I rintocchi della piccola campana della cappella avvisarono nuovamente i fedeli che era l’ora del Mattutino.Il piccolo villaggio si risvegliò, come sempre, in preda agli stessi irrisolti problemi con cui si era coricato la sera precedente. Il cielo, limpido fino a poche ore prima, si era repentinamente riempito di nuvole nere foriere di tempesta; il vento sibilava minaccioso tra gli alberi piegandone le cime quasi a volerle spezzare. Qualche grossa, rada goccia di pioggia, già cominciava a bagnare la polvere che turbinava nell’aria.Decisamente non era una buona giornata per i contadini che, più degli altri giorni, stentavano ad abbandonare l’illusorio tepore dei miseri giacigli.Nel convento la vita riprese come se nulla fosse accaduto; come se il giorno precedente non fosse mai esistito.Soltanto tre posti vuoti nella duplice fila delle suore e quattro in quella delle novizie, indicavano che non era un giorno come tutti gli altri: l’ordalia, con la sua cappa di terrore, gravava, pesante ed immobile sulla silenziosa processione, in attesa di riprendere vita e vigore più tardi, nella sala capitolare. Alla presenza di tutto il convento. Il pasto meridiano era terminato. Durante tutto lo scorrere della mattinata, l’attività del monastero si era svolta in maniera apparentemente normale; era indubbio, però, che le menti di tutte le consorelle non riuscivano a sganciarsi dal ricordo della nottata appena trascorsa. In cielo, lampi e tuoni si rincorrevano minacciosi facendo tintinnare, sempre più spesso, i piccoli vetri colorati delle lunghe e strette finestre. La pioggia, caduta in un crescendo continuo per tutta la mattinata, contribuendo ad incupire ancor di più l’atmosfera che gravava su quelle mura, ora cadeva violenta. Sospinta dalle impetuose folate di vento, arrivava a bagnare le strette bifore poste sotto il lungo porticato del chiostro interno al fabbricato destinato esclusivamente alla vita delle suore.Nessuna consorella, dopo il pasto, con quel tempo, poté approfittare della consuetudine di una breve passeggiata sotto i portici. Nervose, poco meno che in preda ad un represso isterismo collettivo, quasi tutte si stavano radunando, in anticipo, nell’ampia sala del Capitolo.Suor Geltrude, la nuova, potente Madre Priora, aveva impartito tutte le disposizioni atte ad evitare qualsiasi intralcio a quella farsa di processo che la Badessa aveva in animo di compiere in quel pomeriggio, ordinando, tra l’altro, la chiusura del pesante portone di accesso al monastero: per faccende di quel tipo, era meglio essere, il più possibile, isolate dal mondo esterno.Lei e la Badessa erano da sempre andate molto d’accordo. Geltrude non era di schiatta nobile come la Badessa; proveniva, tuttavia, anche lei, da una famiglia molto ricca. Suo padre, capo della corporazione dei tessitori, era proprietario di otto telai e di due vasche per la tintura delle tele. In pratica era ricco; molto ricco, più ricco di parecchi nobili, proprietari terrieri, che spesso si rivolgevano a lui per piccoli e grandi prestiti ai quali poi, facevano fatica a fare fronte. Lei, seconda figlia femmina, era stata destinata ed addestrata, fin da piccola, ad occuparsi di una delle vasche per la tintura: quella per la sbianca. Un lavoro faticoso e disgustoso, ma importantissimo nell’economia dell’azienda. Le tele, in pezza, che uscivano dai telai erano di colore grezzo; per candeggiarle si immergevano in una soluzione di urina fermentata: più forte era la soluzione e più la pezza sbiancava perdendo il brutto colorito grezzo. Appena giovinetta, ricevette il suo primo incarico: controllare che il liquido contenuto nei pitali che, la mattina, venivano svuotati da tutte le donne del villaggio nella vasca di fermentazione, fosse veramente e soltanto urina. Non doveva contenere né feci, né, tanto meno, il mestruo delle donne. Il primo giorno che Geltrude svolse il suo incarico, vomitò almeno una decina di volte. Le faceva schifo annusare e maneggiare tutti quei luridi secchi traboccanti piscio, e peggio ancora, rimestare e mantenere a giusta temperatura la vasca di rame in cui avveniva la fermentazione. La sera, quando tornava a casa, i suoi abili, la sua pelle, i suoi capelli puzzavano come una latrina, peggio di una latrina. Non c’era bagno o sapone che riuscissero a toglierle di dosso quell’odore nauseabondo. Inutile lamentarsene con il padre, anzi, ogni volta che la giovane tentava di sollevare l’argomento; chiedendo che le fosse cambiato incarico, l’uomo le rispondeva sempre che quello era il cardine delle fortune della famiglia. Le loro tele erano famose proprio per il loro candore; e quel candore veniva unicamente da quel piscio puzzolente che lei tanto disprezzava. – Ricordati figlia mia, – diceva sempre al termine del suo discorso sfoggiando una cultura che in realtà non aveva affatto – che, come dicevano i nostri padri, gli antichi romani: “Pecunia non olet”. – Sarà pure vero che i soldi non puzzano, ribatteva dentro di se Geltrude, ma io intanto vomito tutti i giorni e puzzo come un pisciatoio, e di quei soldi che non puzzano, io non vedo neanche l’ombra.La cosa non poteva durare in eterno: Geltrude odiava quel lavoro, e prese ad odiarlo ancor di più, quando si accorse che tutti i giovanotti la scansavano. Le sue sorelle più piccole erano sempre contornate da belli e baldi giovani; lei doveva accontentarsi di ridere e scherzare soltanto con i garzoni della fabbrica, o con i villani che spesso venivano a pisciare direttamente nella vasca.I litigi con il padre si fecero sempre più frequenti e violenti, finché un giorno, l’uomo, veramente infuriato, non la mise alle strette: o continuava quel lavoro per il bene della famiglia, oppure l’avrebbe rinchiusa in un convento: a lei la scelta; lui non aveva soldi per sfamare bocche improduttive. Geltrude scelse il convento. Il padre poi si pentì di quelle parole, ma la ragazza, ostinata e ribelle di carattere, non tornò sulla sua decisione. Il pentimento del padre, comunque, le fece molto comodo; la notevole dote che fu versata al monastero, le valse un trattamento di tutto rispetto e, in un certo qual modo, una carriera non molto difficoltosa.La sua vita in convento fu piena di alti e bassi; il suo carattere duro e ribelle le fece meritare parecchie punizioni, ma la sua istruzione ed il suo innato senso degli affari, la portarono anche ad occuparsi spesso della gestione dei beni e degli interessi del monastero. Queste sue doti, unite ad una istintiva simpatia, le consentirono di stringere un rapporto sempre più stretto con la Badessa. Divenne la sua ombra, la sua saltuaria ma devota amante e la sua “longa manu”, specialmente per gli affari poco leciti, sia che si trattasse di soldi, che di giovani postulanti e novizie da infilare nel letto della potente amica. Era lei che correva ai ripari e sistemava tutto quando, nei frequenti accessi d’ira notturni, la Badessa calcava troppo la mano lasciando segni troppo evidenti sui corpi delle giovani fanciulle.Quel giorno, con quell’eclatante promozione, la Badessa pagò d’un sol colpo tutti i debiti di amicizia e di riconoscenza che aveva verso Geltrude, facendone, per sempre, la sua fedelissima e potentissima alleata. Geltrude sapeva bene cosa sarebbe avvenuto quel giorno; ecco perché non voleva estranei tra i piedi, ecco perché ordinò che l’accesso dei pellegrini fosse limitato al massimo, nonostante il tempo da cani. Suor Maddalena, immedesimata nel suo nuovo, prestigioso incarico di Madre Portinaia, aveva ordinato a due tra le suore più anziane ed esperte di prendere posto nella angusta saletta della portineria: poco più di una garitta. L’ordine, che lei trasmise alle consorelle, era di evitare, per quanto possibile, l’accesso dei pellegrini che, in una simile giornata, avrebbero sicuramente richiesto asilo per la notte e di indirizzarli, comunque, immediatamente nei locali della foresteria.Altre due suore anziane, scelte tra le più arcigne e bisbetiche, ricevettero l’ordine di presidiare i locali della foresteria, distaccati e distanti dal corpo di fabbrica destinato alle suore, e di evitare assolutamente che alcun ospite girovagasse libero per il monastero.A suor Benedicta competé, in ultima analisi, il compito forse più ingrato: preparare le quattro novizie, incorse nelle ire della Badessa, alla tragica pagliacciata del pentimento e del perdono.Appena vide le quattro ragazze e le condizioni in cui erano state ridotte dalla nottata appena trascorsa, la novella Istitutrice ebbe quasi un moto di pietà verso di loro. Sporche, scarmigliate, con gli occhi sbarrati dal terrore, stavano rincantucciate in un angolo del cubicolo in cui ognuna era stata gettata la sera precedente. Non poteva presentarle alla Badessa conciate in quel modo. Suor Benedicta sapeva bene che, la perfida aguzzina, non gradiva ricevere in sua presenza vittime predestinate che sembrava avessero già patito le pene dell’inferno. Era una sua prerogativa impartire quelle pene.Imprecando si diresse velocemente nella “Cappella”, in cui aveva trascorso lussuriosamente gran parte della notte e sganciò, dal muro, la catena che stringeva il collo di suor Chiara Paola. Così com’era, nuda, terrorizzata, dolorante per le percosse e le sevizie subite, la condusse, trascinandola al guinzaglio come una vacca, negli umidi locali della lavanderia. Indicandole un mastello, le ordinò di riempire d’acqua la grossa tinozza in cui di solito, erano posti i panni appena lavati.Mentre quella poveraccia, tra mille dolori, eseguiva quanto le era stato ordinato, suor Benedicta andò a prelevare le quattro ragazze. Ordinò loro di spogliarsi completamente ed immergersi nell’acqua gelida della tinozza. Tremando dal freddo, e ancor più dalla paura, le giovani si lavarono a vicenda, asciugandosi, poi, alla bell’e meglio con i panni appena tolti. Suor Benedicta soffermò lascivamente lo sguardo su quei giovani corpi pregustando quello che di lì a poco ne avrebbe potuto fare. L’orgia di dolore cui aveva partecipato durante la notte, aveva svegliato in lei dei sentimenti sadici che neanche immaginava di avere. La stessa Badessa si era fermata a guardarla ammirata quando le era capitato, per caso, di occuparsi, da sola, di suor Beata. Benedicta, dotata dalla natura di un bel corpo e di un magnifico seno, aveva più volte dovuto subire le attenzioni della precedente madre portinaia. Ripensandoci, ancora le sembrava di avvertire l’atroce dolore provato al seno per i colpi di cinghia che suor Beata si sentiva in diritto di darle piuttosto spesso. Non le era sembrato vero, quindi, quella notte, di avere a disposizione tutto il corpo dell’odiata consorella per compiere la sua personale vendetta. Se la era ritrovata davanti, legata al cavalletto: piegata, culo in alto, pronta a ricevere, suo malgrado, l’intrusione del cuneo a pinza. Non le bastava; non era sufficiente quella pena a ripagarla di tutti i tormenti che aveva dovuto subire; sia prima, da novizia, che dopo, da suora, quando ormai, si era illusa di essere al sicuro dalle angherie della potente consorella. Sentì dentro di se il prepotente desiderio di farle male lei stessa, con le sue mani, non tramite un qualsiasi oggetto. In un attimo aveva preso la sua decisione: si era rimboccata la manica destra fin sopra il gomito, e, con la mano stretta a pugno, aveva cominciato a spingere su quel buchetto ancora inviolato. Le urla e le implorazioni di pietà che lanciò suor Beata quando si sentì squarciata dalla mano che lentamente, ma inesorabilmente stava cominciando ad entrarle nell’intestino, richiamarono l’attenzione della Badessa che, smettendo di flagellare la vagina della piccola Chiara Paola, si fermò a guardare affascinata quel pugno che tentava di scomparire nel culo di suor Beata. Inutilmente la donna scuoteva il corpo cercando di evitare quella feroce sodomizzazione: era legata troppo strettamente per riuscire ad ottenere un qualsiasi risultato. Benedicta, comunque, era infastidita da quei movimenti inconsulti: non riusciva a spingere efficacemente come voleva. Perfidamente, afferrò con la mano libera un frustino appeso a lato del cavalletto e cominciò a menare colpi impietosi e violenti sul culo e sulla schiena della vittima. La Badessa si avvicinò guardando estasiata l’alternarsi della serie di colpi dati con una mano, alla spinta violenta che, nell’attimo di tregua, l’aguzzina imprimeva con l’altra finché non ebbe ragione della resistenza dei muscoli dello sfintere di Beata. Improvvisamente, accompagnata da un urlo spaventoso, la mano scomparve tra le due chiappe: era entrata di colpo fino al polso e oltre: quasi metà dell’avambraccio. L’ultima spinta si era, però, rivelata rovinosa: la vittima, con un ultimo flebile gemito, era svenuta per il dolore privando l’aguzzina del proseguimento immediato della vendetta.Il sorriso di approvazione che suor Benedicta ricevette dalla Badessa, le procurò, in ogni caso, quasi più gioia della vendetta appena compiuta. Subito dopo che le giovani si furono asciugate, suor Benedicta le obbligò a rivestirsi con il “saio della penitente”: un vero e proprio sacco di tela grezza, lungo poco oltre il ginocchio e con tre fori per consentire il passaggio della testa e delle braccia.Incatenata, nuovamente, suor Chiara Paola, allo stesso posto da cui l’aveva prelevata, la nuova Istitutrice delle novizie s’incamminò verso la Sala Capitolare preceduta dalla mesta processione delle quattro incolpevoli, giovani vittime. La normale disposizione delle pesanti sedie che riempivano la sala era stata modificata poco prima del pranzo: non più allineate in ordinate file parallele di fronte allo scanno della Badessa, ma disposte in circolo, lasciando al centro un ampio spazio libero.Al centro dell’area libera, quattro larghi e robusti sgabelli, leggermente più bassi del normale, formavano un tetro e poco rassicurante quadrato.La Superiora non ebbe alcun bisogno di richiamare l’attenzione delle consorelle: tutti gli occhi si erano istintivamente puntati su di lei mentre faceva il suo ingresso. Il silenzio era talmente profondo che quasi dava fastidio alle orecchie. Non un gemito, non un sospiro, non un colpo di tosse la accompagnò mentre si recava al suo scanno incastonato nel cerchio delle sedie come un diamante in un prezioso anello.- Sorelle, mie care sorelle. – esordì la Badessa appena seduta al suo posto – in questo momento sono divisa da due sentimenti completamente opposti. La gioia di comunicarvi che le sorelle Maria Chiara, Beata della Natività e Chiara Paola, hanno capito la gravità dello sbaglio fatto; si sono sinceramente pentite e mi hanno scongiurato di implorare, a loro nome, il vostro perdono per il cattivo esempio dato. Sono certa che i sentimenti di bontà e fratellanza che da sempre hanno contraddistinto la vita di questo monastero, vi indurranno a perdonare le nostre amate consorelle e ad accoglierle di nuovo tra noi, a braccia aperte, quando, tra qualche giorno, si sentiranno pronte a presentarsi al vostro cospetto. Mi hanno implorato, per ora, di poter restare in pia e solitaria meditazione nelle celle dei sotterranei. Con il cuore colmo di gioia per il ravvedimento dimostrato, non ho potuto far altro che acconsentire alla loro richiesta. -Soltanto qualche impercettibile brusio si levò da punti imprecisabili del consesso: tutte avevano compreso che le tre sventurate non avevano ancora patito tutte le pene che la Badessa voleva infliggere loro, oppure che erano ridotte talmente male che non potevano essere ammesse alla presenza delle consorelle con ben visibili i segni della avvenuta “redenzione”.- Suor Benedicta e suor Maddalena, e soltanto loro – sottolineò duramente la donna dopo la breve pausa – sono autorizzate ad interrompere la loro meditazione per rifornirle di un solo pasto al giorno, così come mi hanno chiesto, volendo con il piccolo sacrificio dell’astinenza, impreziosire la loro richiesta di perdono al nostro amato Signore. L’altro sentimento che invece rattrista il mio cuore, è il compito ingrato che ora mi attende: quattro novizie, forse le quattro più brillanti ed intelligenti che queste mura abbiano mai avuto la fortuna di accogliere, sono state riconosciute, ieri, colpevoli di orrendi misfatti. La Madre Priora, nella sua encomiabile saggezza, mi ha incaricato di tentare con qualsiasi mezzo di riportarle sulla retta via: di ottenere la sincera confessione dei loro peccati, il loro pentimento e la promessa di mai più peccare. Aiutata e confortata dalle vostre preghiere mi accingo a svolgere questo duro compito alla presenza di voi tutte. Che sia di monito, per il futuro, affinché nessuna di noi cada mai più in simili tentazioni. Suor Benedicta, fai entrare le pecorelle smarrite. -Nella mente di più di qualche suora, la vista delle quattro giovani, affrante, seminude, spossate dalla notte insonne, che si disponevano ognuna di fronte ad uno sgabello, richiamò alla memoria, la scena biblica della conduzione al sacrificio dell’agnello pasquale. Altro che pecorelle smarrite.La cupa atmosfera da tregenda che aleggiava nella sala capitolare, era ingigantita da quello che avveniva all’esterno: lampi e tuoni si rincorrevano senza sosta nel cielo plumbeo, invadendo, con improvvisi bagliori accecanti, la sala di per sé già ampiamente illuminata da tutti i candelabri e tutte le lucerne accese. Il vento, che sembrava volesse divellere le robuste invetriate colorate, riusciva ad insinuarsi nel locale approfittando di ogni minima fessura, facendo ondeggiare la calda fiamma delle candele e quella fumosa delle lucerne ad olio. Ogni caviglia delle ragazze fu saldamente legata ad una gamba dello sgabello che aveva davanti: ora le quattro giovani erano in piedi, con le gambe fortemente divaricate, le terga rivolte verso l’assemblea. Tremando per la loro sorte, le giovani si chinarono in avanti e afferrarono, come aveva ordinato la Madre Priora, suor Geltrude, le gambe anteriori del proprio sgabello. Anche i polsi furono legati strettamente alle gambe del panchetto. La scomoda posizione rendeva difficile la respirazione ed impediva qualsiasi altro movimento: fortemente piegate in avanti, con le ginocchia che premevano dolorosamente sul bordo dello sgabello ed il sedere in aria, lasciato completamente scoperto dal bordo del sacco che era scivolato sul tronco, mostravano, senza alcun impedimento, tutte le loro parti più intime.Quelle, tra le consorelle, che avevano avuto modo di assistere o di aver sperimentato di persona quella particolare pratica, guardavano lubricamente o con angoscia la scena pregustando quello che stava per avvenire, le altre, si limitavano a fissare, in preda ai più svariati sentimenti di pietà o di lussuria, le parti intime delle giovani ed i loro seni, che scoperti, si intravedevano, nella selva di braccia e gambe, oscillare liberamente ad ogni faticoso respiro.Le ragazze non avevano più lacrime da versare, il loro pianto si era prosciugato nella lunga notte di terrore. Non riuscivano più neanche a provare paura: avevano immaginato tutto il peggio che era possibile immaginare. Adesso era la vergogna che serrava i loro cuori. Non era certo per questo che erano entrate come postulanti nel convento; non era certo per mostrare a tutti, in quel modo osceno, le loro intimità, che avevano lasciato la casa paterna e cercato rifugio in quelle maledette mura. Due giovani novizie entrarono nella sala portando, faticosamente, due secchi ciascuna, pieni d’acqua fumante; una terza, recava, posti sugli avambracci come fossero un’offerta votiva, quattro enormi siringhe da serviziale, in rame, ognuna capace di contenere almeno tre litri di liquido. Anche le cannule, di legno nero lucido, a forma di oliva, erano enormi: lunghe oltre venti centimetri e spesse, nel punto più grosso, quanto il polso di un uomo. Suor Maddalena, che le accompagnava chiudendo quella tetra processione, portava, stretti in mano, quattro staffili di cuoio; dal colore nero si capiva che, in ossequio a quanto stabilivano le regole per gli esorcismi, erano stati immersi a lungo nell’acqua benedetta. Ogni colpo di quegli staffili, approntati in quel modo, avrebbe provocato, sulle povere vittime, un effetto ben più devastante di quello, già atroce, che avrebbero provocato se fossero stati asciutti.- Come è stato riconosciuto dalla sentenza che ieri la reverenda madre Priora ha avuto la pietà di emettere, tutti i vostri errori – esordì la Badessa rivolta, in apparenza, alle giovani, ma in effetti, a tutte le suore in trepida attesa, – derivano dalla possibilità che il maligno stia tentando di impossessarsi di voi, o che, Iddio non voglia, non lo abbia già fatto. -Le tre novelle suore del Capitolo, che si erano poste ognuna alle spalle di una giovane, con in mano uno degli staffili portati da Suor Maddalena, si guardarono tra loro inorridite, lanciandosi, con lo sguardo, sbigottite domande sul perché, quella porca sadica, avesse tirato di nuovo in ballo la storia del demonio: ma non si rendeva conto che così facendo metteva in pericolo tutto il monastero? Trepidanti, attesero la fine del discorso.Anche la sorella scrivana aveva sollevato la penna dal foglio di cartapecora su cui stava registrando gli atti di quell’osceno processo: anche lei voleva essere ben certa di cosa avrebbe dovuto scrivere e cosa omettere nel documento finale che doveva essere rimesso a S.E. il Vescovo.- Io, per mia personale convinzione, – riprese la Badessa, avvicinandosi ad Elisabetta, la sua ex prediletta, che le altre suore del Capitolo avevano volutamente ignorato nel loro posizionarsi alle spalle delle imputate – non credo che il demonio abbia già preso possesso di voi. Posso ammettere che ci abbia provato, questo sì, è logico pensarlo in quanto rientrerebbe nella sua natura, ma sono altrettanto convinta che nulla abbia potuto contro di voi che siete le quattro migliori novizie di questo monastero; contro il vostro ben noto rigore morale, contro i buoni sentimenti che io, insieme a tutte le consorelle, abbiamo sicuramente instillato nei vostri cuori.- Il discorso, nel suo insieme, era tanto spudorato che alcune suore, alle spalle della Badessa, si permisero di guardarsi in faccia e sorridere scuotendo il capo. – Tanto sono convinta di quello che sto dicendo, – proseguì la Badessa, ignara di quanto era avvenuto dietro di lei – che ho deciso di sottoporvi, tutte insieme, agli stessi trattamenti che le regole dei buoni Padri Inquisitori prescrivono di adottare per cacciare il demonio dai corpi delle indemoniate. Sono convinta che, durante la prova, non ci saranno manifestazioni demoniache, né, udremo da voi, bestemmie o imprecazioni contro l’Altissimo come accadrebbe, di certo, se foste delle vere indemoniate. -Ancora una volta, la Madre Priora, insieme alle altre due consorelle, trasse un mentale, enorme sospiro di sollievo. Ancora una volta, quella mente perversa, aveva saputo manovrare e presentare le cose in modo da garantirsi il massimo divertimento senza correre il rischio di incappare nella deplorazione dei superiori gerarchici. In quel modo si era spianata la strada per compiere tutte le sevizie cui avesse voluto sottoporre le giovani: lei stava onestamente facendo di tutto per dimostrare che nessuna di loro era indemoniata. Inoltre, presentando le cose in quel modo, aveva praticamente costretto le ragazze ad essere sue complici: era loro stesso interesse che la durezza delle torture cui sarebbero state sottoposte, dimostrasse, al di là di ogni dubbio, la loro innocenza.- Sono certissima che potremo iniettare in ciascuno di questi quattro innocenti corpi, almeno un’intera siringa di acqua calda benedetta, forse di più; forse anche due intere siringhe senza che sopravvengano manifestazioni demoniache. È riconosciuto da tutti, infatti, che il demonio impedisce l’ingresso dell’acqua benedetta nei corpi che possiede: si ritroverebbe completamente immerso nel sacro liquido che teme ed odia, e, peggio ancora, se essa è molto calda, gli ricorderebbe il calore dell’inferno cui è stato scaraventato da Nostro Signore. Inoltre, proprio per dimostrare a tutte voi, carissime sorelle, la fiducia che io nutro sull’innocenza di queste giovani, le sottoporremo, contemporaneamente alla prima prova, anche quella della frusta benedetta: non esiste demonio che sappia resistere, senza fuggire, ai colpi di una frusta che è rimasta per un intero giorno immersa nell’acqua benedetta. -A questo punto la Badessa compì il capolavoro del giorno, a tutto beneficio del documento che stava stilando la Madre Scrivana, rivolgendosi direttamente alle giovani.- So bene, mie carissime figlie dilette, che i vostri corpi proveranno un po’ di fastidio e qualche dolore, durante la dimostrazione della vostra innocenza, ma pensate alla gioia che proverete quando sarete certe che il demonio non alberga in voi ed avrete chiesto perdono per tutte le altre colpe, veniali, di cui siete state riconosciute colpevoli. Il mio cuore proverà il vostro stesso dolore; il mio animo soffrirà insieme a voi finché non sarete rivestite degli abiti da novizia che, sono certa, vi spettano di diritto. -Le ragazze udivano, scoraggiate, la descrizione di quanto stava per accadere loro. Avrebbero dovuto sorbire dal culo un’enorme quantità di acqua calda, e, conoscendo le tendenze della Badessa, non c’era da dubitare che sarebbe stata molto calda. Pur non potendosi parlare tra loro, i pensieri che turbinavano nelle loro teste erano identici: tutte, come aveva previsto la Badessa, speravano e pregavano di essere capaci di ricevere nel loro intestino più acqua possibile; anche a costo di scoppiare. Nessuna, giustamente, voleva essere riconosciuta colpevole di avere rapporti con il demonio.L’unica che non si preoccupava più di tanto era proprio Elisabetta: la sua ex preferita. Nelle lunghe notti trascorse nel letto della Superiora, la ragazza aveva più volte dovuto sottostare a quella pratica che sembrava essere tra le predilette dalla donna. In più di qualche occasione i suoi intestini erano stati allagati da quantità incredibili di acqua. Quelle volte, la Badessa la faceva alzare dal letto e, inginocchiata ai suoi piedi, le carezzava e baciava il ventre rigonfio, mentre la giovane tremava e piangeva per gli indescrivibili dolori che s’irraggiavano dal suo ventre colmo come un otre. L’esperienza acquisita, quindi, non le faceva temere l’iniezione di un’intera siringa di liquido, neanche di due: avrebbe sofferto le pene dell’inferno, lo sapeva, ma sapeva anche che ce l’avrebbe fatta. Suor Geltrude non poté che restare ammirata di fronte alla dialettica della Badessa: è vero; aveva fatto una rapida carriera sorretta e sospinta dalla sua potentissima famiglia, ma era pur vero che meritava in pieno il posto che occupava. Era una perfida viziosa, ma con un cervello di prim’ordine. Chi avrebbe mai pensato di trasformare una sordida storia di clisteri e di frustate in un favore per chi le doveva ricevere? Chi avrebbe mai saputo trasformare i propri laidi piaceri nella dimostrazione di castità ed innocenza delle vittime? Lei; soltanto Lei. Da quel momento, la scaltra madre Priora, decise di votarsi, ancor di più, anima e corpo alla sua benefattrice. Avrebbe fatto tutto per lei; qualsiasi cosa pur di rimanerle accanto, pronta ad apprendere la sua sottile arte. Si rimproverò aspramente per essersi distratta nei suoi pensieri perdendo parte di quel sottile e perfido ragionamento.- Le vedremo soffrire, – stava dicendo la Badessa quando Geltrude riprese ad ascoltarla con attenzione – vedremo con i nostri occhi, una per una, tutte le manifestazioni delle loro sofferenze. E questa sarà la più grande e certa dimostrazione che esse sono innocenti, pure e non protette dal Maligno. Mai, in tutti gli atti dei processi dei Padri Inquisitori, è scritto che una strega o una indemoniata abbiano mostrato di soffrire per le pene inferte. Tutte irridevano il loro carnefice. Tutti sanno che lui non permette che le sue protette soffrano. Con la morte nel cuore per quello che dovranno sopportare queste povere, caste fanciulle, ma anche con la gioia di sapere che alla fine la loro innocenza sarà dimostrata oltre ogni possibile dubbio, comando che la prova abbia inizio. -Il silenzio che accolse la fine dell’arringa della Badessa, esaltava, ancora di più, il rombo dei tuoni che seguivano immediatamente ai lampi. La tempesta sembrava essersi fermata esattamente sul monastero per riversare su quelle mura, tutta la sua rabbia ed il suo furore. La Badessa stessa dette il via a quell’orgia infernale: il frustino impugnato saldamente, si abbatté con estrema violenza a metà delle cosce della povera Elisabetta. Piegata praticamente in due, saldamente fissata al solido banchetto, la giovane novizia non poté altro che emettere un lungo straziato grido, subito seguito da quello lanciato dalla sventurata compagna alla sua destra.Le grida delle quattro giovani si susseguivano le une alle altre come funebri rintocchi di campane, mescolandosi al rombo dei tuoni che si levavano sempre più alti e violenti all’esterno del convento.Nonostante i severi ordini impartiti e la dura selezione fatta dalle due anziane suore comandate in portineria, i locali della foresteria si erano affollati di viandanti infreddoliti, bagnati ed oltretutto scontrosi, quantunque avessero trovato un rifugio dalla tempesta.Uno di essi, in particolare, stava rendendo la vita impossibile alle anziane consorelle incaricate di assistere i viandanti in foresteria. Girava per i locali come un lupo in gabbia, chiedendo in continuazione della Badessa. Era un bell’uomo, alto, robusto, indossava la tipica armatura leggera dei soldati in tempo di pace. La spada che gli pendeva al fianco, era notevolmente più lunga e grossa di quelle utilizzate dai cavalieri in quelle regioni: per la lunga e solida impugnatura a due mani, sembrava proprio lo spadone da battaglia usato dai crociati. Con molta probabilità, tale doveva essere lui stesso: il volto era cotto e solcato da un sole ben più caldo e forte di quello che sovente splendeva sul monastero. Il suo modo di fare, i suoi modi bruschi, lo rivelavano per un soldato abituato al comando, non parte della semplice truppa. Improvvisamente, la tempesta si placò. Nel breve arco di pochissimi minuti, la pioggia torrenziale si trasformò in una leggerissima pioggerellina primaverile. I lampi ed i tuoni erano cessati come d’incanto: non se ne sentiva più neanche l’eco in lontananza. Tutto era avvolto nel più profondo ed ovattato silenzio. I viandanti, timidamente, cominciarono ad affacciarsi all’esterno della pesante porta della Foresteria. I più impazienti, quelli che avevano ancora parecchio cammino da percorrere per giungere alle loro mete, dopo una rapida occhiata alle nubi residue, tornarono dentro per raccogliere sveltamente le loro cose e riprendere il cammino interrotto dopo aver, frettolosamente, ringraziato le suore per l’ospitalità. Gli altri, fecero tutto con più calma, attardandosi a parlare tra loro in attesa che anche le ultime gocce d’acqua terminassero di cadere.Lentamente, nei locali della foresteria si riprendeva il normale ritmo di vita: lento e misurato, adeguato ad un’esistenza di preghiera e contemplazione, più che all’affannosa fretta della vita laica dei mercanti: soltanto il soldato continuava, col suo impaziente andirivieni nel rinchiuso dei locali, ad impedire il trionfo della calma e della quiete.Le due anziane consorelle lo guardavano con non celata preoccupazione: a nulla valevano le assicurazioni che la Badessa era occupata in un compito importantissimo, e che appena libera l’avrebbe ricevuto. Il soldato, perché tale era in realtà, oltre che nell’immaginazione delle suore, continuava a girovagare con sempre maggiore impazienza. Le suore gli correvano affianco cercando di rabbonirlo e di tenerlo, per quanto possibile, sotto controllo.Ad un tratto, proprio mentre passava davanti la porta d’ingresso, l’uomo si bloccò con tutti i sensi risvegliati: la mano destra corse, per abitudine, ad afferrare l’elsa della spada.- Cos’è stato? – chiese bruscamente alle due suore affacciandosi sotto lo stipite della porta- Cos’è stato che? – domandò di rimando una delle due.- Quel grido: ho sentito chiaramente un grido di dolore. – l’orecchio del soldato, esercitato, dalle mille guardie notturne, a percepire qualsiasi suono anomalo, gli aveva fatto cogliere quel debole suono, per altri impercettibile. Immediatamente all’erta, uscì all’aperto prontissimo a individuare qualsiasi vibrazione nell’aria. – Ecco, ora un altro. Proviene di là, da quelle finestre lunghe e strette – gridò alle suore indicando le invetriate della sala capitolare. Con la spada sguainata, attraversò a perdifiato l’ampio cortile, dirigendosi come una furia verso la cordonata che conduceva al portone di accesso allo stabile riservato alle suore.Inutilmente le due anziane consorelle tentarono di fermarlo gridando e sbracciando; quando si decisero ad arrancargli dietro, ormai, con una spallata, l’uomo aveva già spalancato il portone ed era penetrato all’interno.Percorse correndo diversi corridoi, perdendosi spesso in quel labirinto, ingannato dai falsi echi delle grida sempre più angosciate.Spalancò diverse porte alla ricerca dell’origine di quelle urla strazianti: i suoi movimenti erano sempre più frenetici finché imboccò, finalmente, il corridoio dal quale indubbiamente provenivano le grida. Con un calcio spalancò la pesante porta fermandosi, allibito, di fronte allo spettacolo che si presentò ai suoi occhi: il tonfo prodotto dalla porta sbattuta violentemente sugli sguinci, aveva bloccato ogni movimento all’interno del salone. Un terrore improvviso ed imprevisto aveva colto tutte le presenti: dalle più titolate all’ultima novizia.Tra una selva di veli neri, l’uomo intravide i corpi nudi di quattro giovani donne piegati su se stessi. Infilzate, nel loro sedere, le enormi siringhe sembravano quattro sproporzionate code oscenamente ritte. Le quattro suore che sorreggevano quelle code si voltarono all’unisono verso lo sconosciuto: tre di esse, vedendo la spada sguainata e sollevata, e l’aspetto truce dell’uomo, sbiancarono nel volto, indecise sul da farsi. L’altra, la Badessa, con uno sguardo carico d’odio, si rivolse urlando istericamente verso l’intruso:- Cosa fa lei qui? Come si è permesso di violare queste sante mura? — Cosa cazzo stai facendo tu, brutta porca depravata -, urlò di rimando il soldato precipitandosi verso il centro della sala, incurante delle suore che travolgeva al suo passaggio. Al suono di quella voce, Elisabetta, che gemeva al fianco della Badessa, emise un grido strozzato:- Giorgio, Giorgio sei tu? Sei tu fratello mio? -In un lampo l’uomo fu accanto alla giovane tentando di sfilarle dal culo l’enorme cannula. La Badessa lo assalì tentando di graffiargli i volto; ma poco poté fare contro la forza e la cieca rabbia dell’uomo: un fendente e la donna cadde bocconi, al suolo, con il ventre squarciato. Mentre liberava la sorella, Giorgio si soffermò a guardare la donna gemente a terra. I suoi occhi mandavano lampi di furia omicida. Con un calcio capovolse la donna soddisfatto di poterla guardare finalmente in volto. Un brusio di orrore si era levato dalle bocce delle suore terrorizzate quando si accorsero dello scempio che la spada aveva fatto del ventre della temuta Badessa: gli intestini si erano riversati all’esterno come tante piccole serpi uscenti dal nido.Due sguardi s’incrociarono: uno carico d’odio, l’altro di stupito dolore.- Tu … sei tu amor mio. – Le parole uscirono gorgogliando dalla bocca della Badessa, insieme a violenti fiotti di sangue. – Ti ho cercato per anni. – la donna tentò inutilmente di sollevarsi su un gomito: una mano grondante sangue, si protese verso il soldato che stava slegando le altre novizie.Con Elisabetta nuda, stretta al fianco, Giorgio guardò il volto della donna cercando di capire. Poi la riconobbe: per quel volto aveva perso anni della sua vita; per dimenticare quella donna, fuggita in convento, si era arruolato ed era partito per le crociate; ed ora, ora che era arrivato in quel monastero deciso a riprendersi la sua amata sorella, ora l’aveva ritrovata. La guardò nuovamente negli occhi, cercando di ritrovare, inutilmente, la dolcezza dello sguardo che tanto aveva sognato ed amato in tutti quegli anni. Non c’era più niente in lei che gli ricordasse la dolce fanciulla di un tempo: solo lussuria e depravazione riusciva a scorgere in quello sguardo morente.Toltosi il corto mantello, lo avvolse sulle spalle di Elisabetta; la strinse al suo fianco e si voltò. Mentre si avviavano mestamente verso l’uscita, la Badessa, con uno sforzo sovrumano riuscì a sollevarsi sulle braccia: – TI amo, – gridò – portami con te – e si afflosciò a terra, esalando l’ultimo respiro.
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