Amava dire e pensare di essere fedele, poiché in effetti non dubitava di amare sua moglie, di condividere con lei tutto ciò che sarebbe venuto. Amava leggere, di ogni cosa, anche della morale o della religione, quand’anche sapeva benissimo del proprio libertinaggio. In particolare aveva colto il significato profondo delle sacre parole “c’è un momento per dare, non solo per ricevere”, capendo che proprio dal punto di vista egoistico, meglio che rompere è il saper arricchire di infinite e impensabili sublimazioni perfino le solite incazzature, entro l’indissolubilità del matrimonio. Sicchè le cose ammaliatrici, la sirena splendente della sensualità trasgressiva, si affacciavano improvvise senza turbarlo, non inaspettate e ne coglieva a volo, se poteva, come appostato dietro un capanno. Quella mattina il sole di gennaio, diagonale e impavido tra la caligine trasparente, tentava di spezzare il dominio del freddo, che si manifestava nelle figure indefinite già a pochi metri e nell’alito bianco salire dai baveri alzati. Rientrava a casa di corsa, nel vicolo, per riprendere una busta dimenticata; saliva controsole e quando già piegava verso il portone con le chiavi in mano, distinse nella persona che veniva in senso contrario -al galoppo senza correre- la Silvana, madre di Michelino, che abitano dietro la piazzetta. Si salutavano sempre, com’è naturale, ma non s’erano mai conosciuti; sapeva quelle poche cose che si sanno dentro un quartiere, la vedeva passare di fretta, a riprendere il figlio o con le buste della spesa, le tette pronunciate e semoventi, i tacchi un po’ alti, i capelli neri tenuti di lato; l’aria sbarazzina mescolata alle preoccupazioni dei trent’anni… Indugiò non più di mezzo passo, raschiando la voce, per farsi notare, tanto da incrociare lo sguardo di lei alla solita maniera, frettolosa e cortese; solo che stavolta s’era piegato di più verso il portone e nel salutarla l’aveva guardata con occhio più attento; lei lo sentì e prolungò lo sguardo, lui evolse il saluto nel gesto della testa e forse della mano che l’invitava a sè, dentro il portone, con gentilezza (non solo l’ardire) e un sorriso ineffabile; lei leggermente interrogativa -ma senza mutare passo- converse sul portone, entrò, lui le poggiò la mano sulla spalla e la condusse paterno verso le scale, per superare senza respiro il portone al piano terra e quello al primo piano, sguardi indiscreti di altre famiglie, ma a quell’ora doveva andare bene; salirono, infilò e girò la chiave, dai suoni che non finivano mai… la picca destissima con la testa violacea fuori dallo slip lo trainava come coppia di bovi, richiuse il portone col piede, non si erano detti una parola, era fatta, come salvati dall’elicottero nel mare minaccioso, la mano sempre sulla spalla, la girò, lei si girò, docilissima e mansueta come agnello al sacrificio. Non parlavano. Riuscivano solo a guardarsi. Le mise due dita gentili e tese -guardandosi negli occhi- a scivolare delicate lì davanti, sopra la gonna; lei aggiunse le sue e sentì sciogliersi tutta sotto la lana pesante… Si accapigliarono neutralizzandosi il fiato in bocca. L’abbraccio liberatorio fece scivolare i cappotti, il palo di lui -stringendosi da matti- la rendeva incredula, come immersa di colpo nell’acqua gelida; allora Silvana scostandosi un attimo ripose mano alla gonna, ma sotto, all’interno, stavolta da sola -non capiva bene: tirò giù calzamaglia e slip, tutto assieme, col dorso del pollice urtò il bottoncino impertinente, trasalì ma tacque; sfilò il malloppo di indumenti dalla gamba destra, che aveva sollevato come una ballerina; la riposò lenta e si accovacciò senza guardare, intuendo: lui non era stato da meno. Fisso come un serpente, gnudato quel che basta, la attendeva seduto: ecco che la impala senza pietà; si guardano spaventati e fradici, sullo scalino a spicchio che gira, lui con la schiena sul termosifone acceso. Tutto così veloce, meno di trenta secondi dal portone. Le mani di lui sul collo, lei lo fissa sbigottita, ancora coi maglioni ma aperta come ostrica di luglio, sui tacchi come esotico piedistallo; la spinge premendo verso il basso, forte sulle spalle come un giocatore di sumo, stringe le natiche a mandare la picca in su, di legno duro africano, muto e implacabile. E’ un attimo (il secondo dopo tutto, dopo quel po pò di abbordaggio): lei non può che sfiatargli in faccia la poderosa sborrata, senza smettere di guardarlo strabuzzata, e allora lui senza indugio, anzi con la più violenta determinazione ad abbandonarsi senza calcolo a quella scena folgorante, le morde le labbra aprendosi a una dozzina di sussulti e minzioni da strozzare un cavallo, le caccia in fondo alla pancia una bicchierata di sborra fiammante, sempre più giù. A scanso di qualsiasi equivoco. Gli scalini di legno mandarono gemiti sinistri. L’alito naturalmente non si vedeva più ma il vapore e il calore fecero lo stesso alone di fuori. Non disarmò, troppo era il fradiciume. Appena realizzò che stavano chiavando sul serio, lei esposta e impudica come dal chirurgo e imbrattati ben benino, da duro e inossidato che era rimasto dopo lo schizzo, tornò subito ai picchi dell’orgasmo: ristrinse le natiche, stavolta più lento e ripetuto, chissà come -non gli era mai successo- risborrò di nuovo, con meno liquido seminale, ma con più acuta gloria, quasi mistica e dolorosa; le strinse il viso con due mani, le dita negli occhi, nel naso e nella bocca, deformata e dagli occhi sbarrati; stringeva da matti e la sollevava su e giù per la testa, come gallina stecchita, lei era un mostro di bava e di sborra, e risborrò spaventata e spaventosa (a guardarla bene). Stettero così un quarto d’ora, con rantolo e moto meccanico. E’ ovvio che lui non avrebbe potuto schizzare ancora, ma l’idea di essere lì, a quel modo, gli piccava la testa e lo manteneva briaco di porcherie; lei sbavava, umile e rantolosa, manteneva gli occhietti inebetiti e -com’era suo costume- sborrava a doppietta, ripetendosi ogni po’. Era sempre più leggera, gonfia (di che?), sentiva la testa ormai di vetro e i tratti somatici solidificati nella smorfia, come mano di calce data dal muratore. Dopo quel pò di quarto d’ora, Lucianino le infilò le mani sotto il maglione per trarne fuori quelle due puppe di cui sapeva, non si sbagliava, gonfie di tremore e battiti violenti, per quel cuore ormai disperato, come inseguito da mastino implacabile: c’era da star curiosi a vedere quale delle due sarebbe scoppiata prima; pareva volessero scappare, una di qua, l’altra di là, ma invece obbligate a sbrodolare lì assieme a quella mischia di peli, fradiciume e pelle bianca; ne distingueva come al microscopio ogni poro, ogni cambio di colore. Si attaccò lento, alle puppe, facendone tutt’uno con le labbra a fiorellino, le carezzava a giro; le fragoline rosa volevano aprirsi, senza riuscirvi, lui cercava lì, tra quelle praterie e colline infinite la porta al nulla eterno. Ma non vi riusciva… Bella e troia quella scena davanti a sè, i seni lo accecavano, si vedeva benissimo che i capezzoli gonfi e chiari sopra il gonfiore delle puppe emettevano flussi impalpabili ad ogni colpo di maglio, un fiotto rotondo ad ogni sbroda. Quasi ad un segnale convenuto -senza parlare- lui la sollevò un pò sulle cosce, lei a sua volta si alzò sui tacchi quel pò che basta, inarcandosi e poggiando una mano a far leva sullo scalino più alto. Ma con l’altra Silvana impugnò la picca e senza freddarla un momento, come consumata professoressa, la ripuntò sullo stesso punto, impercettibilmente più in là, tre o quattro millimetri, quel che basta, ovvero già nella tonda pastiglia del buco del culo. L’oscena brodaglia inghiottì la picca esattamente come nella rosa di prima: l’unica mutazione erano gli occhi di lei, di terrore, e il ghigno feroce di lui, che non le perdonò l’avventura e rispinse in giù senza pietà, come i giocatori di sumo. Poveretta. Sarebbe potuta morire, perché no. Non si scherza col cuore, e col culo che gli manda scosse troppo dritte e violente. Non poteva durare più di tanto o sarebbe morta; forse altri cinque minuti terribili, stordita, felice e ragadi incontrollate. Dire che sborrava è poco e generico: cos’è infatti l’idea comune di sborra a confronto con quella disperata situazione? Tanto più pericolosa perché lui non avrebbe potuto sborrare a breve, e montava sopra la libidine il gusto aspro e profondo della violenza… L’istinto finalmente le fece stringere forte i nervi e i muscoli del tortellino, lui ne ebbe quasi male e minse forte, lei pianse e sborrò un’ultima volta, grazie a quella stretta imperiosa. Si sollevò come si strappa un cerotto: finalmente era fuori. Si accasciò gobba ruotando il culo fino allo scalino, una mano esausta sopra la rosa, in un intruglio di sangue, sperma e macchie marroni (?); la testa reclinata, come quella antica statua di marmo -il Gallo Morente- che l’aveva sempre eccitata, quante sgrillettate nascoste! Avrebbe desiderato liquefarsi, e che gli scopini -di cui sentiva fuori il tramestio- l’avessero portata via, per sempre, nella muta felicità dell’annientamento e del buio siderale… Marino invece era incordato, la seconda schizzata troppo vicina alla prima gli lasciava incompiuta l’opera magna del terzo schizzo, trittico idilliaco che non sapeva se pretendere adesso o rimandare al caso. Si levò lento sulle ginocchia, fece per sollevarle straccamente il bacino, forse per girarla o prenderla chissà come, ma lei scattò “Sei matto?”; storta e disperata riassunse le sguardo frettoloso di sempre, si rassettò in un qualche modo, indolenzita, un attimo dopo era già sulle scale. Lui s’affacciò facendo appena a tempo a vederla dileguarsi col suo solito passo, anzi un pò di più. Non sapeva se tirarsi un segone. Non ce l’avrebbe fatta. Era infelice. Proferì una frase sconnessa “quando torna Lidia stasera l’ammazzo”, ma inequivoca. Ancora saltellando prigioniero dei pantaloni, raggiunse il bagno, si lavò ben benino; annusò ed esaminò gli indumenti; sul bidèt pensò e ripensò, gli venne in mente Manuela ma anche Lidia (vagamente, con un altro -nella situazione della Silvana- che le faceva male al culo…), gli tornò duro ed eterno, e strillando come un maiale allo scanno finalmente sborrò per la terza volta. Eppure rimase serio e teso tutto il giorno, tornò al lavoro e poi a casa di nuovo, alla solita ora, assorto e distratto come a studiare il delitto perfetto: voleva scortellare sua moglie, un qualcosa di lei -chissà cosa- lo teneva in tiro e aspettava la sera.
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