Vomito, sputo fuori dal mio corpo insoddisfazioni miste a succhi gastrici, e pollo masticato e patate che avevano iniziato già a convertirsi in energia. Le lacrime scendono giù automaticamente tra un conato e l’altro, ma non c’è pena dentro di me. La pena è finalmente fuori, rovesciata nella tazza del water in fiotti giallastri semiliquidi. Le lacrime sembrano lavarmi il viso, mentre il fetore mi sale fino alle narici stimolando un’altra scarica che va, copiosa, a imbrattare la ceramica. Mi tengo i capelli con una mano, l’altra poggiata sulla mia stessa fronte in un gesto infantile di cura e protezione. Un po’ come quando, sola nel letto, dondolo i piedi senza accorgermene, per cullarmi e rendere più dolce il dormiveglia. La gola duole per lo sforzo, la bocca dello stomaco palpita dolorante, ma non importa. Libera, svuotata. Così mi sento, finalmente. E mi prende subitanea la smania di ripulire quello schifo. Lo sciacquone entra in funzione una, due, tre volte. Sciabordio d’acqua, occhi fissi nello scarico che cancella le tracce, come se nulla fosse accaduto. Nulla. Vorrei vorticare laggiù anch’io e per un attimo la testa mi gira davvero, mi sento risucchiata, spinta giù verso il buio. Ma è solo un istante. Mi libero dei vestiti, velocemente, come di mani nemiche sul mio corpo, li scalcio in un angolo, senza neanche guardare. Lo sento, adesso. Sento ancora lo sperma appiccicato alla pelle, come colla ormai secca, come se mi stesse corrodendo, incidendo un marchio invisibile sui seni, lì dove è schizzato quando ancora era caldo e profumava di lui. Avverto il suo odore, di terra e di muschio. Odo la sua voce, che mi vibra nelle vene, mi percorre il corpo e il cervello e il sesso. “Ferma così, voglio venirti addosso. Voglio che rimanga lì, su di te. Sei mia.” Chiudo la cabina della doccia alle mie spalle, l’acqua bollente scivola senza quasi bagnarmi. Divento rossa, le areole si allargano, scure. Mi strofino col guanto di crine fino a spellarmi, con veemenza. Non va via, non va via. Rimarrà lì per sempre, lo so. Chiudo gli occhi e risento le sue unghie che mi solcano i fianchi mentre muove il mio corpo sopra il suo, come quello di una bambola fatta per il suo piacere. Le mani sono ovunque, dove nessuno mi aveva mai toccata prima, esplorano centimetri che non sapevo esser parte di me, se ne impossessano, mentre il ritmo diviene frenetico. “Lasciati andare… E adesso godi!” Una contrazione del ventre, vago ricordo di un’esplosione di piacere. Lo sguardo mi cade sul detergente e mi lampeggia nella mente l’immagine di due seni che spuntano dalla schiuma bianca. Ne verso una porzione abbondante nella mano e friziono i capezzoli ormai duri. Sciacquo, indugiando con il viso contro il getto caldo, le mani contro la parete, le gambe leggermente divaricate. Rimango lì mille anni, il marchio pulsa sui miei seni, come un graffio ancora dolente che non riesce a rimarginarsi. “Sei già a casa? Non ti ho sentita rientrare. E’ andata bene la conferenza?” Non rispondo, non lo faccio mai con le domande retoriche. Lo sento entrare nella doccia, chiude il rubinetto e il corpo massiccio mi si struscia contro. Il respiro è pesante, le sue dita vanno subito a frugarmi tra le gambe, da dietro. Conosco quel gesto da padrone, allargo le cosce per consentirgli di fare ciò che desidera. Spingo indietro il bacino, obbedendo a una lieve pressione della sua mano e sento la punta sfregare. Gli occhi chiusi, immagino infinite gocce percorrermi la schiena e addensarsi nel punto in cui inizia la fessura delle natiche, appesantirsi e colare giù, lì dove comincia a scorrere il suo sesso. E’ grosso, deciso. Entra finalmente, ma non ha fretta. Gusta ogni centimetro del suo percorso, dello spazio che conquista come fosse la prima volta e il suo respiro è un lieve ansito che aumenta il ritmo man mano che l’urgenza prende il sopravvento. Mi scuote, come non ha mai fatto, come se sapesse! Finché mi ritrovo a premere i palmi contro le piastrelle con forza, per cercare un appiglio, mentre mi prende, cercando invano di riconquistare ciò che non è più suo. E monta la marea dentro di me, senza pensare alla danza zoppicante dei pensieri allarmati. Dapprima è solo uno sciabordio in lontananza, un brontolio del ventre che non sopporta di essere ignorato, poi si espande come una macchia di calore rosso e rauco che avanza, avanza fino ad assordarmi, scacciando via i pensieri, e al mondo non esiste nient’altro che quell’attrito che genera piacere. Mi sfugge un lungo mugolio animale, sento le ginocchia piegarsi, la guancia contro la parete si arrossa, vinta. E’ fredda, sgradevolmente bagnata. Lo sento scorrere fuori l’ultima volta, si masturba velocemente, l’altra mano artiglia ancora la mia carne, gli occhi fissi sulle mie natiche, accarezzando l’idea di continuare diversamente. Parla, uno di quei momenti in cui sono solo parole del pupazzo privo di volontà manovrato dal ! ventriloquo che gli pulsa tra le gambe. Viene, infine, a lungo, con un ansito roco. Sento le gocce cadermi sulla schiena, copiose. Mi raddrizzo, sospirando. “Rimani così… non lavarti.” La voglia gli impasta ancora la voce, mentre fa scorrere le dita sul proprio sperma, spalmandolo sulla schiena, sui glutei. Ho un fremito a quella richiesta, ma mi avvolgo nell’asciugamano, senza sciacquarmi. Lo sperma si appiccica sulla pelle, incollandola alla stoffa, ma è solo un fastidio sopportabile. E’ il mio marchio che continua a pulsare e mi scuote dentro, rubando pensieri e bruciandomi lo stomaco per la mancanza di lui. Quel graffio sul seno, vicino al cuore, che sembra diventare più profondo a ogni respiro. Chiudo gli occhi, quasi impaurita, ma respiro e sento ancora il muschio e la terra. Un nuovo conato e il vortice, il vortice mi si spalanca davanti, risucchiando sentimenti mai formulati in parole, frasi non pronunciate, infiniti universi paralleli con le mie alternative: quelle ignorate, quelle per cui ho combattuto e perso, quelle colte da altri, quelle dei vorrei ma non posso. Buio. Calate il sipario, per favore.
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