Mi trovavo solo soletto a girare in lungo e in largo la villa comunale di F*****: avevo svuotato la testa dai mille pensieri che la affollavano ed ero fermamente deciso a godermi un bel libro di Daniel Pennac, La prosivendola. Ne avevo letto i due precedenti (letto no, non è il termine più appropriato, divorati in due giorni uno per ciascuno) e avevo deciso di investire per comprarne tutta la serie. Ero quindi stato alla Feltrinelli di Roma dove un addetto dalla gentilezza proverbiale mi aveva consigliato gli ultimi titoli di Pennac. Lo avevo guardato come si guarda un marziano appena atterrato, vinto da gentilezza e bonomia dell’addetto che, con la sua canutissima barba, dispensava consigli e storie che io assorbivo ormai in trance. “Nella Fata Carabina, viene anche consigliato Profumo di Suskind” dissi io Un lampo nei suoi occhi, la libreria percorsa con rapido passo marziale, per vederlo rispuntare con il volume richiesto. “Tutti dovrebbero leggerlo” mi fece, porgendomelo. Ne ero rimasto colpito, non mi era mai capitato di discorrere con una persona di una cultura così simile alla mia. Non me ero innamorato, per carità!, ma mi era piaciuto quell’intermezzo letterario in una giornata per altro vuota e solitaria, alla ricerca del soddisfacimento del mio cliente. Ma si sa, chi opera nell’informatica è abituato alle giornate grigie, spese discutendo di massimi sistemi, cedendo alle proposte più irragionevoli. Pensavo a questo, pregustando la lettura divertente che mi stava di fronte. Amavo Pennac, mi sembrava che non avesse mai scritto se non per compiacere me, suo lettore. Amavo la sua sfrenata fantasia, il senso del complesso che si libera nel divertito episodio, il coupe de theatre finale: e poi tutto andava per il meglio, fino a risospirare nel prossimo libro. Amavo Pennac e l’eroe dei suoi libri, quel Benjamin Maulossene che aveva scelto (scelto?!) la professione di capro espiatorio. Mi sentivo un po’ come lui (chi non lo farebbe) capro espiatorio di una vita al contempo generosa e avara. Una vita che mi scivolava attorno, con i suoi vocii di bambini in festa, a stento calmati dai benevoli rimproveri dei genitori. Come in un film che, però, scorre ai tuoi lati invece che di fronte, scorrevano i mille cinguettii di umili passerotti, i voli fruscianti delle moltitudini di rondini che si chiedevano che fine stava facendo l’estate in quell’avanzato pomeriggio settembrino. L’aria era gradevole ma non più cocente, anche il sole fino alla settimana prima implacabile meditava di prendersi una meritata vacanza. Ero seduto su di una panchina, nella grande piazza centrale (un po’ spoglia a dire il vero) che scandiva il complesso, dividendolo in due simmetriche metà alberate. L’assalto dell’afa era cessato e i colori ne approfittavano per venire finalmente allo scoperto in tutta la sinfonica varietà di rossi e verde scuro che solo l’autunno sa orchestrare. Mi divertivo a far passare del tempo prima di immergermi nella lettura osservando: ho sempre pensato che la vera bellezza può giacere nei posti in cui meno si cerca, nei posti a prima vista normali (ma cos’ è la normalità, mi ripetevo sempre?). Un particolare mi attirava, la composizione di varia umanità che mi stava di lato, vicino all’improvvisato bar della villa. Una mamma stava rimproverando aspramente la propria figlioletta di tre anni: “Ti ho detto che domani ti farai gli altri giri sulla giostra” “E perché?” “Perché è così!” “E perchè?” “Perchè è così…” Persi il filo del dialogo per osservare gli occhi al cielo del marito: si stava probabilmente chiedendo chi l’aveva spinto a compiere l’insano gesto qualche anno prima. Lo capivo più di quanto lui credesse: non ci conoscevamo ma ero in grado di determinare esattamente il corso dei suoi pensieri. Matrimonio, suocera, figli, lavoro, casa, debiti, mutuo, avvitandosi in una spirale di puro pessimismo cosmico. Nel frattempo la consorte e l’erede si erano allontanati alquanto, così che il marito fu prontamente riportato alla realtà dalle urla scomposte dell’amata metà: “A’ mnì qqua, strunz!!” “Arrivo cara…” fu la sua sconsolata risposta mentre le gambe si erano già rimesse in moto da sole alla prima sillaba. In breve divennero puntini verso l’ingresso della villa, per scomparire oltre l’angolo. Zac, sipario, erano solo nella mia memoria, muto testimone dell’ennesima angheria subita dal povero capro espiatorio. Mi avevano tolto, con quel siparietto, la voglia bruciante di consumare il libro: avrei visto le stesse cose… Decisi di prendere qualcosa al bar e, pigro, mi avviai e chiesi al barista un’acqua brillante. Sorseggiandola non potei non notare, all’altro capo dei tavolini che attorniavano il bar una coppia che mi stava quasi di fronte. La distanza non era eccessiva, ma gli occhi si rifiutavano di mettere perfettamente a fuoco il lui, concentrandosi sulla bella lei: scherzi della prospettiva d’emore mi dissi, mentre la percorrevo tutta, accarezzandola lascivo con lo sguardo. Stavano vedendo qualcosa, un albumetto forse, con ilarità crescente. Era una bellissima ragazza, poco più che ventenne apparentemente, con una bellissima criniera di biondi capelli. Le raffinate meche mi facevano pensare ad una persona molto curata, sia dentro sia fuori. Indossava una minigonna bianca che molto donava ai suoi colori prettamente mediterranei. Il sole dell’estate aveva lasciato i suoi segni benigni sulla sua pelle, donandole la bronzea grazia delle donne che sono nate per essere di carnagione intensa. Non era altissima, poco meno di 1.70 a mio stimare, ma più che compensava ciò con la raffinata grazia dell’armonia del suo corpo. Le sue gambe perfette si intrecciavano snelle sotto il tavolo, libere dalla costrizione appiattente delle calze. La minigonna molto ridotta lasciava poco spazio alla mia immaginazione, regalandomi scorci di rarissima bellezza. Il resto del corpo era di indiscutibile livello, notai, risalendo con lo sguardo. Ma, dopo le divagazioni sulle gambe scultoree, il suo viso mi colpì con la forza nascosta di un pugno sferrato da un mingherlino, quando proprio non te lo aspetti. Lineamenti raffinati erano esaltati dai morbidi capelli (chissà come erano profumati?), con un ovale che il bianco sorriso illuminava di radiosa luce propria. Nel mezzo di queste mie valutazioni, fui interrotto dallo sguardo sospettoso del compagno. L’essere umano ha un’innata capacità di captare lo sguardo fisso di un altro: a voi non è mai capitato di sentirsi fissati e, voltando di scatto la testa, di trovare piena conferma ai propri sospetti? Fui quindi richiamato all’ordine e, per converso, incrociai gli occhi del lui. Nel veloce passaggio notai un sorriso abbozzato… E poi ne fui certo, era Tony, amico di scuola di mio fratello, che tante volte avevo visto a casa mia a bighellonare con la scusa di fare i compiti. Ricordavo di quando gli passavo le sigarette di nascosto e, all’improvviso, me lo ritrovavo cresciuto di fronte, sposato con la meraviglia della natura che gli stava accanto. Si perché era sposato, me l’aveva detto mio fratello qualche mese prima, anche se non da molto. “Tony!!!” “Pietro” Ci dicemmo andandoci incontro, ora capivo la sua espressione divertita di poco prima: aveva appena sorpreso il fratello del suo miglior amico a dare più che un’occhiata alle malcelate grazie della propria sposa. Ci abbracciammo e cominciammo l’interminabile rappresentazione dei nostri ricordi. Si, mio nonno non era più tra noi, ma mia nonna era ancora arzillissima a dispetto dei suoi 91 anni suonati. Gino, l’altro amico di mio fratello era carabiniere, sposato con figli e aveva deciso di arrotondare partendo volontario per l’Iraq. Io me la cavavo, si, un figlio di un anno, mia moglie, che si, era quella che lui aveva visto mia fidanzata. Mi ero laureato col massimo dei voti in Ingegneria Informatica e adesso… Il filo dei ricordi ci impediva, in quella estemporanea rimpatriata, di renderci conto che stavamo completamente emarginando sua moglie che, nel frattempo, si era avvicinata al gruppetto festante dei due amici e ci osservava paziente. Fu lo stesso Tony a interrompere il flusso della nostra memoria per presentarmela: “Piè, ti presento Sara” La presentazione banale nemmeno mi giunse, mentre la mano si tendeva in automatico e il sorriso si stampava sulla mia faccia la mia mente vagava persa nei suoi occhi, quasi rapita. Dovrebbero mettere una taglia sui tuoi occhi, la lusingai tra me e me, sono due rapitori spietati di cuori. Occhi scuri come la brace, dello stesso colore prezioso dell’ambra antica mi fissavano maliziosi dietro una fitta cortina di lunghe ciglia. Desideravo la moglie del mio amico e ne percorrevo rapito tutto il viso, notando quello che la lontananza mi aveva tenuto nascosto per troppo tempo. Ne guardavo di sottecchi la delicata curva della vita che divideva i forti fianchi dal busto delicato, mentre le frasi di circostanza venivano emesse senza controllo. “Piacere Sara” “Pietro, piacere mio” “Tony mi ha molto parlato di tuo fratello” “Eh, si Pietro, anni di amicizia e l’università fatta assieme non si cancellano” “Pietro, ma dimmi di te…” “C’è poco da dire” Nel flusso di gentili nonsense riacquistavo a mano a mano il controllo cosciente del mio pensiero e del mio parlato, deciso anche a non fare la figura del carciofino sott’olio. Esordii quindi con: “Allora, direi che non posso fare a meno di offrirvi un aperitivo, anche se il bar ” guardai di sfuggita il barista, abbassando la voce “lascia un po’ a desiderare…” “Va bene lo stesso” accettarono “Cosa prendete, allora?” “Un martini senza ghiaccio” disse lui “Per me un’acqua brillante…” (era anche di gusti simili ai miei, la fata!!!) Ordinai l’aperitivo rammaricandomi ancora della scarsezza del posto “E che fa, è bello reincontrarci dopo tanto…” mi rincuorò lui Sorseggiando insieme l’aperitivo, tra una nocciolina e l’altra, interruppi il vulcanico flusso dei ricordi di Tony per dire: “Ma forse vi ho disturbati, mi sembravate così…” “Non preoccuparti Pietro, stavamo solo commentando le foto delle nostre vacanze” fece lei premurosa Anni e anni di fotografia digitale avevano cancellato in me che un albumetto di plastica rossa (ma perché tutti i fotografi si ostinano a comprare albumetti di quel colore?) altro non era che un album di foto fresche di stampa. Svelato l’arcano… “Anzi, ti vuoi unire a noi?” disse Tony “Dai è divertente, sono le foto di gruppo: eravamo a Male” aggiunse Sara “Maldive…” disse il viaggiatore che è in me “si, conosci?” fecero loro all’unisono, felici di aver trovato affinità elettive “Ci sono stato diverse volte” “Allora apprezzerai le mie foto, ci sono dei panorami stupendi” replicò Tony Ci sedemmo quindi attorno ad un unico tavolino col fine comune di commentare la bravura del fotografo, ma erano altri i panorami che mi avrebbero fatto sognare, non certo le spiagge di bianchissima sabbia o il mare di cristallo. Sarebbe stata la Venere botticelliana sorgente dalla spuma del mare a calamitarmi a se con la stessa, inesorabile forza che ha un piano inclinato su di una biglia perfetta. A volte battezzavo questa rivisitazione filosofica della fisica come “necessità”. Era necessario che io vedessi quali profonde armonie erano state fermate per sempre nelle immagini. Innestai il pilota automatico nuovamente, ma questa volta scientemente, non in modo subìto, concentrandomi esclusivamente su lei, mentre sentivo la mia voce lodare il fotografo per inquadrature, scelta della luce, composizione e altre cosa di cui nulla me ne importava. Ogni sua foto illuminava il mio sguardo, mentre la realtà intorno a me svaniva. Le uniche cose coscienti che riuscii ad articolare furono lodi discrete al suo indirizzo, sempre ricompensate (che cosa meravigliosamente eccitante è il civettuolo schernirsi) da uno sbattere improvviso di ciglia, da un illuminarsi dei suoi occhi color di brace, da una sensualissima alzata di spalle. Delle spiagge di sabbia bianca non vedevo nulla, lo stesso nulla color turchino che contornava le immersioni di Sara nel bellissimo mare della Maldive, o lo stesso nulla delle sagome senza espressione che la attorniavano nelle numerose foto di gruppo. Era dotata della stessa grazia, felina ma discreta, delle donne del Sud che affollano i romanzi di Camilleri, superbo incrocio tra la pelle ambrata delle saracene e i tratti nobilmente alteri delle donne greche, felice sintesi senza tempo dei caratteri dei popoli che da millenni decisero di fare della nostra attuale terra la propria patria, salvo essere scalzati via dal prossimo popolo che la necessità faceva avventuriero. Assolato crogiolo (adesso usa dire melting-pot…) di popoli che hanno dato vita all’armonia della bellezza di Sara. Adesso, a poche decine di centimetri da lei, ne aspiravo a pieni polmoni la “sciaura”, il profumo, che sapeva di notti africane e di dolci, sensuali promesse. La cosa singolare della sensualità è il suo scorrere quieto anche contro la nostra volontà: nessun argine la imbriglia, neanche il più casto dei vestiti o l’aspetto più dimesso: sgorga tranquilla come una sorgente nel deserto, emana dai pori della pelle, fulmina con uno sguardo, uccide con la distillata melodia della voce. Le foto erano perfetta testimonianza dello splendore di Sarà, Tony era un provetto fotografo, anche se con qualche ingenuità. Ma impagabili erano le panoramiche sui suoi seni giusti ma marmorei, inarrivabile , alla fantasia e alla mano di Fidia, l’armonia non abborracciata ma tranquillamente ritmica delle curve scandite dal suo sedere, con le due meravigliose fossette simmetriche, imbarazzante il lampo del candore del suo sorriso, puro succo distillato di perle del Giappone. Sara commentava tranquilla le foto con Tony, sorridendo ai miei complimenti, civettuola in mezzo a due uomini, con lui per nulla ingelosito dalla cosa. “Sara, debbo confessarti una cosa…” “Cosa, dici?” “Sai credo che la cosa più bella di queste fotografie sia tu…”
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