Qualche goccia d’essenza di bouganville e la pozione dell’alchimista che m’ha tramandato il prezioso ricettario, scoppietta e bolle qualche istante e – come d’incanto – si tramuta in liquido incolore ed inodore simile all’acqua, almeno nell’aspetto. Sentenzia il libercolo avito che la sostanza, sia pur in minimo dosaggio deglutita, offusca a tal punto l’intelletto dell’incauto bevitore da renderlo immantinente docile e sommesso, e più di questo, solerte esecutore di qualsivoglia invito, ordine o comando, a lui venga impartito. Sappiate, o miei lettori, che chi scrive queste righe è ormai nella stagione in cui gli amori non sbocciano più come fiori in primavera, ma spesso sono frutto di negozi e di mercato, sì che da ormai parecchi lustri vivo nel castello di famiglia, solo e dimenticato ma sempre intento a dar corpo e forma alla pozione che sembra adesso giunta a compimento. Frequentano le sale della magione solo due servi di mestiere: lei giovane e graziosa da poco entrata in quella età maggiore che l’autorizza a darsi a suo piacere e che proviene da un paese orientale di cui non so o non mi ingegno a ricordare il nome. Gracile nel corpo la fanciulla emana tuttavia quel fascino carnale che sovente m’ha invogliato al desiderio di vederla senza le vesti che coprono le forme, gracili sì, ma tonde e belle. E quando lei si muove tra le sale, con quel suo portamento servizievole ma altero, per rassettar le stanze o adornar saloni, io colgo nei suoi occhi ingenui e miti, quel raggio di luce e di passione che ben contrasta, e assai, col suo candore. Scuro nella pelle l’altro servo che attende ai lavori di braccia e di fatica. Trent’anni o poco più potrebbe avere e nelle forme sembra come scolpito, alto e massiccio e forte e duro come chi nel corpo solido e potente abbia trovato una e chissà forse la sola forza per vivere la guerra di una vita. Nudo ha il torace quando scalpella, sega, solleva o muove gli oggetti che s’appresta a riparare e vibrano i suoi muscoli ad ogni gesto come il manto di un felino intento a guerreggiare. Il giorno quando entrambi lavorano al castello, non è per me troppo complesso ordir lo stratagemma – peraltro assai covato – di farli dissetar con acqua e infuso: e ansioso e trepidante mi pongo ad aspettarli nella sala dove son solito passar la notte, sala che loro già mille volte hanno insieme ripulito e riordinato. Mi chiedono licenza per l’accesso e lieto io li invito a entrare: li esorto inoltre a cominciare la lor fatica, fingendo d’essere ormai sul punto di finire il falso impegno che m’ero inventato per stare in quel locale quando loro vi si fossero appressati. La giovinetta s’era già chinata a raccattar lenzuola stropicciate e il nero era intento a spostar dei mobili dietro cui spazzare. Nervoso deglutisco e provo il gioco: “V’ho detto mille volte che al lavoro non voglio veder servi con drappi veli o vesti!” Si ferman tutt’e due, colpiti ma non sorpresi, e senza esitare entrambi si sfilano di dosso ogni tessuto che solo poco prima li copriva. “Oh bravi, fatevi vedere” soggiungo ancora io, io sì sorpreso ma gaudente. E i due rimangono vicini fermi, ubbidienti e nudi, sì ch’io li possa guardar con attenzione. Che estasi guardar quei corpi: la fanciulla è ancor più bella di quanto io stesso l’avessi immaginata in tanti sogni che sovente mi prendevano da sveglio quando poco prima dell’abbraccio di Morfeo i sensi si risvegliano e vorrebbero trovare quello sfogo – sia pur manuale – che m’è negato vuoi per l’età vuoi per il censo. Sodi i suoi seni e tondi e bianchi; morbidi i fianchi e chiara la sua pelle fresca come l’acqua o la rugiada del mattino. Rada la peluria fra le gambe che cela il fiore della sua specie, lo cela al mio e ad ogni altro sguardo. A fianco a lei il campione dal fisico possente che pur nelle nebbie fitte della ragione reagisce al profumo della carne di lei che gli sta vicino, tanto che la verga non è a riposo, ma sbalza e freme in quella direzione che indica del sole il mezzogiorno, tendendosi all’istante come un tronco in cerca della luce o del calore. Tremando mi rivolgo alla fanciulla: “Adagiati sul talamo e mostrati anche all’uomo che di fianco sembra bramare ardentemente il godimento della tua dolce visione”. Seduta sulla sponda la pulzella si pone con le cosce ancora strette: poi le dischiude, e con timido sorriso, ci mostra l’oggetto del piacere dei nostri desideri, dischiuso anch’esso al nostro sguardo. E un trasalir dei sensi mi prende e mi stordisce e senza più saper che dico e cosa faccio, m’appresso alla fanciulla e con il palmo la tocco lungo il corpo e fino al punto dove palpando io mi bagno. La voglio poi distesa sì che alle mie mani si offra totalmente e tocco lussurioso i seni e le sue spalle e torno ancora là ad infilare il dito nel giardino profumato della sua femminilità. La sento ora che freme e la guardo in viso mentre col dito le tremo nella carne: la sento sussultare di gioia o di dolore, e geme ad occhi aperti guardandomi fremente come a chiedere che cosa succeda nel suo ventre. Non smetto di infilarla nemmeno quando sento il fiume in piena sgorgare dalla fonte che del piacere è causa e segno. Con l’altra mano tocco la sua bocca carnosa, mi lecca fra le dita, le infilo fra le labbra lasciandola succhiare come se avesse in bocca il simbolo maschile e non le dita stanche d’un vecchio porcaccione. Crudele questa età che toglie a noi il vigore ma lascia intatto il demone del desiderio e della brama! M’indigna assai il pensiero di non essere più in grado di far quei gesti usati che pure in giovinezza sembravano naturali e certo destinati a durar tutta la vita. E forse a ciò pensando m’invade una gran rabbia che quasi in odio trasmuta quella tenerezza che poc’anzi m’ero scorto a provar per la fanciulla e con violenza spingo le dita dentro al suo corpo quasi a vendicar in lei il piacer che m’è negato. E al nero mi rivolgo, dicendo scellerato: “T’ho visto che la brami. E voglio che tu l’abbia. Prendila ordunque come hai già sognato, possiedila qui e ora nel modo che t’aggrada”. Mi scanso e il nero, con perfido sorriso, s’appropinqua al letto e dopo esservi montato, rivolta la fanciulla ponendola bocconi, in quella posa oscena per cui il fondoschiena è esposto sollevato a sguardo, a tatto e a ingiurie. Ancora non sazio il nero con le mani le allarga le cosce in modo che l’altro orifizio vieppiù immacolato sia ben in vista e pronto ad essere violato. Si sputa nella mano quell’uomo assai infoiato e la saliva spalma nell’antro della donna, che geme appena un poco sentendo quella mano che lubrifica l’ingresso -e oltre – del buco tanto bramato. Esplodo di lussuria e mi sento mancare quando l’asta nodosa imbocca la via che punta diritta all’uscio proibito e ancor più m’infervoro spiando l’espressione mite del volto di lei ignara del progetto osceno alle sue terga e anzi ancora beata per quell’intima carezza del retto che prima l’aveva disposta a più dolci sensazioni. Un colpo bestiale repente l’assalta e il brando di lui s’affonda laddove nessuno posto mai vi aveva il membro. Sussulta e singhiozza e in gran copia le lacrime le solcano le guance bagnando il cuscino già morso dai denti che stretti lo serran per meno gridare. Osservo il suo volto contratto dal male e il pianto che invece di muovermi a pena ancor più mi invoglia, m’arrapa e m’infuoca. E mentre la bestia infierisce spietata e furiosa con durissime spinte e con rapide fughe lasciando ogni volta la povera donna sgomenta e smarrita, con l’aria che in gola è come non passi e a bocca socchiusa a ricercar fiato, di nuovo s’insinua in me il lume di nuovi piaceri e veloce mi disfo di vesti e calzoni, m’adagio sul letto ch’è grande e maestoso in modo che il flaccido e vecchio martello non disti di troppo dal tremulo labbro di lei che gemendo e con supplice viso mi guarda chiedendo le altre mie brame. Non parlo neanche ma porgo il mio membro a quella sua bocca tremante e carnosa: l’insinuo giù in fondo e godendo aspetto che a ogni fottuta del nero randello il corpo di lei sussulti in avanti inghiottendo in profondo tutto l’uccello. Miracoli della natura scherzosa: il vecchio martello – da tempo in disuso – riprende vigore, s’ingrossa e s’infoca, nel carnoso cappuccio riprende la fiamma e a un colpo del nero, assestato più forte, le penetra in gola, poi pulsa e borbotta ed ecco che esplode di nuovo il piacere, frammisto di succhi densi e biancastri che colano in parte giù per il palato ed altri tracimano dal labbro violato. Nel mentre esplode la fiera in calore con un urlo contratto nel ventre ferito schizzando con getto assai più violento il suo seme caldo in gran quantità. S’accascia la giovane ovunque riempita, m’accascio anche io esausto e felice e il nero che ancora potrebbe rifare quanto già fatto sta fermo a guardare. Con l’ultimo ordine accorto, comando di prender congedo e poi di scordare quant’era avvenuto nel vecchio castello d’un vecchio alchimista che invece dell’oro s’è messo a creare la formula magica per ritrovare il vecchio vigore piacevole e bello d’usare ogni tanto il suo vecchio martello.
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