Dovrei dire che rimasi incantato a studiare le circostanze del sonno della donna che avevo tanto amato?Non fu così: l’occasione mi parve più che favorevole per permettermi di mettere in atto la seconda parte del mio proposito, del mio folle proposito.Sottrassi le mie braccia al suo corpo caldo: si mosse nel sonno, ma senza destarsi. Scivolai in anticamera: la sua borsetta era lì, dove ricordavo di avergliela vista posare, esattamente sopra il cassetto contenente la cera per il calco.Fui imbarazzato dalla presenza di ben cinque chiavi: rapidamente, presi il calco a tutte e cinque, non era il momento degli imbarazzi. Riposi le chiavi nella borsetta, gettando un’occhiata ispettiva dentro quest’ultima: le solite cose che lei aveva sempre tenuto in borsetta; notai, unico tocco diverso, l’imbarazzante presenza di un deodorante intimo.Tornai nell’altra stanza, al suo corpo nudo e addormentato, lo fantasticai per alcuni minuti, lo considerai attraverso le diverse sfaccettature che la sua presenza scomposta proponeva alla mia attenzione: in fondo, era sempre la stessa ragazzina di una volta, e quel qualcosa in più che era diventata, veniva annullato dal suo atteggiamento nel sonno.Soffermai lo sguardo sulle natiche, spudoratamente presentate ai miei occhi angosciati: contratte le anche, e le ginocchia, nella sua consueta posizione fetale, vedevo far capolino, fra la congiunzione delle natiche alle cosce, la peluria bionda circostante le rosse lunghe labbra sporgenti.Mi resi conto che mai, prima, mi era capitato di vederla da quella angolazione, e in quella positura.La peluria sfumava in alto, andandosi a perdere sottile nel solco tra le natiche.Ricordai i nostri primi timorosi contatti carnali: ricordai il mio pene premuto, incuneato fra quelle natiche, eppure mai immerso in esse.Mi prese una gran voglia di tentare quella via, dopo tutto, sapevo, qualcun altro l’aveva aperta.Mi avvicinai al divano e mi ci ridistesi, lei si mosse nel sonno, si girò, mi abbracciò. Percorsi con le mani esitanti le curve dolci dei suoi fianchi, spinsi le dita a saggiare il tiepido solco setoso.Il pene mi si era nuovamente drizzato, e dimostrava ora la sua impazienza compiendo impercettibili scatti repentini. Baciai il collo di Raffaella, aspirandone il profumo, che non riconobbi.Lei si destò, quasi di scatto, voltandosi verso lo schienale del divano, percepì certo, brucianti, le mie mani sulle sue natiche. – Che ore sono? – chiese. – E’ ancora presto – dissi io – hai dormito solo dieci minuti. -Mi guardò e parve voler dire qualcosa, glielo impedii dandole la lingua da succhiare. – Hai ancora voglia? – mi chiese dopo il bacio, stupita dalla pressione che aveva percepita contro il suo ventre.Anuii – Con te ne ho sempre voglia, lo sai. – dissi – Ma questa volta in un altro modo – – Cosa vuoi dire? – chiese, conoscendo benissimo la risposta, e forse temendola. – C’è una cosa che io e te non abbiamo mai fatto, in modo completo. – le sussurrai in un orecchio.Se volle dire qualcosa, glielo impedì nuovamente la mia bocca affamata della sua. – Ma è diverso! – esclamò appena si fu staccata – Mi farai male! – – A quanto mi hai detto, la strada dovrebbe essere abbastanza agevole, ora, no? – dissi. – Ma… con Franco mi faccio sempre male, e tu… – – Guarda che magari ce l’avrò anche più grosso, ma non sono mica un mulo, no? -Impedii qualsiasi sua osservazione baciandola nuovamente. – Lui come fa per… lubrificarti? – chiesi poi. – Beh… con la lingua, oppure… con il mio liquido, se me ne esce. – sospirò. – Preferisco la prima soluzione, sai? – Senza attendere la sua risposta, corsi a lubrificare con abbondanti razioni di saliva quel tenero, scuro ingresso. Dolce, come un piccolo occhio che mi guardasse, si trovò dilatato dalle mie dita, cosparso e penetrato di saliva e sudore. Con un dito spalmai meglio all’interno quanto la mia bocca aveva deposto, saggiando contemporaneamente l’elasticità di quel foro che le mie dita avevano conosciuto un tempo intatto e nuovo a certe sensazioni. – Ti fa male? – le chiesi, manovrando adagio il dito introdotto. – No. – mi rispose lei con un filo di voce. – Ti prego… non mi va di farlo. Non possiamo evitare? -Non le risposi e spinsi il dito più a fondo, fino a farlo scomparire completamente alla vista. Ebbe uno scatto incontrollato e serrò le natiche. – Ed ora? – chiesi. – Si, mi fa male… toglilo per favore! – soffio lei. – Forse sarà l’unghia, scusami. – feci io.Trassi il dito dall’ano contratto, e lei trasse un sospiro. – In che posizione lo fate, di solito? – chiesi.Parve imbarazzata, non parlò. – Ti metti in ginocchio o stai distesa? – insistetti. – Prima distesa, e poi… in ginocchio… – disse esitando. Mi stesi sul fianco dietro di lei, ed indirizzai il mio pene, duro come il ferro, tra le natiche che la mia mano manteneva aperte. – No!… – Urlò quasi, appena la sfiorai – E’ grosso, mi farai male! – Respirò comunque di sollievo quando cercai e penetrai la sua vagina.Iniziai a scorrere con movimenti lenti, accelerati di colpo nello sprofondare in lei, per gustare il colpo contro quei glutei sodi ed morbidi nel contempo. Sentivo il pene inturgidirsi ancora di più, allungarsi fino a dolermi. – Quante volte l’avete fatto?… – le chiesi.Ebbe un’esitazione – … Un paio di volte… – rispose con voce soffocata, – … ma mi faccio sempre un male boia e lui non ce l’ha grosso come il tuo! -Le passai un braccio sotto l’ascella e arrivai a schiacciarle un seno con l’avambraccio e serrare l’altro con la mano, volevo tenerla bloccata per evitare che mi sfuggisse. Estrassi il pene e, aiutandomi con l’altra mano, lo puntai sull’ano scivoloso per la saliva. – Mamma mia!… – si mise quasi a piangere con tono lamentoso, – Ti prego, non farlo… mi farai male, lo so!… – – Sssss!…. Stai calma e rilassati, il dolore passerà presto, vedrai… – cercai di rabbonirla. – Per pietà, non farmi male!… Fai piano!… Ho una fifa tremenda… – Alzò le mani a serrarmi con forza l’avambraccio per resistere al previsto dolore e trattenne il respiro. Iniziai a premere con forza, mentre lei stringeva le natiche impaurita. – Non ti contrarre, se vuoi diminuire il dolore devi lasciarti andare… – Sentire che obbediva e sentire la cappella che affondava di colpo fu tutt’uno.La sentii irrigidirsi e tendersi come un arco con tutti i muscoli del corpo tesi nello spasimo. Cercò di scattare in avanti, ma la trattenni con forza.Emise un “Aaahhh!” forte e prolungato ed inizio di nuovo a serrare lo sfintere, ma ormai attorno al mio pene. Le sue unghie si piantarono nel mio avambraccio e il suo respiro si fece affannoso, cominciò a piangere come una bambina. Sollevai il capo quanto potei e vidi che teneva gli occhi chiusi, si mordeva il labbro inferiore e le lacrime le scendevano sulle gote mentre singhiozzava accorata..Iniziai a muovermi con dolcezza: un poco arretrando e ancor più avanzando, conquistando lentamente, centimetro dopo centimetro, sempre più il suo culo strettissimo. Sicuramente doveva soffrire parecchio, perchè adesso gridava forte, le sue unghie mi scavavano la carne del braccio e la sentivo tremare in tutto il corpo, ogni tanto aveva degli scatti incontrollati, come a tentare di sfuggirmi.Ignorando con una leggera punta di sadismo il suo dolore, continuai a spingere fino a che il pene non fu completamente dentro e il mio bacino non colpiva nuovamente i suoi glutei. Ormai la resistenza era vinta ed il pene si muoveva serrato ma scorrevole in quell’antro caldo che mi stringeva il membro come in un guanto. Sollevai la testa come prima e mi beai del vedere gli effetti dei miei movimenti dipinti sul suo volto. Gli occhi ancora chiusi, teneva le labbra dischiuse e ne usciva un flebile lamento di dolore, ma anche di vergogna nel sentirsi così violati gli intestini. Le sue mani si rilassarono ed iniziò a lasciarsi andare; a subire con rassegnazione i miei affondi. Le iniziai a carezzare il fianco e giunsi alla vagina. Non arrivavo a penetrarla, ma al clitoride si. Iniziai a stuzzicarlo col polpastrello e lei si mise a gemere.Mi piaceva stare così. Cambiando ogni tanto il ritmo e beandomi di ciò che il pene trasmetteva al cervello. Lo sforzo di stare a testa alta mi favoriva nel non giungere all’apice. – Mettiti in ginocchio, ora, ma senza farlo uscire. – dissi ad un tratto.Lei prese a muoversi cautamente, spostando adagio le ginocchia e ruotando il busto, finchè non fu davanti a me nella posizione del cane.In ginocchio dietro di lei, tenendola stretta per i fianchi, ritrassi adagio il pene, lo rituffai, lo ritrassi di nuovo, lo infilai ancora una volta, ancora lo sfilai, questa volta fin quasi a farlo uscire completamente: gettai un’occhiata in basso e vidi, constatai, la nostra congiunzione.Premetti nuovamente, questa volta con maggior decisione: affondai fino in fondo e lei ebbe un sussulto e gridò. – Ti faccio male? – chiesi. – Si… No… ma non spingerlo così in fondo. – balbettò. – Ora masturbati. – le ingiunsi.Lei aprì maggiormente le cosce, portò una mano al ventre rimanendo in precario equilibrio su di un solo braccio. Andai a constatare con una mano la presenza delle sue dita sulla peluria del pube, percepii il movimento del medio che prima lento sul clitoride, s’andava facendo sempre più intenso e nervoso. – Così, così. – le confermai.La sentivo ansimare, sentivo il contraccolpo delle sue natiche contro il mio pube farsi sempre più violento, più deciso. Acquistai velocità: ora il pene entrava e usciva in un movimento liquido e agevole. – Dimmi quando stai per venire. – le chiesi.Lei si limitò a scuotere il capo in senso affermativo.Ora il movimento dei nostri due corpi si era fatto convulso, il suo respiro veloce e sibilante. – Adesso… adesso… vieni, ti prego! – mi pregò con la voce piena di ondulazioni e di tremiti.Cavalcai vertiginosamente gli ultimi secondi, colpendo i suoi fianchi con colpi di maglio vigorosi. Mi scaricai dentro di lei gemendo, legando i miei gemiti ai suoi, nell’ultima frenesia, che percepii sotto la mia mano, delle sue dita bagnate di godimento. – Toglilo, ti prego… mi fa male. – mi sussurrò non appena fu in grado di parlare.Lo sfilai dolcemente, provocando la fuoriuscita di parte del liquido che avevo versato in quel vaso. – E’ stato bello? T’è piaciuto? – le chiesi. – Si. – ammise. – Mi hai fatto morire di dolore, mi sono sentita aprire in due! Ma non avevo mai goduto così tanto! -Giacemmo qualche minuto fianco a fianco. Mi sorprese chiedendomi una sigaretta. – Hai preso il vizio o è solo la classica sigaretta post-coitale? – domandai perplesso. – No, ogni tanto ne fumo una. – confessò. – Roba da matti. Sei cambiata un casino da quando stavamo insieme, sai? – osservai. – Forse. Comunque, anche ora siamo insieme. – mormorò. – Ti sembra la stessa cosa? – chiesi. – Beh, non saprei. – fece lei guardandomi. – Ricordi, una volta amavamo definirci “fidanzati”. E comunque penso che in fondo era una definizione di comodo; sarebbe stato più adatto dire “amanti”. Ma amanti nel vero senso della parola, è la prima volta che lo siamo. – filosofai. – Forse, – tentò lei – è perchè non riuscivo mai ad essere soddisfatta, prima. – – Appunto perchè eravamo “fidanzati”, lo capisci? – spiegai. – E ora siamo stati invece, tecnicamente questa volta, amanti. -Fumammo le nostre sigarette; io guardavo le volute di fumo salire verso il soffitto; lei guardava me, percepivo il suo sguardo pur non notandolo direttamente. – Ma per te – disse ad un tratto – che senso ha avuto questa sera? – – Che senso ha avuto? Una liberazione, forse. Ecco, si: mi sono liberato da uno dei miei incubi. Di uno dei miei fantasmi. Ho sconfitto una certa tua immagine ossessionante. E’ questo che importa. – risposi parlando pacatamente. – Questo perchè avevi la fissazione, perchè non eri mai riuscito a farmi godere? – chiese. – Certo, anche questo. Ma anche qualcosa di più, di diverso. Vedi, questa sera ho fatto l’amore con tutti i tuoi amanti, gli amanti dei quali ricoprivo il ruolo travestendo un altro me stesso, in sogni nei quali fondevo il tuo corpo ed il corpo del tuo amante nella mia persona. – dissi. – Una volta, al telefono, mi hai detto che ti masturbavi pensando a me che facevo l’amore con un altro; è vero? – mi chiese lei, negli occhi la speranza che le rispondessi di no. – Si. – dissi io. – E’ vero. -Parve sconvolta, la sua bocca ebbe come un tic. – Ma, non capisco. Che tipo di soddisfazione potevi trarre da una cosa del genere? – – Beh, lo potrei chiamare in vari modi: comunque, secondo me si tratta di un trasferimento illusorio di capacità. Sapevo che, non essendo mai stato in grado di farti godere, in pratica non ero mai realmente stato il tuo amante. Ma quando ebbi altre donne, quando mi resi conto di essere perfettamente in grado di dar piacere ad una donna, e di riceverne, il mio problema aumentò le proprie dimensioni. Tu cessavi di essere una “partenza col piede sbagliato”. Diventavi automaticamente una macchia, un vuoto che non avevo saputo colmare e che ora non avevo più la possibilità di colmare. In sogno, o in delirio, riempivo questo vuoto sovrapponendo alla mia immagine, l’immagine sconosciuta di un tuo immaginario amante del momento, di uno che aveva la possibilità materiale di soddisfarti, mentre io ero troppo lontano, in tutti i sensi, per poterlo fare. Capisci? – – Vuoi dire… – riuscì a dire dopo qualche secondo – Vuoi dire che tu hai vissuto tutti questi anni con questa fissazione, con questi incubi? – – Esatto, con tutte queste cose che, per comodo, chiamavo “Amore”; che è poi la stessa cosa che anche tu credevi. Ad ogni mia nuova pressione, ad ogni mia ricomparsa, il tuo pensiero era “è ancora innamorato di me”. Come vedi, non era esatto. Non ero innamorato, ma malato di te, ferito di te. -Mi guardò con tristezza. Compresi. D’altronde era necessario, lo sapevo dal primo minuto. Non mi sarebbe stato sufficiente guarire me stesso: per poterlo fare completamente, dovevo ferire lei, ferirla in quel punto che non rimargina più. Uccidere la sua presunzione dell’amore, farle capire che non era tutto come lei credeva. – Dovevi proprio darmelo quest’ultimo colpo? – mi chiese tristemente. – Era necessario. Dovevo. Altrimenti ne sarei uscito solo a metà. – le risposi altrettanto tristemente. – Ma tu, perchè ti sei data, questa sera? Per amore? Per voglia? O per che cosa? – – Non lo so. Non lo so bene. Ho sentito qualcosa cedere dentro di me, ad un tratto, e… – – Ma quando? In che momento hai sentito questo? – domandai. – Con precisione non lo so. Forse mentre guardavo in giro per la stanza. Mi è sembrato di vedere tanti frammenti della tua vita, frammenti che avevi vissuto per conto tuo e che prima ignoravo completamente. Capisci? Li ho visti, nelle cose che questa casa contiene. – – Allora è stato per nostalgia, per pietà di te stessa e di me? – dissi, prendendole il mento nella mano.Lei distolse gli occhi dai miei. – Si, forse è stato anche per pietà. Ma non come la intendi tu. Io forse nell’amore ci credo ancora. – – Vuoi crederci. E’ differente. Vuoi crederci e lo crei. Ma ora lo stai creando nel posto sbagliato. – dissi. – Come puoi – mi chiese accorata – come puoi essere diventato tanto cinico? Come sei diverso da un tempo! Una volta per te l’amore era importante. – – Era tutto. Senz’altro. E non ti chiedi altro? Credi che io mi ci trovi bene in questo mio nuovo stato? Credi che io stia bene, ora, senza le mie menate psichiche, senza i miei contorcimenti mentali sull’amore? Ma questa ora è la mia vita, non credo di poter tornare indietro. Ma non ti chiedi perchè ora sono così? -Mi guardò, un lampo negli occhi. – Dimmi la verità. Sei stato tu? – chiese gelida. – Sono stato io a far che? – rimandai. – Ad ucciderlo. Ad uccidere Walter. – chiarì.La guardai negli occhi per alcuni secondi. – Avrei voluto. Si, avrei voluto farlo. Ma non sono stato io. Sarebbe stato giusto se l’avessi fatto. Ma non l’ho fatto. – – Come puoi dire “giusto” di una cosa del genere? Forse lo avrei capito, allora. Ma adesso? Dopo tutto questo tempo? Che scopo avrebbe? – domandò. – Se è solo per questo, avrebbe avuto più motivo adesso. Perchè allora, vedi, si sarebbe esaurito tutto nell’atto di una persona esasperata e triste come la notte. Ora sarebbe stato diverso: sarebbe stato l’atto di una persona lucida che ha avuto molto tempo per riflettere sulle cose. Ma non sono stato io. E’ bene che tu te ne convinca, prima che ti capiti magari tra i piedi quel rompiscatole impotente che va in giro a fare domande. Hai capito? Non sono stato io. -Lei aveva iniziato a rivestirsi: fermai le mutandine nella loro ascesa, a metà coscia. Mi chinai e deposi un bacio d’addio sui peli biondi.Terminò di vestirsi. Scendemmo le scale. Piangeva. – Piangi? – chiesi. – Perchè? Non dirmi che anche questa volta ti senti puttana! -Scosse il capo, tirò su con il naso. – No, non è quello. Tu non lo capirai mai. Non lo puoi capire più. – disse tra i singhiozzi. – Lo confesserai a Franco? – le chiesi. – Non lo so. Ho paura di vederlo. Mi sembra che non abbia più senso. Mi sembra di aver appena compiuto uno strano viaggio nel tempo, di non essere più al mio posto. Ho paura di non riconoscerlo quando lo vedrò, capisci? -Anuii. Capivo benissimo. Non solo, lo sapevo. Da prima. – Ci rivedremo? Mi telefoni? – mi chiese.Solo se sarà necessario, avrei voluto dirle. – Ti farò sapere se ci sono novità. – dissi.Sul portone volli baciarla. Mi guardò stupita. – Non mi accompagni? – chiese.Scossi la testa. – Non ti stavo salutando. – risposi incamminandomi al suo fianco. In quei giorni, si verificarono nelle strade della città diverse aggressioni notturne. Alcuni passanti vennero, volta in volta, derubati, intimoriti, feriti, da un soggetto che, dalle testimonianze, sembrava essere sempre lo stesso.Una notte l’individuo, spaventato ed irritato dalla violenta reazione di un derubato uccise.Subito ci fu qualcuno che seppe creare un collegamento con l’omicidio misterioso di nemmeno un mese prima.Una notte, una pattuglia della polizia, attirata da grida e trambusto, salvò in extremis un tale dalla brutale aggressione del “bandito notturno”, come lo avevano chiamato i giornali. Ebbe luogo un conflitto a fuoco. Il bandito cadde con il fegato e la milza spappolati dai proiettili dei mitra. Morì mezz’ora dopo in ospedale. La polizia ripescò tutti i casi misteriosi di aggressioni e rapine notturne, ci mise in mezzo il caso “Walter T.”, sistemò il tutto nella pratica relativa al bandito ammazzato e chiuse il tutto in un armadio per ripararlo dalla polvere del tempo.Si era ormai in aprile, quando ebbe luogo questa archiviazione benedetta tanto da me che dalla centrale di polizia. Il telefono squillò proprio mentre ripiegavo il giornale dopo aver letta la notizia. – Sono Fiorelli. Immagino che se l’aspettava, una mia telefonata. – sentii dire dall’altro capo del telefono. – Se devo essere sincero, si. – risposi calmo. – Lei è stato fortunato, molto fortunato. I parenti del morto mi hanno congedato questa mattina. Ho insistito dicendo che le cose non stavano così, ma loro niente. Anche per loro il “bandito notturno” ha risolto il caso. – – Come d’altronde mi pare logico – osservai amabilmente – visto che non esistevano altre strade percorribili. – – Si. Ma vede – proseguì il detective – io per vivere devo mangiare, e se la gente non mi paga io non posso permettermi il lusso di lavorare gratis. Però stia attento. Io l’ho osservata bene, sa? E lei ha la faccia di uno che ci ricasca. – – Ma bene! – risi al telefono. – Non solo omicida, ma maniaco addirittura! Immagino che nelle prossime notti me ne andrò in giro sparacchiando alle prostitute e spaventando i gatti in amore! – – Scherzi pure. – riprese la voce all’altro capo del filo. – Vede, lei deve avere qualcosa di molto grosso che le pesa dentro. Non credo che se ne sia liberato completamente quella notte famosa. Lei ha in mente qualcos’altro, o comunque, farà qualcos’altro. – – Ha studiato criminologia, lei? – chiesi. – Per diletto. – ammise. – E cosa dicono i suoi testi a proposito della pulsione ad uccidere provocata in taluni soggetti dalle telefonate idiote? -Sentii una risata provenire dal ricevitore. – Sa che lei è un tipo simpatico? – disse poi l’uomo. – Peccato che sia anche tanto pericoloso. – – Lei invece non mi è simpatico per niente. E se ancora non è pericoloso, lo diventerà presto se non la rinchiudono in una casa di cura. – ribattei seccamente. – Farò come lei mi consiglia. Ma lei badi ai miei di consigli: magari a mezzo servizio, ma la mia ombra la seguirà costantemente. – disse l’uomo. – Dove l’ha letta questa bella frase? – chiesi ironico. – Non credo che sia stata già scritta. Comunque, lo faccia ora lei, se la segni nel suo taccuino. Così se ne ricorda. – rispose in modo odiosamente ironico. – Lo terrò presente. Tanti saluti al babbo. – dissi. – Presenterò. Arrivederci. – mi salutò l’uomo.Quell’uomo è un demonio, riflettei dopo aver deposto la cornetta. Avrei dovuto guardarmi le spalle, d’ora in poi. Me la vedevo lì, quella mezza ombra, a spiare qualsiasi mia azione, anche i miei pensieri.Piantala e calmati, mi imposi. Quello tenta di fregarti mettendoti paura, mi dissi, quello tenta di farti perdere la calma e di fregarti quando tu non ce la fai più.Pensai che per mettere in atto la parte seguente del mio progetto avrei dovuto attendere l’estate. In tanto tempo, vedendomi inattivo, l’amico si sarebbe stufato, riflettei.L’estate! Ancora due mesi e mezzo e poi…Pensai tuttavia che era folle rischiare tanto per ciò che in definitiva avrei ricavato.Raffaella non richiamò più o se lo fece, fu durante le mie frequenti assenze. Né io mi rimisi in contatto con lei. Non c’era motivo.Dopo quella serata d’amore mi sentivo più rilassato, più calmo. Avevo raggiunto qualcosa di molto positivo. Non mi sconvolgeva saperla ora tra le braccia di questo o quell’amante, vecchio o nuovo; effettivamente molto del guasto era stato sanato. Rimanevano da definire soltanto alcuni piccoli particolari. Dopo di che, o sarei stato soddisfatto di quanto avevo finora commesso o avrei dovuto commettere, per raggiungere quello stato, ancora qualcosa.Daniela, il mio alibi, era partita per non so più quale località dalla quale mi aveva già mandato un paio di cartoline riempite dagli svolazzi delle firme di amici e occasionali conoscenti.Mi ritrovai solo, d’un tratto.Per Daniela, ultimamente, avevo trascurato le altre mie due o tre amiche del momento; mi sembrava eccessivamente sfacciato tentare ora la strada del riavvicinamento; le sapevo non molto ben disposte nei miei confronti. Presi l’abitudine, per me sconvolgente, di andare a fare una passeggiata, la sera terminato il lavoro, che mi spingeva abbastanza lontano sia dal mio ufficio che dalla mia abitazione, per poi ricondurmi lentamente verso casa.L’intento principale di queste passeggiate doveva essere la riflessione; la quale però veniva mandata a quel paese tutte le volte che i miei occhi incontravano qualche interessante deretano femminile, o qualche affusolato paio di cosce.Era inutile che continuassi a mentire a me stesso: avevo voglia di femmine, e subito.Tutte le sere, nel corso appunto di queste passeggiate, incontravo sempre allo stesso semaforo, una femmina giovane e di forme procaci. Io attraversavo la strada in un senso, lei nell’altro, e ogni volta, chissà perchè, incontrandoci a metà percorso, i nostri sguardi finivano per l’incrociarsi, sostenendosi per un periodo più lungo di quello che sarebbe stato normalmente necessario fra due persone che non si conoscono. La cosa, dopo cinque o sei di questi incontri, finì per incuriosirmi, e nello stesso tempo mi mise addosso una gran voglia di conoscere meglio la ragazza.Una sera decisi di modificare il mio consueto itinerario: incontravo sempre la ragazza nel tratto ascendente del mio girovagare. Sarebbe stato quindi necessario variare un pochino le mie abitudini, ed io e la mia bella sconosciuta ci saremmo trovati, d’incanto, a percorrere lo stesso tratto di strada, ma nello stesso senso.Misi in pratica la cosa, spingendomi soltanto una cinquantina di metri oltre il semaforo al quale incontravo puntualmente la ragazza; avevo dovuto, per riuscire a ciò, allungare il passo rispetto al mio consueto. Ebbi fortuna, dopo pochi secondi vidi sbucare la sconosciuta da un portone poco più avanti.Indossava una maglietta di lana azzurra, scollata, di quelle che si allacciano dietro la schiena per mezzo di due lunghe code. La gonna, corta, metteva in risalto due gambe affusolate e ben fatte, inguainate in calze nere.Partii all’inseguimento, ed all’altezza del semaforo mi fermai a fianco della ragazza.Muovendo istintivamente il capo nella mia direzione, la fanciulla incrociò lo sguardo con il mio; ebbe, mi pare, un moto di sorpresa.Attraversammo la via camminando fianco a fianco: notavo gli sguardi che, ogni due passi, la ragazza mi lanciava. Imbarazzato, decisi di non partire lanciato in un’avventura che lo sguardo tra lo stupito e lo spaventato della ragazza mi faceva intuire ora di difficile realizzazione.Stavo appunto tentando di abbandonare la partita quando la ragazza, che ora mi precedeva di un passo o due, nel voltarsi per constatare se ancora la seguivo, inciampò.Riuscii a precipitarmi verso di lei e a sostenerla prima che rovinasse a terra. L’afferrai con una mano sotto l’ascella sinistra, mentre l’altra non trovò di meglio che aggrapparsi al seno suo destro. Confusissima, mi ringraziò, e se ne partì in una galoppata veloce che seguii con lo sguardo, finchè non vidi sparire la sua figura nell’imboccatura della stazione metropolitana.M’era soltanto rimasta, nel palmo della mano, la fresca sensazione di quel seno libero e sodo, privo di sostegni, che per un breve attimo avevo potuto toccare.Ritentai, la sera dopo, e questa volta munito di quel pizzico di audacia fornitomi dalla volontà di poter prendere più diretto contatto con quel seno.Incontrai la ragazza al semaforo, e la salutai. – Stia attenta al gradino, questa sera. – le dissi.La ragazza sorrise. – Grazie, starò attenta. – rispose. – Lavora da queste parti? – incalzai – La vedo tutte le sere. – – Si, lavoro lì. – indicò con un dito voltandosi indietro – E poi – sorrise – mi avrà vista senz’altro uscire. – – Non ci ho fatto caso. – risposi biecamente impostore.Lei mi guardò con uno strano sorriso. – Credevo. – bisbigliò. – Come? – finsi di non aver inteso. – Ho detto che ero convinta che lei mi avesse vista uscire dal portone. – ribattè. – Sa, quando cammino ho sempre la testa nelle nuvole. – dissi con accento angelico.La cosa fece ridere la ragazza. – Perchè ride? – chiesi fingendomi offeso. – La testa ce l’avrà magari fra le nuvole, ma gli occhi, quelli no di certo. – disse ridendo. – Non crederà che… – feci io. – No, no, si figuri. – disse lei. – Insomma, lei è convinta che io le stessi facendo, come si può dire, la posta. Ecco, lei è convinta di questo, vero? – – Qualcosa del genere. – – E cosa glielo fa credere? – – Il fatto che non l’ho mai incontrata da queste parti, prima. E da un po’ di tempo in qua, la incontro tutte le sere. Come mai? -La gelai con uno dei miei sguardi beffardi, che vogliono dire “e qui casca l’asino”. – Vuol dire che se n’è accorta, no? – dissi. – Accorta di cosa? – fece lei. – Che da qualche sera ci incontriamo, no? – insistetti. – E con questo? – chiese. – Lei sa parlarmi in modo dettagliato di tutte le persone che incontra al semaforo ogni sera? – indagai. – Non so… non credo, ma che c’entra? – chiese stupita. – Vuol dire che, come io ho fatto caso a lei, non lo nego, anche lei ha fatto caso a me. Giusto? – chiesi. – Ma cosa intende dire? – s’indispettì – Guardi che io mica le ho fatto gli occhi dolci! – – E chi ha detto questo? Ho parlato di far caso, no? – la calmai.Eravamo arrivati all’imboccatura del metrò. A bruciapelo domandai: – Cosa fa domenica? -Parve smarrirsi, balbettò. – Ma io …. non lo so. Perchè? – – Ci si potrebbe vedere, non crede? – dissi. Combinammo un appuntamento per la domenica, alle tre del pomeriggio, ai giardini di piazza Leonardo da Vinci.Ci venne.Disse di chiamarsi Valeria, di avere diciotto anni, due genitori severi. – Allora scommetto che hai dovuto raccontare una bugia, per uscire. – mi informai. – Beh, si. – ammise lei.Passeggiammo per i viali della città universitaria, parlando delle consuete banalità. Adorava il cinema, certe canzoni, il ballo.Le offrii l’ascolto di alcuni dischi (che sapevo peraltro sarebbero stati di suo gradimento) a casa mia.Dapprima rifiutò recisamente.Chiesi una giustificazione del rifiuto. Non l’ebbi.Insistetti, dichiarando che non ero certo quello che lei riteneva credere in quel momento.Cominciò gradatamente a cedere. Cedette.Saliti in casa, trascorremmo alcuni minuti in penoso silenzio (colpevole, il mio, mentre lei rovistava fra i miei dischi alla ricerca di certi titoli che le avevo prospettato, da me mai posseduti) quando alla fine decisi di rompere il ghiaccio invitandola a sedere sul divano mentre avrei provveduto io a scegliere qualche disco che, a mio giudizio, le sarebbe senz’altro piaciuto.Posi un LP sul piatto e andai a sedermi accanto a lei.Le presi una mano e la strinsi. Lei non reagì.Tentai di baciarla, ma lei distolse la bocca.Tentai nuovamente: identico risultato.Insistetti, afferrandola per le spalle. – No… ti prego. – disse flebilmente. – Che ti succede? Non ti ha mai baciata nessuno? – chiesi. – Si, ma… così… – disse. – Cosa significa, scusa? Che ci conosciamo da troppo poco tempo? – domandai. – Anche… io non so… – balbettò.L’afferrai decisamente per le spalle e riuscii a trovare con la mia la sua bocca. La mia lingua trovò dapprima la resistenza opposta dalle labbra serrate, ma alla fine, in un guizzo, riuscì a penetrare oltre quella barriera.Fu un bacio breve. Mi accorsi, però, che qualche esperienza la ragazza già doveva possederla: non baciava affatto male. – Hai visto? – le feci – Non è mica morto nessuno. – La ragazza si ricompose, ponendosi poi una posa che mi fece sorridere: con le mani puntate sulle ginocchia ben unite, mi sembrava una di quelle fidanzatine timide di un secolo fa. Glielo feci osservare. Non comprese la battuta.Ripresi nuovamente a baciarla, sul collo, sulle guance, nuovamente sulla bocca, che questa volta dischiuse senza opporre resistenza.Ora che aveva acquistato un po’ di confidenza, la sua lingua cominciava a muoversi in un modo sciolto ed esperto nella mia bocca.Presi la palla al balzo, ed introdussi la mano nella camicetta della ragazza. Sotto, trovai solo la difesa irrisoria di una canottiera di cotone, e null’altro.Superata quella, la mia mano si trovò a giocare con un seno pesante e sodo, il cui capezzolo si drizzò presto contro le mie dita.Aprii ancor di più il varco, riuscendo a estrarre alla fine, dalla prigione di tessuto, uno dei più bei seni che avessi mai visto.Bianco, leggermente periforme, pesava nella mia mano come una massa dolce ma resistente. Un capezzolo scuro, increspato dal turgore, mi guardava invitandomi ad assaggiarne il sapore. La mia bocca se ne impadronì, succhiando e lambendo.La ragazza giaceva semisdraiata sul divano, gli occhi chiusi, le braccia attorno alle mie spalle, mentre io andavo liberando dalla camicetta il gemello di quel seno bellissimo che le mie labbra stavano torturando. Persi non so quanto del mio tempo in adorazione di quella meraviglia della natura, cospargendolo di baci e di saliva. Ogni tanto provavo nostalgia per la bocca della ragazza, e risalivo dunque ad immergere la mia lingua nel tepore profumato e umido tra le sue labbra.Tentai, distratta un attimo la mia attenzione da quella bocca e da quel seno, la via ardua sotto la corta gonna, ma la ragazza bloccò la mia mano. – Che c’è? Non l’hai mai fatto? – chiesi. – No…. Si… voglio dire, il seno si, ma… – rispose arrossendo.Ma bene! Una vergine, anche se avrei dovuto immaginarmelo. Ma non mi andava male, no. Ogni tanto ci voleva un po’ di variazione al solito programma.Trascorremmo il resto del pomeriggio baciandoci. Poi la riaccompagnai alla fermata del tram.Mi sembrava di essere tornato ragazzo. Una vergine!Avrei saputo aspettare.
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