare i piaceri della vita di una donna libera; poteva permettersi di agire come una giovane qualsiasi; anzi, in quella serata, godeva del diritto di comportarsi molto più liberamente di come convenisse ad una qualsiasi damigella della sua età, ed anche di una donna adulta. Poteva tranquillamente ballare, bere vino non annacquato, appartarsi per conversare da sola con uomini, giovani o vecchi che fossero; aveva insomma una libertà che non avrebbe mai più potuto assaporare per il resto della vita.Non di rado, le giovani festeggiate, approfittavano di quella serata di libertà sfrenata ed incondizionata, per assaporare anche i piaceri del sesso, donando la loro verginità al cavaliere che per primo riusciva a trascinarle in un angolo sufficientemente appartato. La futura badessa, non certo frenata dalla sua notevole indole erotica, non perse l’occasione di fare di quella festa, la serata della sua vita. Finalmente poteva bere quanto voleva, come facevano le fantesche nelle lunghe serate d’inverno; poteva stare in mezzo a tutti quei giovanotti che fino ad allora era riuscita a spiare soltanto da dietro lo spiraglio di una porta o di un tendaggio e sognare nelle sue solitarie pratiche d’amore.Uno di questi la attirava in modo particolare, ma era, purtroppo per lei, un giovane sul quale aveva già messo gli occhi sua zia, proprio quella del parto. Con l’anziano marito che faceva il cascamorto dietro la giovane vedova di un vassallo, la nobile zia non ebbe intralci nel prenderlo al laccio, non lasciando il giovane libero un istante. Ogni volta che lui tentava di allontanarsi, per raggiungere la festeggiata che lo guardava con occhi adoranti, la donna si avventava su di lui appiccicandoglisi addossi e strusciandosi in modo così inequivocabile che nessuna promessa verbale poteva superare quello che i movimenti della donna promettevano.La festeggiata, quella sera, riuscì comunque a perdere la sua verginità. Riuscì a conoscere, finalmente, il piacere, tante volte udito decantare dalle fantesche nei loro racconti, di un duro membro maschile che si fece strada nella sua vagina, entrando ed uscendo, più e più volte, spingendo fino a toccarle la testa dell’utero facendola sentire piena e riempita come un sacco di miglio ricolmo, e muoversi, con movimenti rapidi e possenti fino alla frenesia dell’orgasmo. Non fu per opera di quel giovane; ma lo sognò, sognò di essere tra le sue braccia; sognò che fosse lui che l’aveva portata nello stanzino dell’argenteria invece del maturo gentiluomo che era riuscito ad agguantarla dopo un saltarello sfrenato; sognò che fosse lui quello che l’aveva distesa sulla robusta e larga panca; sognò che fossero sue le mani che le avevano sollevato i molti strati di gonne e slacciato i legacci delle ampie mutande; sognò che fosse la sua bocca quella che si era incollata al suo sesso spalancato e che le aveva succhiato il clitoride al punto da farla quasi urlare per il piacere; sognò che fossero sue le mani che avevano liberato i suoi sodi seni dal corsetto per stringerli e palparli con piacevole rudezza; sognò che fosse suo il membro che si era saldamente poggiato sulla sua inviolata vagina ed avesse cominciato a spingere, facendola tremare per il dolore nel momento in cui, con una spinta più forte delle altre aveva vinto la resistenza del suo imene; sognò che fossero suoi i denti che avevano straziato i suoi capezzoli mescolando il dolore dei morsi a quello saettante dal suo ventre per la deflorazione; aveva sognato che fossero sue le braccia che l’avevano sollevata dalla panca e obbligata, china, bocconi sullo spigolo del tavolo, con le nude terga all’aria; aveva voluto sognare che fossero sue le dita che brutalmente si erano infilate nel suo ano, facendola rabbrividire per il dolore ed il piacere; aveva sognato che fosse lui quello che le aveva puntato il membro nuovamente , incredibilmente duro, al centro delle natiche mentre le dita le tenevano allagate fino a farle male; aveva gridato il suo nome nel momento del dolore atroce di quella prima ed unica brutale sodomizzazione della sua vita.Il giorno dopo, seduta nella carrozza che la stava trasportando vero la sua condanna, lo vide, fermo sul ciglio della strada, in attesa che lei passasse, che lei lo vedesse. Lo guardò, la guardò. Le loro menti si unirono in un bacio immaginario di cui la giovane portò con se, indelebile, il ricordo per tutta la vita.Il suo ingresso in convento segnò un radicale cambiamento nell’atmosfera che vi regnava.Ancora soltanto semplice postulante, già si era sfrontatamente inserita nello stato maggiore del convento.Molte novizie e moltissime giovani suore sperimentarono sulla loro pelle i vizi ed i piaceri di quella depravata giovane dal carattere fiero ed indomito. Il rango di nascita, la cospicua dote portata all’Ordine, i potentissimi protettori l’avevano posta, per prestigio, se non per grado, alla pari della vecchia e debole Badessa. Entro un paio d’anni dal suo ingresso era diventata, di fatto, il capo indiscusso della comunità: di giorno, seria ed irreprensibile tutrice della Regola; di notte, lasciva e crudele amante di tutte le consorelle che, per timore o per accattivarsene la benevolenza, accettavano di entrare furtivamente nella sua ricca e spaziosa cella.In pochissimi anni, bruciò le tappe della carriera monastica fino all’ambito rango di Badessa: la padrona assoluta del monastero e della vita di tutte coloro che vi erano rinchiuse.Agli occhi del Vescovo e delle autorità civili, era una Badessa estremamente capace; puntigliosa, quasi maniaca nell’osservare e far osservare la rigida Regola che governava la vita del monastero. La realtà era ben altra: l’osservanza ferrea della Regola era soltanto il suo strumento per tormentare e tiranneggiare le sue sottoposte. Tutto il monastero, non era altro che una fitta rete di spie e di delatrici che la tenevano perfettamente al corrente di tutto quello che avveniva al suo interno. Niente poteva accadere, anche di insignificante, senza che qualche suora, ansiosa di entrare o di mantenersi nelle sue grazie, non andasse segretamente a riferirglielo. Le più precise, le più costanti, le più zelanti nell’assolvimento di quella funzione, erano certe di poter contare sulla sua benevolenza, su piccoli privilegi, su avanzamenti nella scala gerarchica.
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