Ingollo un altro sorso e il bruciore accompagna l’alcool mentre va giù, quasi a sottolinearne il percorso nell’esofago. Sono finalmente seduto sul bordo del letto. Come cazzo fa il mondo a girare così vorticosamente se ho gli occhi chiusi? Mi aggrappo alla bottiglia di vodka, unico punto fisso del mio universo incostante. Sollevo le palpebre, prima una poi l’altra. Meglio di no, meglio tornare nel limbo. Ricado sul letto disfatto, tutto si fa buio. Morire, dormire, forse sognare. La realtà è una lama di luce che penetra dalla finestra a ferirti gli occhi, proprio quando stai sognando di essere tornato ai tuoi sedici anni e di sapere cosa fare con miss Muretto, stavolta. Devo ricordarmi di dimenticare di pagare la bolletta. Il mondo non ha smesso di girare e il mio corpo ha scelto il modo più rapido per smaltire l’alcool. Cazzo, il parquet di Linda non si riprenderà mai dallo shock. Una risata isterica mi sale in gola e quasi soffoco nel mio vomito mentre, tossendo e sputando, mi chiedo perché mai gli attori che danno di stomaco nei film si aggrappano al cesso. E’ una cosa che mi ha sempre fatto schifo, credo fermamente che un uomo debba mantenere un atteggiamento dignitoso in certi frangenti. Fiero delle mie convinzioni, mi pulisco la bocca con la manica dello smoking e fisso un punto di fronte a me. La porta del mio studio. Conto fino a tre e, senza imbrogliare, mi alzo di scatto dal letto. Pessima idea. Un fiotto di vomito va a colpire il tappeto persiano. Mi sfiora il pensiero che la macchia è del colore giusto. Linda approverebbe l’abbinamento. Muovo alcuni passi appoggiandomi alla parete, lasciandovi il segno rosso del mio passaggio. Stringo ancora forte nella mano destra la bottiglia. Vodka alla pesca. Ma tu guarda un uomo con cosa deve ubriacarsi. Le tempie mi pulsano ed evito di guardare la mia immagine nello specchio antico, quando vi passo davanti. Regalo dei genitori di Linda per il nostro matrimonio. Ci ripenso e torno indietro, poi rimango ad osservare le crepe e i mille frantumi che cadono per terra. Sette anni di disgrazia in cambio di un’immensa soddisfazione. Decisamente, uno scambio equo. Un tempo il mio mobile bar conteneva del buon whisky, ma in quel tempo ero astemio, ovviamente. Riuscire a sbronzarsi come si deve con martini e cocktail da party richiede molto più impegno e uno stomaco di ferro che non ho più dal 1986. Farsi trascinare via completamente ubriaco dalla casa del tuo editore e produttore mentre urli frasi sconce e politicamente scorrette, invece, richiede quel tipo di sconsideratezza che solo un pazzo furioso puo’ avere. Parole di Linda. Mentre mi accascio sulla poltrona girevole davanti alla mia scrivania penso che dovrei tenerle a mente. Calzerebbero a pennello sulle labbra di Virginia. Come sarebbe a dire chi è Virginia? Virginia è la protagonista troia ma sfigata della mia soap opera, che va avanti da dieci anni, seguita da milioni di casalinghe e segretarie represse dalla lacrima facile. Mentre il file del mio Libro, il capolavoro che doveva lanciarmi nel mondo della letteratura, è stato aggiornato per l’ultima volta il 25 dicembre del ‘9! 9. Più o meno l’ultima volta che io e Linda abbiamo scopato. Rovisto nei cassetti, sotto il fermacarte, rovescio il vaso cinese dell’ennesima dinastia Ming che ha resistito a rivoluzioni, terremoti, inondazioni e aste fallimentari, ma che deve arrendersi all’idea di soccombere al mio quindicesimo campari. Maria dice sempre che se sono abbastanza sobrio da riuscire a trovare le chiavi dell’auto, allora sono anche in grado di guidare. Trovo il tempo di scrivere un memo, per ricordarmi di licenziarla. All’inizio credevo mi nascondesse gli alcolici per non farmi bere, pensavo si preoccupasse per me. Poi ho scoperto che in realtà finivano per appesantirle le chiappe. Ma non dico nulla, almeno adesso so dove trovare da bere se ne ho voglia. E ora ho proprio bisogno di un richiamino, giusto per rimettere in movimento i succhi gastrici. Qualcosa cade a terra, con un tintinnio di metallo. Bingo! Le chiavi strette in mano, in sole tre soste tecniche riesco a trovare la vecchia ford parcheggiata contro il lampione acceso. Impreco ad alta voce. Un altro paio di bottarelle e si spegnerà definitivamente. Parto sgommando verso il bar più vicino, sentendomi improvvisamente più socievole. Non permetterò che accada anche stasera. Allontanati pensiero, non venire a disturbare la quiete della mia anima, non stasera. Per favore. E’ come quando un vetro s’incrina, e senti dentro di te la fessura allungarsi, dapprima quasi invisibile, ti da’ l’impressione di poterla gestire, poi sempre più profonda, a spaccarti in due. E lo sai che se cedi anche solo per un istante alla lusinga dell’autocompatimento non riuscirai più ad avere la meglio, e quella stupida acqua salata comincerà a colarti dagli occhi, offuscandoti lo sguardo e impedendoti di pensare con chiarezza. No. Non cederò. Mi guardo allo specchio, ammiro l’effetto della biancheria nera sulla pelle olivastra. Infilo quelle scarpe dal tacco impossibile, acquistate in un momento di shopping delirante. L’armadio sembra un buco nero con delle macchie color fuoco qua e là. Perfetto per il mio umore. Una gonna longuette con spacco e una semplicissima maglietta a “V” andranno bene. Un filo di rosso cupo sulle labbra, la matita nera a sottolineare la profondità dello sguardo e sono pronta. Un passo indietro e mi rivolgo un’occhiata valutatrice allo specchio, accarezzanaccarezzandomi un fianco. Pericolosa. Mi sento esattamente così mentre entro nel solito locale. Girello con aria annoiata con il mio daiquiri in mano, senza neanche sorseggiarlo, ondeggiando sui tacchi troppo alti. Eppure mi sento finalmente a mio agio, per la prima volta in questa giornata del cazzo, mentre la musica sale di volume impedendo ai miei neuroni di vagheggiare universi in cui potrei essere una persona diversa. E’ un continuo tum-tum che scandisce i miei passi e il mio respiro, eppure sono lontana dai movimenti frenetici di chi si dimena in pista, sudando. Il corpo teso, i muscoli pronti a scattare mentre i miei occhi passano al setaccio la sala. Una mano sulla mia spalla, mi volto lentamente e saluto Carla. “Non eri a cena dai tuoi stasera?” Mi urla nell’orecchio, per sovrastare la musica. Scuoto la testa e lei capisce che non è il caso di fare altre domande. Ragazza intelligente. Passa il braccio intorno alla mia vita e mi infila la lingua tra le labbra, spingendovi una pasticca. Ingoio aiutata da un sorso di daiquiri, grata. Le accarezzo un braccio e mi lascio trascinare a un tavolo. Una sola occhiata mi basta per valutare la situazione, così tiro su la gonna e mi accomodo sulle gambe di un tizio dall’abito scuro, che affonda subito la faccia nella mia scollatura. Rido, la barba pizzica e lui è andato direttamente a tastarmi il sesso. “Non sono un travestito. Non la sai riconoscere una donna?” lo prendo in giro, rubandogli il drink. Lo butto giù e neanche mi rendo conto di cosa sia, sento soltanto che cola come fuoco liquido nel mio stomaco. Stringo forte le cosce, imprigionando la sua mano, e una fitta di desiderio mi percorre il ventre. Cerco con lo sguardo Carla, che ha già sta tastando la patta dell’altro uomo. Non le sono mai piaciuti i preliminari. Sto per seguire il suo esempio, quando un crash di bicchieri alle mie spalle mi fa voltare di scatto. Smoking nero, le mani alzate a dire nonsonostatoio, aria beffarda e scanzonata, mentre la cameriera raccoglie il vetro da terra imprecando. Ci scambiamo un sorriso che è il primo sorriso della giornata. Un sorriso un po’ sorpreso. Due secondi dopo sono sulle sue ginocchia. “Te l’ho detto, tesoro. Prima di andartene passi da quel signore grosso là in fondo e paghi, fanno tutti così.” No, non sono stronza. O forse solo un po’. Al diavolo! Gli occhi si muovono di continuo dalle mie labbra al seno e viceversa. E’ abbastanza brillo da fare sì con la testa. Qualsiasi cosa fosse, comincia a fare effetto. No, non riempie il vuoto ma lo sfuma, ecco. Pochi minuti dopo lo specchio della toilette delle signore restituisce l’immagine di una donna barcollante che armeggia con la cintura di un uomo. Mi guardo come se guardassi un’altra e rimango distante ad osservare l’aria da consumata baldracca con cui quella glielo tira fuori e comincia a succhiarlo, andando su e giù lungo l’asta. Vorrei rimanere così per sempre, ma dura poco: l’immagine sfuma, sbiadisce, si contorce e mi ritrovo inginocchiata per terra, la testa leggera e la bocca piena. Lui mi afferra, mi solleva sul marmo scuro del lavabo, scosta gli slip e affonda le dita dentro di me, due volte. Soddisfatto, pulisce la mano sul mio viso e mi fa appoggiare le gambe sulle sue spalle, per entrare meglio. Il mio odore mi riempie le narici, mentre lui prende a sbattermi. Mi morde lì dove arriva, soffocando degli strani grugniti, e la sua saliva prende a colarmi giù lungo le gambe. La cosa mi fa un po’ schifo e sono tentata di uscire dal comodo limbo in cui la mia mente si ! è rinchiusa, per provare nausea e ribellione. O magari solo per pulirmi. Scoppio in una risata secca, senza motivo. Un altro paio di colpi decisi e lui ha finito. Si unisce a me, risate tra ubriachi riecheggiano sotto il neon giallo. Apro gli occhi. Pessima idea: tutto gira, in un vortice di luce senza inizio né fine. Aspetto un po’, non ho fretta. Inarco la schiena, un colpo di reni e sono giù, con i piedi per terra e le palpebre serrate. Mi tiro giù la gonna, ondate di nausea mi assalgono. Me lo infilo nelle mutande, con qualche pezzetto di carta igienica ancora appiccicato alla pelle. Sono in pace col resto del mondo mentre esco dal cesso e non mi accorgo del buttafuori che sta entrando. La botta è forte, ma me la cavo con un mezzo sorriso e una pacca sulla spalla, da “uomo a uomo”. O meglio, credevo andasse così. Ho ancora le banconote in mano, forse vuole riscuotere. Gliele metto in mano. Non è molto elegante, immagino, ma magari con l’esperienza migliorerò. “Che cazzo le hai fatto?” Grida quello, e i soldi non spariscono subito nelle sue tasche, così io mi giro e vedo la ragazza per terra. Non l’avevo osservata bene, ma ora noto soltanto che ha la faccia e il seno sporchi di rosso. Impreco sottovoce. Vaglielo a spiegare all’energumeno che il sangue è mio. Nel frattempo lui l’ha sollevata e la sta prendendo a schiaffi. Cerco di ricordare una preghiera, nella speranza che qualche deità stia guardando dalla mia parte in questo preciso istante. Lei comincia a tossire, finalmente, e io riprendo a respirare. Lucido. Improvvisamente, squallidamente lucido. E’ incredibile quanto un istante di paura possa scavalcare ore di coscienziosa autodistruzione. Mentre le pratica la respirazione bocca a bocca rimango nel mio angolo e mi lampeggia nella mente il pensiero che io non l’ho neanche baciata. Ridacchio mentre avrei voglia di riprendermi i miei soldi. Il buttafuori mi guarda feroce: “Cazzo ridi?” Guardo quella selva di muscoli di sotto in su e penso che potrei sbilanciarlo e stare a sentire che rumore fa quando cade. Lui è di diverso avviso: mi afferra per il colletto della camicia e comincia a sollevarmi, contro il muro. Penso alla colt nel cassetto della mia scrivania, alle lezioni di judo prese a otto anni. Non ho mai continuato perché dopo due mesi mia madre si era stufata di accompagnarmi in palestra. Penso che se morirò oggi, in questo gabinetto, sarà per colpa sua. L’ho già perdonata, nella speranza di guadagnare il paradiso con quest’ultimo grande gesto, quando mi sovviene che finalmente avrò qualcosa da dare in pasto al mio psicanalista. Lunedì per prima cosa ne cercherò uno sulle pagine gialle, dio lo giuro, basta che mi fai portare la pelle fuori di qui. Mi spiega con molta cortesia come stanno le cose e come andranno e nel giro di due minuti mi ritrovo al volante della mia ford, con la signorina stravaccata sul sedile anteriore. Ospiti indesiderati. E due biglietti da cinquanta strappati in quattro parti. E un “chiamiamo la polizia se non sparite tutti e due che questo è un locale rispettabile, signore”. E un pugno in faccia nel caso io non abbia bene inteso. “Dai, Ginger, buttalo giù.” Sembra un disco rotto, questa voce che oltrepassa l’ovatta. Ripete le stesse parole, incalza, poi si spazientisce e qualcosa di caldo e amaro mi scotta la lingua. Ingoio per non soffocare. Caffè. Caffè?! Sollevo le palpebre, lentamente. Morbido. Caldo. Dove cazzo sono? Metto a fuoco due occhi scuri, un naso enorme. Chiudo gli occhi, li riapro. Il naso sembra ridimensionato. Sotto un sorrisetto che non promette nulla di buono. “Cos’hai fatto all’occhio?” mormoro, tirandomi addosso una coperta. “Mi avanzava una bistecca, Ginger.” Si siede sul letto, di fronte a me, e mi scruta, mentre cerco di riallineare gli ultimi eventi. “Regalo del tuo amico. Quello grosso in fondo, ricordi?” Lo smoking! Sono quasi del tutto in me adesso, e non è un granché. “Abbiamo scopato…” comincio. Lui annuisce. “Lieto di notare che la cosa non è passata inosservata.” Deglutisco. Ho la bocca ancora più amara. “Ma cosa ci faccio qui?” Tira fuori un pacchetto di sigarette, con calma. Ne sceglie una. Sì, la sceglie, non prende la prima che capita come farebbe chiunque altro. Nossignore. L’accende, aspira con voluttà, gli occhi semichiusi per il fumo. Riesco a sentire il rumore della carta che brucia. Tossisco, spezzando l’incantesimo. “Ho provato a pagare, come mi avevi detto tu.” Sollevo le ginocchia al petto, frugando alla ricerca di qualche neurone sopravvissuto per mettere insieme una frase che abbia un senso. “Non avevo mai sentito che qualcuno fosse stato preso a pugni per aver pagato una puttana.” La butta là così, e la parola puttana non sembra per nulla offensiva. In quel momento desidero esserlo davvero. Magari adesso avrei un pappone che mi sta cercando. Mormoro qualcosa. “Non ho neanche sentito la tua risposta.” Scandisce bene lui, gli occhi fissi sulla cenere che si accumula sull’estremità della sigaretta. Mi schiarisco la gola. “Uno scherzo.”
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