14 febbraio 1996 “Accetto, ma a una condizione.” Accadde due anni dopo che l’avevo assunta come assistente personale nella mia agenzia di pubblicità. Si chiamava V ed era diventata presto la mia assistente creativa. Anzi, il nostro feeling di lavoro si era rivelato davvero utile per l’azienda al punto che tutti si davano da fare affinché non avessimo mai da litigare. Finché un giorno non venne nel mio ufficio a chiedermi un favore personale. – Sentiamo. – risposi. Di solito concedo sempre ai miei dipendenti quello che mi chiedono, compatibilmente con le necessità del lavoro. – Vorrei cambiare orario di lavoro. – Cioè? – Vorrei fare orario continuato, dalle 9 alle 17. – Mi crea qualche problema. – risposi spiaciuto. – Io non voglio fare orario continuato e ho bisogno di te quando ci sono. – Mi trovo costretta ad insistere. – replicò imbarazzata. – Io abito a Roissy e non voglio vivere di panini a mezzogiorno. Preferisco saltare del tutto la pausa e piuttosto smettere prima. Alle cinque, il pomeriggio è ancora tutto da vivere. – Scusami V, ma credo proprio di non poterlo fare. Neanche i tuoi colleghi vogliono saltare la pausa di mezzogiorno. Ci guardammo in faccia entrambi imbarazzati. – Ne ho bisogno davvero. Mi chieda quello che vuole in cambio, ma devo assolutamente… – Non sei tenuta a dirmi il perché. – la fermai. – Piuttosto… Davvero sei disposta a darmi tutto quello che voglio? – Certo! – rispose con il la sincerità del lupo cattivo che parla a Cappuccetto Rosso. – Bene. – continuai allora. – Accetto, ma ad una condizione. – Ti concedo il nuovo orario a partire dal prossimo lunedì, però in compenso da quel momento dovrai darmi del tu. – Accetto! Il lunedì adeguò l’orario di lavoro. Ma non mi diede mai del tu. Anche se cercai di non darlo a vedere, io ne ebbi male per un po’. Se lei se ne accorse, non fece nulla per riparare alla parola mancata. Non volevo certo indebolire il rapporto per una cazzata come questa, però mi sentivo un po’ mortificato. – Senti V. – buttai lì un giorno tra una cosa e l’altra. – Ma ti è davvero così faticoso darmi del tu? Abbassò il capo arrossendo, poi lo rialzò. – E’… è più forte di me. Io… Lei è il capo, il titolare, ed io non riesco proprio a vincere… – OK OK, come non detto. Se io continuerò a darti del tu, – sorrisi ironico, – non ne avrai male, Vero? Raccolse le forze e mi rispose a tono. – Senta, – mi disse stando in piedi davanti a me molto determinata. – Io sono sempre stata di parola e ammetto che questa volta non sono riuscita a mantenerla. Posso offrire un’alternativa? – Sentiamo. – Posso, in cambio, mostrarle il culo? – Il culo? – ripetei incerto di aver capito bene. – Il culo. – confermò. – Glielo mostro nudo, qui davanti a lei mentre sta seduto alla sua scrivania, e pareggiamo il conto. Era la sua testa che mi piaceva, perché sapeva interagire con me in maniera creativa. Ma effettivamente il suo sedere era, e lo è ancora, una delle parti più belle di lei, forse uno dei più belli delle Tre Venezie. Inoltre era conosciuta come una delle più belle e intriganti donne della sua città, una che – come si dice – sembra che se la tiri. Una leader a tutti gli effetti. Era lei a scegliere, a decidere, a volere, a negare. Aveva anche quell’intelligenza creativa che pochi conoscevano, e anzi direi neanche quelli che avevano lavorato con lei. Io nell’ordine delle priorità nei rapporti con le donne ho sempre messo il Cervello, il Cuore e i Coglioni (ragione, sentimenti e determinazione; nell’ordine). Ma stavolta mi aveva offerto qualcosa che era fuori dalle “Tre C”, anzi era la quarta… – Allora, accetta? – Che domande! – risposi finalmente chiudendo le mie osservazioni. – Ma certo che accetto… Passarono due settimane senza che accadesse nulla, alla fine delle quali avevo dimenticato tutto. Mi aveva eccitato, turbato forse, ma il tutto era finito con quella battuta. Certamente non avevo cambiato né atteggiamento, né affetto, né affiatamento professionale, né desiderio per la mia ventiseienne e avvenente segretaria. Anzi, ex segretaria, dato che era diventata un anello portante della catena creativa. E inoltre era forse professionalmente meglio che certe soglie non venissero superate tra me e lei, e forse era giusto anche che non mi desse per niente del tu. Due settimane dopo, alle ore diciassette del 24 maggio 1995, entrò nel mio ufficio. – E’ pronto? – mi chiese. – E’ giunto il momento. Non capii. Ma lei chiuse la porta, tirò la tenda e mi si pose davanti alla mia scrivania. Si girò di schiena, divaricò leggermente le gambe e piano piano sollevò le gonne fino a scoprire prima la fine delle autoreggenti, poi la parte superiore delle cosce ed infine il sedere. Non portava mutandine e la vista del suo culo si presentò a me in tutta la sua immensa e maestosa bellezza. Sicuramente fu l’intrigante contesto in cui maturò quella incredibile momento, ma era come se una luce celeste venisse sprigionata da quella stupefacente visione. Difficilmente si può descrivere che cosa si possa provare per una scena di quel genere. Credevo di aver fatto di tutto col sesso. Oltre alle mie tradizionali 13 pose, c’erano il bondage e il sadomaso, c’erano triangoli, quadrati, righe, frutta, pesci rossi, gatti selvaggi, gatti a nove code, cucchiai, sedie, poltrone, biciclette, tapis-roulant, forbici, fruste, cani, bacchette, surrogati, legacci, pinze, mollette, sandwich, palline, code, gemellate, pasti, divaricatori, candele, smorza candele… Ma la scena della mia dolce V che mi offriva la vista del suo culo ignudo in quella incredibile situazione irreale quanto reale e concreta, resterà per sempre nella mia memoria come il momento magico della mia vita sessuale. Dopo un minuto che parve un secolo, aveva riabbassato la gonna ed era venuta da me soddisfatta come un gatto che si era mangiato il topo, come se si fosse tolta un gran peso dallo stomaco. Ma aveva anche iniziato un new deal. Avevo toccato il cielo con un dito e adesso volevo toccare il culo con la mano. Le feci l’invito e lei mi si avvicinò portandosi al di qua della scrivania per lasciarmi infilare una mano sotto la gonna ad accarezzarla. Lo feci con dignità e affetto, con professionalità e sesso. Poi si sedette sulle mie ginocchia il tempo sufficiente per baciarmi il collo. – Lo sa che lei sa toccare bene? E schizzò via improvvisamente così com’era venuta. Fu il più bel sesso della mia vita, e non avevo fatto un cazzo. Da allora iniziò un crescente rapporto di intimità che ci portò alla reciproca dipendenza, nel più semplice e nel più complicato dei modi. In realtà è tutto semplice quello che si fa, ma diventa complicato spiegarlo. Ci provo. La semplicità della relazione stava nel fatto chiarissimo che io mi ero innamorato di lei, ma non lei di me. La complicazione stava nel fatto che io la possedevo e la dominavo e potevo fare di lei quello che volevo. “Cosa vuoi di più?” – mi chiedevo ogni tanto. “Lei,” – mi rispondevo ogni volta. “Me ce l’hai! – insistevo. “Le balle!” – protestavo. – “E’ lei che mi ha.” Ci avevo pensato a lungo. Lei, donna bellissima, intelligente, rampante, dominante, desiderata da tutti, non riusciva a dare del tu ad un uomo più grande di lei, poco attraente e disinteressato a lei come donna fisica. Come se non bastasse, quest’uomo era l’unico che aveva dato spazio alla sua intelligenza, lasciandola libera di esprimere la sua soggettività e addirittura a darle piena fiducia. E che per tutta condizione le aveva chiesto solo di farsi dare del tu… E così, man mano che provava ad imporsi quell’atto di semplice benevola ubbidienza (l’opposto di quello che le avrebbe chiesto un bastardo), maturava l’assurdo desiderio di essere fisicamente sottoposta da lui. Nei suoi rapporti sociali lei restava la gran donna leader che era e continuava a dominare i ragazzi che amava, ma nei suoi viaggi onirici si eccitava da morire all’idea di essere dominata, schiavizzata, seviziata, posseduta, sodomizzata, trattata come un animale e come un oggetto… dal suo capo. Io l’amavo. Ma per quanto fortemente fosse stata attratta da me, con ogni probabilità io non ero stato nulla più del suo Pigmalione. E infatti si innamorò di un altro. A parte che era più bello e giovane di me, lui era anche fisicamente dotato e moralmente attrezzato. E geloso, possessivo e amato da lei. Allora lei mi chiese di non farmi più vivo. – Mi potrai sempre avere al semplice schiocco delle dita. – non mi disse, andandosene in un’atmosfera sconvolta da tutti i sentimenti impazziti. – Per questo ti chiedo di non cercarmi più. La amavo al punto che riuscii a non cercarla più, e in questo battei Pigmalione. Seconda parte – 14 febbraio 2006 “Accetto, ma ad un’altra condizione.” Col tempo mi resi conto che comunque lei non apparteneva più al suo creatore. Nulla a questo mondo lavora come il tempo. Ti fa dimenticare tutto. I vantaggi che mi aveva dato il non essere né suo padre né il suo moroso si erano rovesciati contro di me: non ero né suo padre né il suo moroso. E, grazie al lavoro del tempo, neppure il suo creatore. Quindi non ero più nessuno. E’ vero che io non ero rimasto con le mani in mano, né con il cuore in mano. Ad esempio mi ero innamorato, e dopo qualcosa come 100.000 scambi di messaggi e-mail e chat, di una bellissima e intelligentissima canadese che aveva sposato un italiano. Una bellezza paragonabile alle migliori star di Hollywood, un’intelligenza paragonabile alla mia (mi si scusi l’immodestia, ma io sono il mio metro di misura…), e in più innamorata di me. Un giorno, guardando un albo di vecchie fotografie, vidi una decina di mie modelle storiche, ognuna delle quali aveva avuto con me una storia. Da Grazia, il mio primo amore, a Rosanna, il mio secondo amore. Da Connie, la mia amata cuckold femmina, a Thamara, il mio ultimo prima di mia moglie. La storia di un’evoluzione della specie e della vita. Poi Annie, la mia prima amante… e V. “V,” – pensai chiudendo l’albo. – La semantica di tutto questo, il raccordo tra passato presente e futuro, la capacità di dare grandi passioni alle piccole cose, la forza di caricarti per la sola ragione che c’è anche quando non c’è, il confronto costruttivo tra Pigmalione e la sua creatura.” Accadde tra la festa di San Valentino e la Festa delle Donne del 2006. Le mandai un sms, nessuna risposta. Le mandai un altro sms, niente. Poi un terzo e un quarto e un quinto. Alla fine mi mandò una risposta. “Non voglio parlare con te. Non voglio vederti. Dopo dovrei confessarmi, e questo costa fatica.” “Non devi confessarti per questo.” – le avevo risposto. – “La purezza non è mai invereconda.” La cosa la colpì e mi autorizzò a chiamarla. Non ricordo che cosa ci siamo detti in quella telefonata e in quelle che seguirono. Sapevo che lei amava il suo moroso al di sopra di ogni cosa, e che non lo avrebbe mai tradito. Ma perché avrebbe dovuto tradirlo? Tra me e lei non era rimasto molto, salvo una connessione subliminale che ci poneva al sopra di tutto. E di tutti. Noi eravamo ancora noi, anche se non eravamo nessuno. Poi, d’un tratto, dopo decine e decine di telefonate, finalmente il 23 maggio accettò di invitarmi a casa sua. Ma ad una condizione. Stavolta era lei a porre la condizione. – Ti invito a cena per domani sera, – mi aveva detto, con tono di resa ma anche di sfida. – Ma ad una condizione: Non mi devi chiavare. Neanche se te lo chiedo. Questo significava due cose. La prima era che se proprio lo avessi voluto, avrei potuto scoparla. La seconda era che quello non attinente alla scopata era ammesso. Beh, insomma, più o meno era così; l’unica cosa certa era che non l’avrei scopata neanche se mi avesse implorato. Questo è il nostro modus vivendi. Arrivai a casa sua il 24 maggio 2006 con una bottiglia di vino bianco. Niente fiori, restano lì anche dopo. Niente cioccolatini, non li mangia solo lei. Mi accolse come se ci fossimo sempre visti quotidianamente negli ultimi cinque anni e anch’io mi ero trovato come se non ci fosse mai stata soluzione di continuità. Lo stereo era al minimo, la tavola era preparata, aprii la bottiglia, bevvi un sorso. Lei era seduta davanti a me. Invece che cenare mi alzai e mi portai sul divano e mi sedetti in mezzo. La guardai, lei si alzò e senza attendere troppo venne a sdraiarsi delicatamente sulle mie ginocchia, stando orizzontale per offrirmi il sedere, tenendo la testa alla mia sinistra e i piedi alla destra. Aveva tenuto le scarpe coi tacchi. Si mise comoda in tutta serenità. C’era della musica rilassante di sottofondo, forse un Buddah Bar. Non parlammo più ed io accarezzai le gambe con la destra e il collo con la sinistra per scioglierle la tensione. Man mano che la sentivo rilassare, con la mano destra accarezzavo più su, risalendo le cosce. Mentre la sinistra esercitava sul collo il senso di appartenenza, la destra s’insinuava piano sotto la gonna e accarezzava le cosce alternando l’intento di stimolare a quello di eccitare. Raggiunsi la fine delle calze e provai il contatto con la pelle nuda, liscia, fresca, elastica, reattiva. Solo lì mi resi conto che era tutto vero. La mia mano destra aumentò allora sempre più la propria indiscrezione. Sapevo dove toccare, dove fare pressione, dove stringere, dove palpare, dove impastare, dove sfiorare, dove pizzicare, dove strisciare, dove accarezzare. Dove far sentire la carezza protettiva del padre e dove far sentire la mano dura del padrone. Sollevai la gonna fino a scoprire le mutandine e accarezzai il culo dal basso all’alto per accrescerle il desiderio. I miei occhi si godettero quel momento e lei li sentì scottare sulla pelle. Avvicinai il viso alle natiche e alitai piano in modo che sentisse la mia presenza ravvicinata e la possibilità concreta di essere mangiata. Si bagnò subito. Il suo tanghino interdentale era già intriso quando insinuai la mano sotto i lati del tanga, cercando di interpretare i movimenti nervosi dei glutei che guizzavano sotto la pelle avvisando la mano quando li eccitavi e suggerendo cosa fare e dove andare. Abbassai il tanghino con calma. Era il contatto. Accarezzai finalmente il culo, quel culo. Il quale comprese perfettamente che era arrivato il momento. Impastai ancora, stavolta a due mani. Le dita si insinuavano dappertutto, prima discrete e poi indiscrete. Sfioravano, toccavano, passavano, strisciavano, palpavano, accarezzavano, sculacciavano, pizzicavano. Come una poesia, il tutto seguì da solo come un tempo: Cresce la forza di entrambe le mani, scende di destra la prima pacca, come scroscio di doccia che balza. Si perde, come flash che accompagna una foto. E il culo s’incurva, la mano rincalza, altro schiaffo scende nel suo colpo naturale. La sinistra comprime, la destra colpisce. La natica palpita, sale, s’allarga, si stende, s’allunga, s’incurva, propende. Il sedere risplende, sotto la potenza del palmo virile. La mano destra schiaffa, schiaffeggia, sborda, scroscia, schiocca, schianta, e il culo romba, ride, canta. Accorda e discorda le sue note feconde in suoni acuti e profondi. Libera e bella! Numerosa e folle! Possente e molle! Brucia e scotta la mano, si arrende e si bagna l’invaso. Pulsa e pòllula il pene, che scarica il seme nell’ugola felice di V. “Chia…va…mi…” – aveva detto inutilmente alla fine. Le tenevo la bocca con le dita della mano sinistra e i polsi dietro la schiena con la mano destra, mentre il suo culo sobbalzava ancora convulso nei suoi orgasmi. Finché lei non si placò ed io allentai la presa. Molto dopo mi alzai, mi ricomposi e me ne andai guardandola sorridere felice. Avevo rispettato la parola che avevo dato. Era mercoledì, quella sera del 24 maggio 2006. Avrebbe dovuto aspettare due giorni prima di scopare con Lui, il tempo più sufficiente per far andare via il rossore e utile per cancellare così il senso di colpa che aveva provato nell’appartenere ad un altro. Ma avrebbe aspettato volentieri. Ora io mi ero dissolto, e la purezza non è mai invereconda. Il suo Pigmalione era tornato per ricordarle che lei era la donna più importante non della sua vita ma del suo moroso. Il suo Pigmalione aveva giocato il suo ruolo già 10 anni prima e lo aveva esaurito oggi, amando la sua creatura al punto di lasciarla nuovamente crescere e consolidare con un altro.
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