Non ho mai regalato fiori a una ragazza.Non ho mai creduto che servisse a qualcosa. I film in cui gli uomini seducono donne bellissime o ricchissime a colpi di rose o di orchidee, sono appunto dei film. Ma questa sera comincio a pensarla diversamente. I fiori hanno, come dire?, una loro verità. In fondo, sono fatti della stessa materia dell’amore, contengono la stessa fragilità, la stessa instabilità temporale, la stessa inevitabile fine. L’appassimento. La morte.Vedevo spesso in televisione una pubblicità in cui un uomo rincorreva una ragazza con un fiore rubato per lei, e quando glielo dava, le labbra di lei si schiudevano in un sorriso di stupore e di piacere, come se il fiore fosse una chiave, o un passe-partout per entrare dentro una donna. Per entrarle dentro in tutti i sensi, compreso il più importante, quello fisico.A volte avrei voluto rubare anch’io un fiore per una sconosciuta: ma non credo che un fiore possa davvero cambiare, anche solo per un attimo, lo sguardo duro e fermare il passo esageratamente sicuro e veloce di una qualunque ragazza.Però ieri, non so nemmeno io perchè, ho fatto come quello della pubblicità. Cioè, il fiore non l’ho rubato, l’ho comprato, anzi ne ho comprati tre, tre rose nemmeno tanto belle da un marocchino a un semaforo. E non ho nemmeno contrattato sul prezzo, come facevano altri accanto a me, perchè “la toppa della serratura”, o meglio la ragazza che mi stava accanto, protestava schermendosi: – No, no, ma cosa fai? -Però quando le ho offerto le rose ha sorriso come quella della pubblicità. E io non so la faccia che ho fatto, se era da scemo come quello della pubblicità o era il mio sorriso normale, che è da scemo uguale.Però mi sentivo davvero emozionato, come se, quella ragazza, invece di accettare imbarazzata le rose, mi stesse baciando. – Vuoi che ti accompagni? – Ecco una frase che le donne non dicono mai agli uomini. Ma accidenti, quante volte se lo sentono dire, e, se gli fa comodo, accettano. Però ieri a me una ragazza l’ha chiesto. Comunque devo chiarire subito: quella che ieri mi si è rivolta con quelle parole l’ha fatto per non avere un debito con un uomo di cui si è servita.Eppure mi è parso che il suo sorriso, quando ha stretto tra le mani quelle tre rose striminzite, dimenticandosi persino di annusarne il profumo, fosse proprio per me, e non per un ragazzo capitato lì per caso e che le era stato utile. – Vuoi che ti accompagni? -Quando sono salito sulla sua macchina, confesso, temevo mi chiedesse che auto avevo e sono rimasto in silenzio mentre usciva spigliata dal parcheggio e, senza mettere la freccia, schizzava via nel traffico, incurante di un autobus che ha protestato con un lungo colpo di clacson. Chissà perchè mi è venuta l’idea di regalarle quelle rose, dove ho trovato il coraggio, io, timido come sono, di abbassare velocemente a un semaforo il finestrino, sporgermi fuori e gridare “Ehi!”, e intanto togliermi di tasca il portafoglio contorcendomi sul sedile, ritrovarmi quel cellophane tra le mani, poi lei imbarazzata a cercare le parole. E io più di lei, senza trovarle.Ma ero imbarazzatissimo, non sono riuscito nemmeno a trovare una frase gentile, un banale “Sono per te”. Le ho messo semplicemente in mano quelle rose e l’ho guardata, e lei è rimasta per un attimo, anche lei, un po’ imbarazzata, ma poi si è rapidamente ripresa e ha esclamato: – Sono bellissime! Adesso divento rossa. -Poi si è scossa perchè il semaforo è tornato verde, ed è ripartita mordendosi le labbra, con le rose ancora posate sul grembo e le gambe che spuntavano dalla gonna sparendo in basso verso la pedaliera, come due lunghi steli di pelle bianca. Una donna è sempre di qualcuno e questa è l’unica regola che gli uomini rispettano. Magari cercheranno di rubartela, come si ruba un’auto o un orologio di marca, ma lo faranno sapendo che è un reato non davanti alla Legge dello Stato, ma davanti a una legge non scritta, ma accettata da tutti gli uomini, intendo da tutti i maschi.Forse per questo, anzi sicuramente per questo, i tre ragazzi, quando mi hanno visto, si sono calmati. – Lascia perdere. – ha detto uno rivolto a quello che, non rendendosi conto della mia presenza, continuava a gridarle ridendo. – Vieni qui, che un cazzo così grosso non l’hai mai visto! – e faceva l’atto di sbottonarsi i calzoni.Forse uno di loro mi ha anche chiesto scusa, come quando uno si appoggia a un’auto parcheggiata e arriva il proprietario, poi ha borbottato qualcos’altro come a cancellare quella parola detta troppo in fretta. Quando hanno girato l’angolo e sono arrivati in fondo alla strada, si sono però messi a sghignazzare di una battuta che non ho potuto sentire, ma nessuno di loro si è girato a guardarci. – Grazie – mi ha detto lei tenendomi ancora a braccetto. Mi stringeva il braccio con le dita quasi conficcate nella carne, era ancora la paura, ma quella stretta mi piaceva, e mi piaceva ancor di più sentire quella ragazza tutta eccitata camminare accanto a me come se fosse la mia ragazza. – Grazie – mi ha detto ancora, anzi per la precisione ha continuato a ripetere: – Grazie, Marco. – E mi ha anche sorriso, senza mollare la presa, cercando di trascinarmi dall’altra parte della strada come se fossimo ancora inseguiti da quei tre. – E di cosa? – ho protestato. – Io non ho fatto proprio niente. -E non avevo fatto proprio niente, se non assecondarla. Certo ero rimasto sconcertato quando, arrivando dall’altra parte della stradina, avevo visto la ragazza inseguita da quei tre e ormai quasi affiancata e avevo letto la paura nei suoi occhi tramutarsi in sorpresa, poi in speranza e l’ho sentita gridarmi. – Marco, Marco! Finalmente! Pensavo non venissi più. -Allora mi sono bloccato, l’ho guardata come ipnotizzato, corrermi incontro, mentre i tre rallentavano, e ho fotografato i suoi lunghi riccioli castani svolazzanti e le sue gambe nervose sotto la gonna divorare l’asfalto con un movimento convulso dei fianchi, e ho detto, si, ho detto quasi subito scuotendomi. – Scusa il ritardo, ma che succede? -Poi lei mi ha buttato le braccia al collo e mi ha stretto forte, io avrei voluto che mi desse anche un bacio, perchè la scena sarebbe stata più credibile, e soprattutto perchè aveva le labbra grandi, come piacciono a me, di quelle che riempiono le tue e te le succhiano, quasi ti volessero bere.Ma non mi ha baciato. Mi ha stretto forte, ho sentito le sue dita allacciarsi dietro il mio collo e il suo volto aderire al mio tanto da imprimere in me il suo profumo, ma il bacio è rimasto solo un desiderio sulle mie labbra. – Certo, sei stata pronta di spirito! – ho commentato dopo in macchina. – In una situazione del genere io non avrei saputo cosa fare. -Lei mi ha guardato a lungo in silenzio, con dolcezza, forse dal primo momento che mi aveva visto, ancor prima di abbracciarmi e di farsi scortare da me fino all’auto, mi aveva giudicato uno di quei ragazzi buoni, magari un po’ troppo semplici e ingenui, che popolano le strade e di cui le donne non si accorgono se non per farsene degli amici servizievoli, e soprattutto segretamente e disperatamente innamorati di loro. – A voi uomini queste cose non possono succedere. – ha risposto cambiando marcia con sicurezza e accelerando di colpo per un sorpasso.Ho inghiottito a fatica come fosse un rimprovero. – Dove abiti? – ha chiesto poi tornando serena. Voleva proprio accompagnarmi e la cosa mi dispiaceva un po’, sentivo che quel suo volersi sdebitare immediatamente era un modo anche per chiudere, per depositarmi davanti a casa e dirmi con un sorriso di circostanza “Allora grazie di tutto, e ciao”.Forse per questo le ho detto una bugia, che avevo la macchina dall’altra parte di Roma, che se voleva proprio farmi un favore… E dopo averlo detto ho pensato di aver forzato troppo, invece lei a quel punto non ha detto di no, forse perchè era ancora troppo sconvolta.Poi ci sono state le rose e dopo forse anche lei avrebbe voluto che la strada fosse ancora più lunga e con più traffico, per stare più tempo insieme. – Ma come ti chiami, veramente? – ha domandato alla fine di uno dei lunghi silenzi che costellavano la conversazione. – Marco, naturalmente, non avevamo appuntamento oggi al centro? – Ecco, lì sono stato bravissimo.Lei si è messa a ridere, e io pensato a un mio amico che assicura che quando una donna comincia a ridere è buon segno. – Be’, io mi chiamo Serena, ed è il mio vero nome – ha aggiunto divertita. – Se non vuoi dirmi il tuo, ti chiamerò Marco. – – Siamo arrivati – ho detto a metà di viale Giulio Cesare, sono sceso e mi sono fermato accanto alla Uno azzurra che avevo scelto come mia auto, rigirandomi come uno scemo le chiavi di casa in mano, e cercando inutilmente nella tasca della giacca le chiavi dell’auto che non avevo.No, non è stata un’impressione, è stata lei ad indugiare, non ha detto sbrigativamente “Ciao” ed ha accelerato. Chissà, forse sono state le rose, o forse i miei discorsi in macchina.Forse. Comunque ho avuto tutto il tempo di riaprire lo sportello della sua auto con il vetro ancora abbassato, non di infilarmi dentro il finestrino, ma di riaprire con calma lo sportello e di chiederle, dopo aver cercato le parole: – Ti andrebbe di rivedere domani Marco allo stesso posto? Questa volta vedrai che non farà tardi. -Lei è rimasta imbarazzata a guardarmi, come se non si aspettasse una domanda del genere da uno che regala rose alle sconosciute. Poi ha tormentato il volante come se si afferrasse a qualcosa, alla fine ha detto, guardandomi prima ancora a lungo, come se la risposta fosse stata scritta nel mio sguardo più che nei suoi pensieri: – Va bene, rivediamoci. – E stasera ci siamo rivisti.Stavo veramente bene con l’abito elegante che mi ero messo. Non sarà l’abito che fa il monaco ma, mentre fendevo la folla per andare all’appuntamento, mi sentivo sicuro come se indossassi un’armatura. Persino la scusa che avevo inventato, un guasto alla macchina proprio quel pomeriggio, mi sembrava più credibile vestito in quel modo. E quando sono entrato dalla fioraia per comprare le rose, lei mi ha guardato con quell’aria sorniona e compiacente che hanno spesso le signore anziane verso i giovani come me, e richiudendo accuratamente il cellophane con i punti metallici, ha detto incoraggiante: – Sono bellissime queste rose. – E con gli occhi mi stava dicendo che avrei fatto bella figura, che insomma non erano certo soldi buttati.Tutto quello che ho scritto all’inizio sui fiori e sul loro effetto, devo riconoscerlo, è drammaticamente vero. Però che imbarazzo camminare tra la gente con un enorme mazzo di rose in mano, che curiosità negli occhi di chi ti sfila accanto. Credo che alcuni guardino cercando disperatamente sul cellophane un biglietto, una motivazione, il destinatario, e forse per questo ai funerali ci sono quei nastri viola sotto le corone che riportano queste notizie. Ma per i fiori di un innamorato ancora questa abitudine non è stata adottata e la gente cerca nei tuoi occhi quella striscia di seta con le lettere dorate.Mentre stavo pensando non ho visto Serena, e sono quasi andato a sbatterle contro. Perchè l’appuntamento era in zona pedonale e lei, dopo aver parcheggiato, faceva la mia stessa strada.Siamo rimasti una decina di secondi a guardarci: io a guardare lei e lei il mazzo di rose. Ero sicuro che se le aspettava, ma non tante e così belle. – Be’, adesso hai esagerato – ha esclamato affascinata, poi ha capito di essere stata, senza volerlo, scortese, mi ha tolto il mazzo di fiori dalle mani e le ha guardate sorridendo. – Mi vuoi proprio mettere in imbarazzo – ha continuato e imbarazzata lo era per davvero, non tanto per me, ma per gli sguardi dei passanti che le si appuntavano addosso come spilli. – Spero ti piacciano, Serena. – ho iniziato, e di colpo mi sono bloccato perchè avevo ripetuto una delle frasi di convenienza senza significato che dico solo nelle rare visite ai parenti. – Che programmi hai? – ha chiesto lei, pensando forse soltanto a un posto dove rifugiarsi dagli sguardi dei curiosi. – Be’ – ho risposto, – possiamo fare due passi, prendere qualcosa… Poi più tardi magari andiamo a mangiare qualcosa insieme. Non so ancora molto dei tuoi gusti, purtroppo. – ho aggiunto sorridendo. – Già – ha risposto lei avviandosi. Era dispiaciuta. – Comunque io avevo pensato di rientrare a casa per cena. – E’ stato come se il mondo mi crollasse addosso, non ho avuto nemmeno bisogno di dirlo, lei ha capito subito, deve essersi sentita in colpa, ha continuato per un po’ a camminare in silenzio, mentre la mia faccia doveva essere davvero disperata tanto da non vedere nemmeno le persone che passavano.Poi, giunta finalmente a una decisione, si è fermata e, guardando le rose ha detto: – Be’, se proprio ci tieni, se avevi già pensato a dove andare… -Mi sono girato verso di lei di scatto, ma ho preferito lasciarla finire. – … posso telefonare a mia madre e dirle che torno più tardi. – – Ti crea problemi? – ho domandato e mi sono dato dello stupido: ora che voleva restare, stavo quasi suggerendole che era meglio non farlo. – Ma no, sta’ tranquillo – mi ha assicurato lei, rigirandosi quell’enorme mazzo di fiori tra le mani. La borsetta nel farlo le è scivolata dalla spalla e io l’ho aiutata a rimettersela apposto. Forse quel gesto ci ha reso improvvisamente più vicini. Adesso era ferma davanti a me. – Non ti preoccupare – ha concluso decisa. – Basta solo che telefoni a mia madre, così non sta in pensiero. -E io sono tornato alla vita. Anche nel bar dove siamo andati per telefonare la gente ci osservava. – Me le puoi tenere un attimo? – ha chiesto porgendomi le rose, e ha cominciato a rovistare nella borsetta alla ricerca della scheda telefonica.In quel momento l’ho guardata veramente per la prima volta. Teneva una gamba sollevata per appoggiarvi la borsetta, il suo profilo perfetto si stagliava netto contro le pareti di legno del bar. Ha trovato la scheda, si è girata e mi ha sorriso, e anche mentre parlava al telefono ogni tanto mi sorrideva, come sorridevano gli avventori del bar sbirciando discretamente verso di me. – Sono fuori a cena… Faccio tardi, vai a dormire… No, no, non stare alzata ad aspettarmi, mi raccomando… Quando torna papà?… Ah, è fuori anche domani… -Le frasi mi giungevano oltre il frastuono dei bicchieri e la musichetta della cassa che ingoiava denaro al ritmo veloce di un bip-bip. Era davvero la prima volta che la guardavo, che la vedevo come donna: era abbastanza alta, con il volto dagli zigomi pronunciati e gli occhi azzurri truccati leggermente; quando parlava si mordeva ogni tanto le labbra carnose e il corpo le si agitava tutto, mentre reggeva con la spalla la cornetta e con le mani libere richiudeva la borsetta; il corpo era magro, di quella magrezza contenuta che hanno le ragazze quando vanno in palestra e fanno la dieta, se si accorgono di avere qualche chilo di troppo; le gambe erano snelle e nervose e il sedere appariva pronunciato e sodo. Mi colpiva soltanto il seno perchè stavolta portava una camicetta con la scollatura a V che ne faceva intravedere abbondantemente la parte superiore. Un’avventura. E’ stata un’avventura, un’indimenticabile avventura, andare a zonzo con lei, salire sulla sua auto, mettersi a ridere al semaforo quando un venditore di rose si è avvicinato e noi gli abbiamo indicato il grande mazzo sul sedile posteriore.Non si pensa durante un’avventura. Mentre lei guidava e parlavamo delle cose più strane, mentre mi raccontava di suo padre che lavora per un’agenzia turistica e sta via tutto l’anno, io non pensavo che a lei. Avevo gli occhi pieni delle sue labbra e le mani nervose, abbandonate sulle gambe a tormentarmi i pantaloni, che ad ogni momento avrebbero voluto sfiorare la sua pelle, quella del suo seno, ma anche solo quella delle mani. Ma la sua pelle.Un’avventura non ha una ragione, un perchè, non ha nemmeno una logica. Ha solo delle emozioni che la guidano, che ti prendono per mano e ti dicono “Vola”.Così siamo andati prima in una libreria dove lei voleva comprare un libro che però non ha trovato, poi sono stato io, no, adesso ricordo, è stata lei che ha notato il ristorante cinese con le lampade rosse all’esterno.Non credo di aver parlato molto, forse non ho nemmeno ascoltato lei che invece sembrava inarrestabile, solo quando ci siamo seduti e la cameriera con gli occhi a mandorla ci ha messo in mano il menù, sono scoppiato a ridere per qualcosa che lei stava dicendo. E ho riso tanto che i clienti dei tavoli vicini si sono girati. E anche lei rideva.E forse mi giudicava un po’ bambino, ma la cosa non le dispiaceva. Chissà come mi è venuta l’idea del bacio. Quando si è tanto felici, la paura si scioglie e ritroviamo dentro di noi qualcosa che pensiamo di aver perduto in un giorno qualunque del passato.Serena a volte diventava materna. – Attento che ti macchi! – mi ha raccomandato quando ho versato nel piatto il maiale in agrodolce, facendo schizzare alcune gocce di sugo sulla camicia. Ma ormai era troppo tardi. – Se ci metti del talco, ti va via! -E allora gliel’ho chiesto. – Senti – ma non sapevo nemmeno se sarei riuscito ad arrivare fino in fondo al discorso. – A quel tavolo in fondo c’è un mio amico, uno che conosco insomma, ti dispiacerebbe se gli facessimo credere che stiamo insieme? – – E perchè vorresti farglielo credere? – ha chiesto sorpresa, ma era divertita dalla faccenda. – Perchè gli amici mi prendono sempre in giro perchè sono timido. E poi perchè non ho mai incontrato una ragazza bella come te. -Lei mi ha guardato a lungo, come se cercasse di capire se ero vero, o se anch’io come il drago di legno che ci sovrastava, facessi parte di uno stile finto e che, uscendo fuori da quel luogo, tutto sarebbe sparito, anche i fiori che erano rimasti in macchina. – Scusami, Serena – mi sono affrettato ad aggiungere. – Forse ti sei offesa. Parliamo d’altro. – e ho fatto la faccia più contrita che potevo. – Ma no, – ha ribattuto lei, – una volta tu hai fatto finta di essere il mio ragazzo, per una volta io posso farlo per te. – E mi ha preso la mano e ha tenuto le mie dita intrecciate alle sue, poi quando quello del tavolo in fondo, che io naturalmente non avevo mai visto, si è girato per guardarci, Serena si è sporta oltre il tavolo e mi ha baciato sulle labbra. Stavolta non me l’aspettavo, sono rimasto lì, come uno stupido senza neanche ricambiare il bacio e anche questo è evaporato nell’aria senza che riuscissi ad afferrarlo. – Va bene così? – ha chiesto divertita.Io mi sono passato la lingua sulle labbra quasi chiedendomi se era vero. Ero al settimo cielo. Ma non mi ha più preso la mano. E’ stato quando siamo usciti che è cominciato il gioco. – E adesso che si fa? – ha chiesto quando siamo arrivati alla macchina. – Abito con mia madre – ho spiegato io, – e non posso farti vedere la mia collezione di farfalle. -Si è messa a ridere. – Neanch’io ti potrei far vedere la mia a quest’ora, malgrado che ce l’abbia davvero. – E questo lo sapevo perchè me lo aveva detto durante la cena. – Come avresti fatto a dirmi di no? – le ho chiesto improvvisamente. – E chi ti avrebbe detto di no? – ha risposto lei fingendo di stupirsi.Ci stavamo punzecchiando e ci divertivamo tutti e due della cosa. – Vuoi dire che saresti salita da me per vedere la mia collezione di farfalle? -Lei ha smesso lentamente di ridere e mi ha guardato con dolcezza. – Io mi fido di te – ha sussurrato nel buio della strada, – altrimenti non sarei qui stasera. E se tu mi invitassi a vedere la tua collezione di farfalle salirei sicura che non approfitteresti dell’occasione. Come farebbero invece molti altri. – – Da cui non saliresti – ho concluso io. E lei si è messa nuovamente a ridere annuendo col capo.Ci siamo seduti in macchina abbassando i finestrini per far entrare l’aria fresca della sera. – E su un prato sperduto, alla luce della luna, ci verresti con me? – ho chiesto io facendo, a fatica, il serio e tendendo la mano verso la sua come a invitarla. – E tu cosa mi faresti al buio? – ha chiesto lei ridendo e accettando la mia mano nella sua. – Cose folli. Da far arrossire la luna. – – Magari sei anche licantropo – ha insinuato e io allora mi sono sporto dal finestrino e mi sono messo a ululare. – Zitto, zitto! – ha esclamato schiaffeggiandomi leggermente la spalla e trattenendo a fatica il riso. – Ma c’è la luna piena – ho protestato, – e quando c’è la luna piena io faccio sempre così! – Poi sono tornato di colpo serio, ma questa volta nel mio sguardo traspariva qualcosa di triste. – Che ti ha preso? – ha domandato lei, turbata da quel mutamento. – Lo hai detto per dire, vero? – ho buttato lì. – Che cosa? – – Che verresti su un prato, con me, di notte, adesso. – – No, no, dicevo sul serio – ha ribattuto lei. – Scusami – ho continuato dispiaciuto. – Sono sempre quello che alla fine rovina tutto. – – Ma no – mi ha rincuorato. – Aspetta e vedrai. – Ha acceso il motore ed è partita.L’aria entrava dentro e faceva sbattere il cellophane delle rose. Quando abbiamo infilato l’Appia era come se dietro ci trascinassimo nel vento una gigantesca, invisibile e rumorosa vela. – Dove stiamo andando? – ho domandato timidamente dopo un lungo silenzio. – Aspetta e vedrai – ha ripetuto lei e, girandosi, mi ha sorriso ed è rimasta lì a guardarmi mentre l’asfalto ci veniva incontro nel buio, tanto che alla fine ho dovuto sorridere anch’io perchè tornasse a guardare davanti a se. Era proprio un prato, quello dove siamo arrivati alla fine: vicino si srotolava sull’erba un’alta recinzione e dietro la recinzione dormiva, rosicchiato dai secoli, un rudere con i contorni imbiancati dalla luna.Eravamo ad appena trecento metri dall’Appia, ma sembrava ci fossimo smarriti in un deserto di stelle, la luna era il sole, un grande sole giallo, capace però solo di illuminare un mondo in bianco e nero, come in una vecchia pellicola. – Non dico mai bugie – ha esordito. – Hai visto? -Io le ho sorriso e ho annuito con il capo mordendomi le labbra. – Un anno fa ci sono venuta in questo posto un paio di volte. Non ero sola… – ha aggiunto. Poi si è fermata e ho dovuto attendere che il breve film di quella storia le scorresse davanti agli occhi, prima di vederla scuotersi davanti ai titoli di coda su cui non voleva più leggere i nomi degli interpreti. E finalmente si è girata di nuovo verso di me. – Non hai mai detto bugie nemmeno quando venivi qui? -Lei ha sorriso sorpresa, ma soddisfatta. – Domanda intelligente. Ma, vedi, è diverso – ha spiegato sfilando soprappensiero la chiave dal cruscotto e appoggiandosela sulle labbra, quasi il freddo del metallo l’aiutasse a pensare. – Ti considero un amico e io agli amici non dico mai bugie. – – Ma sono anche un uomo – ho ribattuto e mi rendevo improvvisamente conto di come lei aveva tenuto a distinguermi dall’altro e a mettermi, senza nemmeno prendermi in considerazione, nella categoria di quelli con i quali andare lì significava un’altra cosa.Cioè nulla. – Ma certo che sei un uomo – mi ha assicurato. – Però sei un uomo differente dagli altri. Anche se ti conosco poco, ti ho raccontato cose di me che non ho mai detto a nessuno. Sento che possiamo diventare veri amici. Tu credi nell’amicizia? – – Ma io sono un uomo – ho insistito.Adesso era nervosa. Ha giocato a lungo con le chiavi della macchina e ho anche pensato che, non trovando risposte, le infilasse di scatto nel quadro e rimettesse in moto la macchina. – Parlami di te – ha chiesto alla fine di un silenzio leggermente troppo lungo per tutti e due. – E’ tutta la sera che parlo di me e tu mi hai raccontato solo barzellette. Intanto come ti chiami veramente? -Non ho risposto. – Tu non dici mai bugie – ho insistito, – allora dimmi, perchè hai accettato di darmi quel bacio al ristorante? – – Perchè era un gioco, ecco perchè, e poi era solo un bacio sulle labbra – ha risposto senza pensarci nemmeno un attimo, improvvisamente seccata. Poi è tornata calma con la stessa rapidità. – Perchè mi fidavo di te. Perchè mi fido di te, anzi – e mi ha guardato indispettita dal fatto che io avessi sfiorato l’argomento. – Perchè mi hai giudicato innocuo – ho proseguito io implacabile. – Con un uomo, un vero uomo, non l’avresti fatto. – – Adesso stai dicendo stupidaggini – ha ribattuto seccata. – E se io adesso ci provassi? – ho continuato. – Se ti mettessi una mano sulle cosce, per esempio? Tu cosa faresti? -E in quel momento si è accorta che parlando si era girata verso di me sul sedile e la gonna le era salita su fino a scoprirle le gambe. Ma non l’ha abbassata, ha resistito alla tentazione, non l’ha abbassata, quasi che farlo fosse darmi indirettamente ragione. – Tu non sei il tipo da fare queste cose – ma ormai parlava più a se stessa che a me. – Ne sei davvero sicura? – ho insinuato. – Si -Allora ho allungato la mano, ho superato lentamente lo spazio che ci divideva e l’ho tenuta sospesa sul candore di quella pelle illuminata dalla luce lunare. Lei mi guardava con una sicurezza che rendeva il suo sguardo duro e freddo come una pietra preziosa. – Sicura? – – Si – ha insistito e anche la sua voce era una pietra, dura e preziosa.Di colpo ho lasciato cadere il braccio e ho sentito la sua pelle e le mie dita, come fossero diventate le zampe di un ragno, hanno camminato su quel tepore fino a risalire la coscia, fino ad arrivare alle mutandine e a cercare di forzare l’elastico del cavallo da cui sbucavano, leggeri sotto i polpastrelli, ciuffetti di peli aggrovigliati. Mi ha colpito.Mi ha colpito con uno schiaffo secco, e nei suoi occhi ho letto una rabbia dovuta più alla sconfitta della sicurezza ostentata fino a quel momento, che a quello che avevo fatto.Ho tirato via la mano senza nemmeno capire perchè. – Andiamo via – ha detto lei in preda a quell’odio represso e cieco che assale le donne ogni volta che si accorgono di non poter più dominare psicologicamente un uomo. – E perchè? -Senza rispondere ha cercato di infilare la chiave nel cruscotto, ma io le ho fermato la mano con decisione. – Voglio parlare ancora, Serena – ho insistito. – Adesso che sono un uomo per te, voglio parlare ancora. – – Senti, è stata una bella serata – tentava di chiudere, era turbata. – Sei stato tanto carino, perchè vuoi rovinare tutto? Io ti ho baciato, tu mi hai toccato le gambe. Siamo pari, va bene? Guarda che non sono arrabbiata, semplicemente non mi va più di stare qui. Adesso ti riaccompagno a casa e… -Con la sinistra le tenevo la mano con le chiavi, ho semplicemente allungato la destra e l’ho posata sul suo seno. Mi ha colpito ancora con uno schiaffo e ha cercato di divincolarsi per mettere in moto e partire. Allora, solo allora, mi è scattato dentro qualcosa di irrefrenabile, di cui anch’io avevo paura man mano che si impossessava dei miei pensieri. Ho incominciato a urlare con quanto fiato avevo in gola. – Sono un uomo, un uomo, capisci? – E l’ho colpita in faccia rabbiosamente, con una violenza che non mi conoscevo, l’ho vista rimbalzare sul sedile e l’ho colpita ancora. Ora mi fissava con occhi stravolti e istintivamente si ritraeva spaventata contro lo sportello. – Sei come tutte le altre – ho detto ricomponendomi. – Carina e gentile finchè pensi che l’uomo è innocuo, poi se ci prova ti ricordi di essere una donna, in vendita al migliore offerente. – – Ma sei pazzo? Mi hai fatto male – ha ribattuto lei, gli schiaffi dovevano bruciarle, teneva una mano sulla guancia sinistra e tremava tutta. – Ma che ti ha preso? – ha chiesto ancora balbettando. Era come se non credesse a quanto era accaduto. – Niente – ho precisato io ormai tranquillo. Ma anche a me i suoi schiaffi bruciavano ancora. – Tu mi hai dato una sberla e io te l’ho restituita. Forse che le sberle possono darle solo le donne? -La luna illuminava l’interno dell’auto, le pioveva sulla pelle, la rendeva lucente. – Hai due gambe molto belle – ho continuato, – e un seno incantevole. Che misura porti? -Tremava ancora, ma si è faticosamente ricomposta con le mani che fremevano, per la rabbia, ma credo anche per la violenza dei miei schiaffi. Poi si è calmata, il suo respiro si è fatto più regolare, ormai riusciva a controllarsi, mi ha guardato e ha cominciato a parlare lentamente. – Forse ho sbagliato prima, forse abbiamo sbagliato tutti e due – mi ha detto cercando i miei occhi nel buio, ma lei era illuminata e io no. – Tu sei un ragazzo simpatico, solo che io non sono abituata a certe cose. Non mi va che uno mi metta le mani addosso la prima volta che usciamo. Forse hai interpretato male il mio atteggiamento, ma per come hai agito, io non potevo fare altrimenti. Comunque adesso non penso sia il caso di restare qui. Magari domani ci sarà passato tutto e vedremo le cose con occhi diversi. E magari ci rideremo sopra insieme. -Era tanto arrabbiata per essersi lasciata fregare dalla troppa sicurezza, che mi avrebbe concesso veramente una nuova occasione, unica e ultima, ma solo per dimostrare a se stessa che io non ero nient’altro che un ragazzo timido, facile da dominare. Aspettava una mia risposta. – Adesso mi fai mettere in moto? – Non era una domanda, era solo una cortese comunicazione. – Ti accompagno a casa. -Credo che abbia cercato anche di sorridere, ma non era convinta, sorrideva, faticosamente, solo per paura che la situazione degenerasse nuovamente, sentiva di essere ancora troppo arrabbiata con se stessa, per riuscire a dominarla. – Mi fai toccare ancora il seno? – le ho chiesto proprio mentre avvicinava la chiave al cruscotto.Ha tirato un lungo sospiro, poi si è girata di scatto verso di me, incurante della gonna che lasciava scivolare la luna lungo la morbida pelle delle cosce, e ha cominciato a urlare. – Senti, se tu ti diverti, io non mi sto divertendo per niente, e se era uno scherzo, è finito, capisci? E adesso apri lo sportello e scendi. E te ne vai affanculo, tu e i tuoi fiori! -Ha preso le rose che stavano sul sedile di dietro e me le ha buttate addosso, quasi che il loro peso potesse trascinarmi fuori e farmi inghiottire dalla notte. – Non ti faccio più comodo? – ho chiesto. Ma non era una domanda, era un’accusa. – Non racconto più barzellette, non regalo fiori, non sono più umile e impacciato. Ho persino dei desideri da uomo e poi ti guardo le tette, le gambe. Le voglio toccare, accarezzare, stringere! Faccio schifo vero? -Lei allora ha cercato di mettere in moto, io le ho afferrato la mano, stringevo, l’ho sentita gemere dal dolore, e la chiave è caduta sul fondo. – Guarda che mi metto a urlare – ha minacciato e ha cominciato davvero a urlare. Io l’ho lasciata fare, ho preso il mazzo di rose che mi aveva gettato contro e l’ho posato delicatamente dietro, mi sono girato verso di lei che ora cercava affannosamente la chiave sul fondo e mi sono reso conto che aveva paura. Finalmente aveva paura.Ho atteso un po’ in silenzio, volevo farle capire che non avevo fretta e ho chiesto semplicemente: – Hai mai pensato che non sai chi sono? -Lei aveva trovato la chiave, si è fermata un attimo a guardare verso il buio dove intuiva i miei occhi, il fatto che l’avessi lasciata libera, che non cercassi di impedirle alcun gesto, la spaventava ancora di più. – Non ti ho mai detto il mio nome – ho spiegato con calma. – Non sai dove abito, nessuno sa che siamo qui e anche se tu urlassi nessuno ti potrebbe sentire. Me lo hai detto tu, Serena, che è un posto isolato. – Pronunciavo il suo nome a ricordarle che lei non poteva fare altrettanto con me.Ha aggrottato la fronte come a mettere a fuoco una verità che si faceva strada in lei, ha deglutito a fatica, il suo respiro si è fatto corto e affannoso.Cercavo qualcosa nella mia mente che potesse farle ancor più paura, che riuscisse a vincere la resistenza che era ancora in lei come un muro invalicabile. Alla fine ho trovato. – Non hai mai pensato – le ho chiesto – che quei tre, ieri, fossero d’accordo con me nello spingerti tra le mie braccia? -C’è stato un lungo attimo in cui solo le chiavi si sono mosse impercettibilmente, poi lei ha aperto lo sportello e si è messa a correre, o meglio, ha cercato di farlo e forse la sua mente ha corso per un po’ sull’erba. Invece è caduta con la faccia a terra subito fuori dalla macchina, perchè io le ho afferrato un piede e le sono stato sopra e insieme siamo rotolati nell’erba illuminata dalla luna.Quando i nostri corpi si sono fermati, lei ha cercato di graffiarmi, ma io ho cominciato a colpirla con la mano aperta sul volto, una volta, due volte, tre volte, lei prima ha cercato di evitare i colpi, poi di artigliare le mie mani, alla fine si è coperta la faccia in un estremo tentativo di sfuggire alla violenza. Ma io ho continuato, non so per quanto, ho continuato, strappandole via le mani e colpendo con forza, finchè non ho sentito i suoi “No” trasformarsi in “Basta, ti prego, basta”.Allora sono rimasto immobile, seduto su di lei, e ho sussurrato, quasi parlassi alla notte: – Può darsi anche che non ti ammazzi, non sempre, sai, le ammazzo le ragazze. Dipende… – Ero così contento di quanto mi ero inventato, che quando l’ho fatta rialzare per riportarla verso la macchina, avrei voluto mettermi a ballare sotto la luna, rotolarmi per la felicità sull’erba.Adesso lei non parlava più e si teneva la testa fra le mani come se le facesse male, e forse era anche vero. – Mi hai voluto solo spaventare, – ha balbettato chiudendo gli occhi. – Dimmi la verità, mi hai voluto solo spaventare, vero? – La sua aggressività era scomparsa, ormai non cercava nemmeno di divincolarsi dal mio braccio, i suoi occhi cercavano i miei, volevano, imploravano una risposta.L’ho lasciata accanto all’auto e sono andato dove avevamo lottato e avevo visto luccicare fra l’erba le chiavi dell’auto, le ho raccolte, e sono tornato lentamente verso di lei. – Non andremo via, Serena – le ho sussurrato mostrandogliele e infilandomele in tasca.Lei stava appoggiata alla macchina, un po’ piegata su di sè, con i tacchi delle scarpe affondati tra l’erba. – Prima mi hai voluto spaventare, vero? – ha ripetuto e tremava tutta. – Tu non sei un delinquente. -Io allora le sono andato vicino, le ho preso il mento e l’ho tirato su per vedere bene il suo volto illuminato dalla luna. – No, io non sono un delinquente, – ho risposto. – Io regalo rose alle ragazze, solo che le ragazze le rose non le vogliono e mi trattano male. Sai quante ragazze mi hanno trattato male? Sono tutte cattive con me – ho ripetuto guardando la luna come se fossi in trance. – E allora succede qualcosa in me, qualcosa di brutto e loro gridano, gridano, gridano, e poi c’è quel silenzio così lungo, infinito. E solo quando finalmente c’è quel silenzio riesco ad amarle veramente. -Lei scuoteva il capo mentre parlavo, cercando di sottrarsi alle mie mani che le imprigionavano il mento. Ma ancor di più alle mie parole. – Non mi piace che le donne siano scortesi con me. Quando una donna è scortese preferisco amarla dopo, anche se il suo corpo è freddo e sta immobile sotto di me. -La sentivo tremare. – Ma io… io non sono stata scortese con te! – ha cercato disperatamente di difendersi. – Mi hai dato uno schiaffo – l’ho rimproverata. – Due anzi. Poi hai cercato di graffiarmi. – E le ho puntato contro il dito accusatore, come se fossimo a un processo in cui ero contemporaneamente accusatore e giudice inappellabile. – No… – ha balbettato. – Mi sono sbagliata. Tutti si possono sbagliare, ma non volevo essere scortese. Se lo sono stata ti chiedo scusa… Scusa! – – Scusa? – ho ripetuto incerto. – Ma le donne non chiedono mai scusa. – – Io si. -Era tanto spaventata che non riusciva nemmeno a piangere. Tentava di parlare, di tenermi buono con le parole, mentre cercava una via di fuga. Ma non la trovava e io capivo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per uscirne viva.Qualsiasi cosa, mi ripetevo, è disposta a fare qualsiasi cosa.E ho capito.La notte si è squarciata, la luna è diventata il sole, il film in bianco e nero si è trasformato in un film a colori, ho sentito perfino il profumo delle rose che usciva dal finestrino e inondava quell’arena verde dove ero vincitore. – E come intendi chiedermi scusa? – – Te lo dico, te lo sto dicendo. – – Me lo chiederesti in ginocchio? Chiedimelo in ginocchio, Serena! – ho urlato all’improvviso e lei si è lasciata andare di schianto a terra. – Ti chiedo scusa. – – Ancora! – ho insistito, urlando. – Ti chiedo scusa! – ha ripetuto lei più forte. – Adesso, se ti toccassi le cosce non mi daresti più una sberla, vero? -Lei mi ha guardato dal basso verso l’alto, cercando di capire cosa la mia mente stesse macchinando e cosa avrebbe potuto dire o fare per difendersi. – Tu sei una ragazza gentile, vero, Serena? – – Si, sono gentile. – – Allora te le posso toccare le cosce? – Ha fatto cenno di si col capo e io, quasi fosse un segnale, mi sono inginocchiato accanto a lei e ho lasciato che la mano scivolasse, prima sull’erba, e poi senza fretta fino alla gonna. – Ti fa piacere se te le tocco, vero, Serena? – ho chiesto spalancando gli occhi con aria allucinata. – Si. – ha risposto continuando a tremare tutta. – Mi fa piacere. -Ma ho visto che stava rimuginando qualcosa e quando la mia mano ha toccato le sue gambe e mi sono perduto nella sensazione della sua pelle, lei mi ha colpito con tutta la forza che aveva. No, prima non tremava solo di paura, ho sentito il suo pugno esplodere rabbioso contro la mia tempia e, mentre rotolavo per terra, l’ho intravista togliersi in un attimo le scarpe col tacco alto e arrancare disperatamente a piedi nudi sul prato. Dolore. Rabbia. Mi sono trovato con la testa piena di nervi impazziti a correre, a correre a denti stretti dietro di lei, a volare sopra quel manto accarezzato dalla luna, a divorare la distanza, con le sue urla che mi arrivavano sempre più vicine, finchè si è girata quando le ero già addosso per affrontarmi, e le sue dita hanno cercato di artigliarmi gli occhi. Non c’era più rabbia in me, si era esaurita tutta nel vento di quella corsa, l’ho colpita una sola volta alla bocca dello stomaco e mi si è afflosciata tra le braccia, i suoi seni hanno disperatamente cercato di aderire al mio torace, mentre tentavo di trattenerla in piedi, ma le gambe erano solo articolazioni, ossa collegate senza più muscoli, e alla fine è stata soltanto un corpo abbandonato a terra ai miei piedi, che io ho sollevato piano, con delicatezza, per riportarla verso la macchina.Sentivo che ormai tra me e lei c’era un feeling, una spirale di terrore che non dovevo interrompere. Non mi era mai successa una cosa del genere. E la sensazione di potenza che avvertivo trasportandola inerte tra le mie braccia era fortissima, più forte del piacere di guardare i suoi seni spuntare scomposti dalla scollatura e assaporare il piacere di accarezzarli. Ho pensato a lungo dove posarla. Poi mi sono deciso, l’ho adagiata sull’erba con la testa proprio davanti alla ruota anteriore della macchina.Dovevo averla colpita al plesso solare perchè quando si è risvegliata ha avuto qualche leggero conato di vomito. – Sto male – ha detto e ho capito che esagerava un po’ per fermarmi, per dissuadermi dall’andare oltre. – Sei viva però – ho ribattuto e sono rimasto in piedi guardando lontano, quasi non ci fosse il suo corpo e la sua voce ai miei piedi. – Ho pensato parecchio, mentre eri svenuta, a come ucciderti. Ormai sono stanco di stringere, stringere con le mani, a volte riescono a graffiarmi e non sono gentili fino all’ultimo. Potevo passarti sulla testa con le ruote della macchina, è una cosa che non ho mai fatto. Però con la testa schiacciata forse non mi piaceresti più. -In quel momento si è resa conto di dove stava, è balzata a sedere di scatto stringendo i denti dal dolore e rischiando di picchiare la testa contro il parafango, quasi che la macchina potesse mettersi in moto da sola e travolgerla. – Non volevo però che tu morissi mentre eri svenuta – ho continuato. – Volevo sentirti urlare, Serena, urlare un attimo e poi il silenzio. – Sentivo il terrore infilarsi sempre più dentro il suo corpo, ma ancora qualcosa in lei resisteva, io la volevo invece sentire inerte, spezzata per sempre. – Non ti piaccio – ho concluso. – A che serve che tu viva se io non ti piaccio? -Lei non si è rialzata in piedi, forse non ne aveva la forza, o forse ha avuto paura che io pensassi volesse scappare di nuovo e tornassi a colpirla. E’ rimasta seduta sull’erba. – No, tu mi piaci – ha ribattuto. Adesso che aveva capito che non aveva più scampo, cercava di entrare nella mia logica malata per trovare, in quell’intricato labirinto, una via di fuga, o almeno un filo di speranza per continuare a lottare. – Tu dici bugie! – ho troncato. – Non mi piacciono le donne che dicono bugie. – – No – si è difesa con le ultime forze. – Tu mi piaci, sul serio. – Voleva aggiungere qualcosa, ma aveva paura di sbagliare o forse non riusciva a trovare ormai altro in sè se non la paura. – Anche tu mi piaci, Serena – ho ammesso dopo un lungo silenzio. Ascoltavo il suo respiro affannoso e me ne nutrivo avidamente. Ho allungato la mano destra per invitarla ad alzarsi. – Oh, è meraviglioso – ha tentato di cinguettare. Ma tremava ancora ed è stato solo un balbettio confuso.Ho finto di essere sempre più allucinato. – Mi fai toccare le cosce, adesso? – Lei ha accennato di si, sforzandosi addirittura di sorridere. – Ti piace se lo faccio, Serena? – ho insistito io per sentire anche le sue parole piegarsi alle mie. – Certo, ne sono felice. -Allora mi sono avvicinato e l’ho abbracciata stretta, ho abbassato la mia mano, ho raccolto nel pugno, lentamente, la sua gonna, e l’ho alzata, alzata, finchè non ho sentito che era arrivata alla cintura. Allora ho fatto scivolare la mia mano giù, giù, fino a sentire la sua pelle e lei che rabbrividiva e non aveva il coraggio di tirarsi indietro. – E’ bello, vero? – – Si… è… meraviglioso. – Tremava. – Vedi che sono gentile? -Non ho detto niente, mi beavo del contatto serico con la parte posteriore delle sue cosce. – No, no! – ho esclamato all’improvviso e mi sono allontanato contrariato. – Cosa c’è che non va adesso? Mi sono fatta toccare le cosce, non sei contento? – – C’è che tu non mi ami, Serena – ho ribattuto facendo finta di essere deluso. – Se tu mi amassi mi avresti baciato, i baci non bisogna chiederli. -Lei allora si è avvicinata ed è rimasta un attimo ferma, mentre io socchiudevo gli occhi fino a farli diventare una fessura. – E’ che sono timida. Si, sono timida – si è scusata. – Mi vergognavo di farlo. – E il fatto che fosse lei a scusarsi di non avermi baciato, dopo che io le avevo accarezzato a lungo le cosce fino a infilare le dita nelle mutandine, mi eccitava quanto la sua paura. E mi ha abbracciato forte, e siccome io rimanevo immobile, mi ha preso la faccia tra le mani e lentamente, come se un regista avesse avvertito: “Attenti, è al rallentatore”, mi ha tirato verso di se, finchè le nostre labbra non si sono toccate. E ha stretto ancora, finchè le mie labbra non le sono state dentro e abbiamo cominciato a baciarci.E’ durato tanto, tantissimo, e le nostre lingue hanno frullato a lungo come impazzite, l’una dentro la bocca dell’altro. Quando ci siamo staccati mi sembrava fosse passata un’eternità. E mentre ancora stringevo i suoi glutei con una mano e con l’altra non osavo se non accarezzare il suo seno sopra la camicetta, lei cercava qualcosa nel mio sguardo, qualcosa nella mia espressione che confermasse quello straccio di speranza che il lungo bacio le aveva promesso. – Come bacio, Serena? – – Benissimo – – Mi ami, Serena? – ho chiesto rabbuiandomi. – Mi ami davvero? – – Si, ti amo – ha giurato lei, cercando di apparire il più sincera possibile, quasi allegra.Le mie mani percorrevano ancora liberamente il suo corpo in lunghe carezze, senza mai perdere il contatto. La sentivo rabbrividire. – Guai a te se m’imbrogli! – ho intimato staccando le mani, anche se quel gesto mi privava improvvisamente dei fremiti della sua pelle. – Se solo per un attimo ti comporterai come prima, quando hai cercato di scappare… -Lei si è sforzata di non tremare, ma quando le sue mani hanno toccato le mie, era come se una scarica attraversasse il suo corpo. – Mi piacerebbe vederti ballare, Serena. – – Ma si, certo… – – Vederti ballare con il seno che brilla sotto la luna e i capezzoli duri, bagnati del tuo sudore che mi sfiorano per farmi eccitare. Lo farai per me, vero? -Lei ha stretto le mani forte, mentre il pensiero di quanto le stavo chiedendo, e altri mille pensieri si scontravano nella sua mente, finchè la voce è uscita e ha mormorato: “Si.” Ma ormai era solo la paura che pizzicava le sue corde vocali per tirarne fuori parole.Stava crollando, nervi grandi e piccoli stavano cedendo, zone man mano sempre più grandi del cervello si lasciavano conquistare, soggiogare dalla paura. Muscoli sempre più importanti del suo corpo, interi volumi del vocabolario della sua voce, gettavano le loro bandiere e le loro armi più sofisticate sotto i cingoli dei miei sguardi, sotto il camminare lento e spietato della mia voce. Ogni volta che l’ultima disperata resistenza del suo Io credeva di aver trovato una strada per uscirne, il mio inesorabile procedere di richieste e di minacce la respingeva di nuovo indietro.Adesso che si era tolta la camicetta e il reggiseno, il suo torso splendeva sotto la luna come una di quelle statue del Bernini che fanno bella mostra di se nei musei romani. Aveva il più bel seno che avessi mai visto, di una perfezione classica; ripensavo al mito greco secondo cui la prima coppa sarebbe stata modellata sul seno di Afrodite, e mi piaceva immaginare che il vasaio compisse la sua opera in quel momento, sotto i miei occhi, utilizzando però il corpo di Serena come fonte di ispirazione.- Sto male – si lamentava ogni tanto. Poi ha cominciato a dirlo più spesso, tanto che ho capito che avrebbe finto di svenire per sottrarsi a quell’incubo, per sfuggire alla prossima tortura. – Se svieni credo che ti ucciderò, sai? – l’ho prevenuta assaporando la sua reazione, lo sgretolarsi di un’altra fragile illusione. – E’ solo la tua presenza, il tuo sorriso che mi impediscono di farlo, Serena – le ho spiegato riempiendomi le mani dei suoi seni luccicanti di sudore, mentre lei cercava ancora goffamente di ballare. – Non svengo. Sto male, ma non svengo. -Ero inebriato dalla sensazione di calore e di morbidezza che mi riempiva le mani, e per lunghi istanti ho tenuto gli occhi chiusi mentre le mie dita seguivano il contorno dei seni, disegnavano il margine delle areole e accarezzavano i capezzoli sporgenti. Le ho accarezzato lungamente i capezzoli, lei ha frenato le sue mani che avrebbero voluto staccare le mie, cosa che solo il mio sguardo allucinato le impediva di fare. – Ti sei mai succhiata i seni? – – No. – – Credevo che una donna facesse certe cose. Voglio dire una donna con due seni belli come i tuoi. – – Vuoi che lo faccia? – mi ha chiesto quasi ansiosa e, non avendo in risposta che il mio sguardo, che mi sforzavo di mantenere allucinato, si è chinata con la bocca, sollevandosi un seno con le mani. – No, no – sono intervenuto deciso. – Mi fa schifo. – Lei mi ha guardato dubbiosa. Perchè la fermavo? Perchè frenavo la corsa verso nuove sensazioni? Stavo forse uscendo dal mio momento di pazzia?E’ stato bello lasciarla un attimo preda di quel pensiero e poi colpirla di nuovo con la voce. – Ti puoi masturbare, però. Quello sì che mi piace. Dai, dai fallo! Masturbati, Serena. Fammi vedere come fai! -E’ rimasta in piedi, impotente, io mi sono seduto per terra, quasi ai suoi piedi, con le gambe incrociate e le mani posate sulle ginocchia.Adesso che si era tolta la camicetta e il reggiseno per ballare, le era rimasta soltanto la gonna, ancora assurdamente alzata fino alla vita, da cui spuntavano le mutandine di un colore indefinibile alla luce della luna. – Non l’ho mai fatto! – – Cosa? – ho chiesto divertito. – Cos’è che non hai mai fatto? – Cercava di evitare anche la parola, come se il pronunciarla fosse già viverla e evitarla rappresentasse una possibilità di risparmiarsi il seguito. – Cos’è che non hai mai fatto, Serena? – ho insistito. – Rispondi! -Ha ceduto. – Non mi sono mai masturbata, te lo giuro. Non so nemmeno come si fa! -Mi sono messo a ridere. Non per quel che diceva, ma per quanto era buffo vedere quella ragazza, che chissà quanti uomini e ragazzi sognavano di scopare, vederla lì, in piedi, davanti ai miei occhi, impazzire sempre più dalla paura, rispondere goffamente alle mie richieste, senza nemmeno cercare di coprirsi i seni con le mani, quei seni che forse da chissà quanto tempo faceva vedere solo allo specchio del bagno. – Allora in questo periodo stai con qualcuno e fai l’amore regolarmente? – ho insistito divertito. E lo ero sul serio, ma questo mio atteggiamento la spaventava ancora di più. – Amore, capisci, Serena? Questo almeno lo capisci? Mettere il cazzo nella figa e andare su e giù. Ripeti! – ho detto e lei, fermandosi ad ogni parola come una bambina che ha dimenticato la poesia, ha ripetuto meccanicamente: – Mettere.. il.. cazzo.. nella.. figa.. e.. andare.. su.. e.. giù. – – Allora? – ho insistito tornando impassibile. – Hai un ragazzo in questo periodo o no? – – No, non ce l’ho. – – E non ti masturbi? – ho chiesto. – Mi stai mentendo, Serena. Ti avevo avvisato che non mi piace che tu mi dica le bugie -Ha cominciato ad agitarsi, come cercasse un appiglio nell’aria attorno. – Allora? – ho chiesto, sempre impassibile davanti al suo silenzio. – A volte lo faccio. Quando ne ho voglia lo faccio. – Ho scosso il capo disapprovando. – Non sarebbe meglio se ti facessi una sana scopata? Sareste contenti in due, non ci hai mai pensato, Serena? Il tuo è egoismo. -Mi ascoltava come se ogni mia frase fosse uno schiaffo che la colpiva, facendola sobbalzare. – Fammi vedere come ti masturbi, adesso. – – Ma cosa vuoi che faccia? – era disperata.Mi sono reso conto che non si stava riferendo all’ultima mia richiesta, ma mi stava chiedendo dove volevo arrivare, se quella tortura avrebbe avuto termine, quando, e a che prezzo. Ed era chiaro che non intendeva discutere sul prezzo, era pronta a pagarlo per intero e subito, ma voleva sapere per quanto avrebbe dovuto accontentarmi per uscire definitivamente dall’incubo. Era il topo che chiedeva al gatto quando sarebbe finito il gioco, perchè ormai non eravamo più cacciatore e preda, ma un bambino e il suo giocattolo. – Hai paura? – Non era una domanda e lei era incerta se rispondermi si o no. – Io penso di si – ho continuato.Lei ha annuito in silenzio. – Te la sei mai fatta addosso, Serena? -Ha scosso il capo e ha continuato a scuoterlo mentre io la guardavo e con un gesto eloquente della mano la invitavo. Poi con la stessa mano ho accarezzato l’erba. – Ti è mai capitato di andare in bagno e di non riuscire a farla? A noi uomini a volte succede, stai lì e non ti viene, magari in un bagno pubblico perchè qualcuno ti guarda, o a casa semplicemente perchè stai pensando ad altro. -Lei ormai era inesistente, un manichino appoggiato alla macchina, senza vita come quell’insieme di metallo e plastica. – E adesso tu la farai tutta, stando in piedi e senza toglierti nemmeno le mutandine – ho continuato. – E la farai subito perchè altrimenti ti aiuterò io e sarà peggio, molto peggio. -L’ho guardata. L’ho vista chiudere gli occhi e mordersi la bocca e inarcarsi all’indietro e le sue mani chiudersi a pugno, su quale pensiero o sentimento non lo saprò mai. Ma quando le mutandine hanno cominciato a bagnarsi e ho visto i rivoli scorrerle lungo le gambe come cicatrici di luce di luna disegnate da un coltello invisibile sulla pelle, mi sono alzato precipitosamente e sono stato accanto a lei, con la mano affondata nel suo slip, a sentire la sua paura scorrere fisicamente tra le mie dita. – Ancora, ancora, Serena! – ma era finito ormai e ho sentito in lei liberarsi la tensione ed esplodere, inarrestabili, i singhiozzi, prima sommessi, poi più forti, sempre più forti, che la squassavano tutta. – Basta! – ha gridato. – Basta! Basta! – E non lo stava urlando a me, era un’invocazione fioca come il luccichio delle sue lacrime, come se pregasse un’entità superiore in grado di decidere la fine improvvisa di quella notte.Non aveva più forza. Quando ha riaperto le mani e si è appoggiata all’auto, mi è sembrata così fragile che, se non si fosse puntellata a quel modo, la debole brezza che soffiava senza riuscire a piegare nemmeno il tappeto d’erba, l’avrebbe fatta volare via, come il brandello di un sogno. – Ti dovevi masturbare, non ricordi, Serena. -Lei ha annuito col capo e ha mosso stancamente la mano senza più speranza fino a incontrare le mutandine fradice e l’ha infilata sotto, accanto alla mia mano, ed è rimasta lì ferma, guardandomi, supplicandomi. – Io farei così – e ho cercato con le dita le sue labbra tra il pelo ancora bagnato e caldo. Con l’indice e l’anulare le ho allargato le labbra, mentre con la punta del medio iniziavo a sfiorarla sulla carne intorno all’orifizio. Sentivo la mano bagnata e non capivo se era lei che si bagnava sempre più o erano i rimasugli di ciò che aveva fatto prima, ma dovevo comunque farmi forza per evitare di portarla alla bocca per poterla assaggiare, ed ancora di più per non tuffarmi con la bocca direttamente sulla fonte di quel nettare. Quando le contrazioni si sono fatte più frequenti ho preso ad infilarle il medio dentro, dentro la sua fessura che sentivo stretta e palpitante, estraendolo di tanto in tanto per stuzzicarle il clitoride, gonfio come un fagiolo sotto il mio polpastrello. – Ti piace, Serena? – – Si, mi piace. – – Adesso fallo tu. -Ho ritirato le mie dita lentamente e sono andato indietro per vedere la sua mano muoversi meccanicamente sotto lo slip. – No – ho detto fingendo di cambiare improvvisamente umore. – No, non si fa così. Così non mi piace. Poi sei tutta bagnata, non ti fai schifo? Vieni qui. – – Cosa vuoi adesso? – E, rendendosi conto di essersi lasciata andare, ha cercato di riconquistare la mia fiducia. – Io sono gentile, vedi? Tu non mi farai del male, perchè io sono gentile. – E ha continuato meccanicamente a masturbarsi.Io non ho risposto. Le sono andato vicino: non ho saputo resistere e ho affondato la testa tra i suoi seni, le ho succhiato i capezzoli mentre la sua mano sinistra si appoggiava con una stanchezza infinita alle mie spalle. Sapevo che teneva gli occhi chiusi e dentro di sè stava implorando pietà, mentre la sua mano destra continuava ad affondare nell’intimità del suo sesso sotto gli slip. – Cosa facevi con il ragazzo con cui venivi qua? – ho domandato continuando a leccarle le mammelle, a riempirmi la bocca dei suoi seni come se volessi ingoiarli, ma la loro grandezza me lo impedisse. – Scopavi, vero Serena? -Lei ha accennato di si con la testa e io ho colto il movimento continuare come in trance, anche quando mi sono staccato alla fine da lei. – E poi? – ho chiesto ancora, e intanto passavo le mie mani sui suoi seni impastandoli e la sentivo debole, completamente arresa. – Te lo metteva in bocca, glielo succhiavi? Rispondimi – – Si, si… – Era completamente in mia balia, le tremavano le labbra. – Scommetto che te lo metteva anche dietro! – E ho allungato la mano sulla schiena, fino a penetrare dall’alto nelle mutandine bagnate.Lei si è scossa e ha implorato, ma senza convinzione. – No, no! Ti prego, non farlo! -Mi sono tirato indietro ridendo, sapendo che quel riso l’avrebbe spaventata più di uno sguardo allucinato. E poi avevo davvero voglia di ridere, ridere, ridere.E di possederla.Mi sono guardato la mano, le dita che l’avevano penetrata nella sua femminilità. – Ehi, ma davanti hai un buco grandissimo, Serena. Chissà com’è quello dietro! -Lei ha cominciato a scuotere il capo, piangeva adesso e ripeteva: – Io sono gentile, ma tu mi lasci andare, vero? Non mi fai del male. – – Mettiti giù! – ho ordinato e sentivo che la voglia ormai era esplosa in me e di colpo con una rabbia improvvisa le ho abbassato le mutandine e poi le ho strappate.Lei ha urlato per il dolore perchè la stoffa le aveva quasi segato la carne, prima di una gamba poi dell’altra, prima di lacerarsi del tutto e rimanermi completamente in mano. – Voglio che urli, Serena! – Mi sembrava di impazzire, che se avessi dovuto aspettare anche solo un altro minuto avrei cominciato a urlare e a masturbarmi davanti a lei. – Voglio che urli mentre te lo metto dentro, che urli che ti piace! -Lei ha cercato per un attimo di resistermi poi ha visto che stavo impazzendo e si è messa a terra appoggiata sulle ginocchia e sulle mani. – Non farmi male, fai piano, ti prego. -La sentivo talmente in mio potere che avrei voluto che mi avesse resistito, perchè così rischiava di farmi venire subito, di togliermi il prolungamento di quel piacere.Ho portato la mano tra i suoi glutei e ho tentato di infilarle un dito in quell’apertura che avvertivo stringere e contrarsi angosciata. – No, no, piano… mettici la saliva! -Adesso eravamo due amanti.Ho fatto colare la saliva dalla bocca fino a scendere proprio tra le natiche tremanti e contratte e poi vederla scomparire in basso.L’ho puntato contro e ho spinto, ma l’ho sentita urlare. – Ahiii… No, così no. Solo con la saliva mi fa male! – – Non ho altro. – E mentre lo dicevo mi sono arrabbiato con me stesso. – Se urli è meglio, adesso te lo rompo! – E sono tornato a spingere, a spingere, ma mi facevo male anch’io, mentre la sentivo urlare e scuotersi come una vipera a cui si è schiacciata la coda.Allora mi è venuta l’idea che forse lei poteva avere nella borsetta qualcosa con cui lubrificarla, una crema per le mani o qualcos’altro. Ma di creme nessuna traccia: solo tamponi, mollette, il trucco e il burro di cacao.Il burro di cacao.Rigirandolo tra le mani lo sentivo untuoso.Untuoso. – No, no, noooo! – Ma già glielo stavo strofinando contro l’ano e poi l’ho anche spinto dentro e l’ho sentita contrarsi, gemere. – Adesso che ti ho lubrificata ti inculo! – Non avevo mai posseduto una donna in quel modo e stavolta sono stato più lento. Tenevo ancora lo stick del burro di cacao in mano e ho cominciato a tracciare linee sfiorando appena la sua pelle della schiena.Poi mi sono riavvicinato a lei e ho puntato il cazzo di nuovo cercando di penetrarla. – Piano, ti supplico, piano – mi invitava, ma io appena l’ho sentito entrare un po’, scivolare, affondare leggermente, ho gridato. – Allora, te lo metteva dietro lui? Dillo! Ti piaceva? – – Si, mi piaceva. – – E con quanti l’hai fatto? Quanti ti hanno rotto il culo? – Volevo aspettare a entrarle completamente dentro altrimenti avrei rovinato tutto venendo.Lei ansimava aspettandosi da un momento all’altro il mio affondo, la penetrazione completa. – Lui e un altro, ma solo una volta. -Adesso mi domando perchè quando la paura si impadronisce di una persona, questa non riesce a dire altro che la verità. Forse perchè è l’unica cosa per cui non bisogna pensare, inventare, la paura non lascia spazio alle ipocrisie della vita di ogni giorno.Ma sentire le mie mani stringere i suoi glutei e poi i suoi fianchi è stato fantastico e quando l’ho penetrata lentamente, scivolando nel burro di cacao in fondo alle sue viscere, ho sentito che urlava, urlava, urlava da farsi scoppiare i polmoni, con la testa affondata nell’erba e con il collo inarcato improvvisamente indietro, e io le afferravo i seni e lei continuava ad urlare. – Aaaaahhh!!! Pianoo!… No, noo!… Fai pianooo!… – – Ti rompo, lo senti che ti rompo il culo, Serena. -Urlava, continuava a urlare anche se il suo corpo a tratti assecondava il mio, si sincronizzava sul movimento spasmodico dei miei fianchi, come una bambola dalle pile esaurite. – Ti piace? -Più che una domanda il mio è stato un unico continuo urlo fino a quando siamo crollati a terra, con me sopra di lei. E dopo, quando le sue invocazioni divenivano più fioche, quasi un rantolo, si è trasformato in un mugolio sulla pelle sudata della sua schiena, e mordendola su una spalla sono venuto, piantato profondamente in lei.Nell’improvviso silenzio, la sua invocazione si era trasformata ormai solo in un respirare affannoso, in un singhiozzo sincopato tra cui volendo si poteva cogliere ancora la frase “Mi piace”. Non avevo mai pensato che la notte fosse così lunga. Per me la notte, fino a ieri, era fatta dalle due ore prima e dalle due ore dopo la mezzanotte. Oggi so che lo sciopero del sole dura molto di più, fino a quando il silenzio diventa più silenzio e l’aria più fredda anche d’estate.Ma la gente comune non sa niente di questa parte della notte, brave persone che dopo la TV s’infilano nei loro letti, scivolano, riluttanti dentro i sogni lasciati la mattina sul cuscino, sogni che qualcuno, fuori, nella notte, cerca disperatamente di vivere.Adesso che l’avevo avuta, che l’avevo sentita mia, stavamo sdraiati, ancora uniti nell’abbraccio dell’erba mentre la luce della luna sulla pelle sembrava neve e ci faceva rabbrividire. – Ti è piaciuto? – ho chiesto e l’ho accarezzata, ma la neve non si è sciolta sotto le mie mani, è rimasta su di lei simile a una vernice fosforescente e indelebile. – Si – ha risposto dopo un po’. – A te è piaciuto? – ha aggiunto poi. Adesso si era calmata. Ma la sua mente, lo sentivo, non aveva mai smesso di pensare. – Si, mi è piaciuto tanto, Serena. -E siamo rimasti in silenzio con i nostri corpi ancora uniti, il suo seno a riempire le mie mani e io ancora dentro di lei.Mi rendevo conto che qualcosa però mi stava sfuggendo, che il manichino sotto di me si stava lentamente ma inesorabilmente svegliando, ma non avevo la forza e nemmeno la voglia di legarlo ancora coi fili e di tenerlo sospeso sul teatro della notte. – Non l’avevo mai fatto in questo modo, sai Serena? – ho confessato, e non fingevo. Forse l’appagamento ha lo stesso effetto della paura: non si riesce a mentire. – Tu non sai – ho aggiunto, accarezzandole i seni – quanti uomini, vedendo il tuo culo passare tra la folla vorrebbero farlo, metterlo dentro e venire come me stasera, e tu invece passi il tempo a masturbarti. Pensa che cattiveria, Serena. Pensa a quanto ti odiano tutti quegli uomini. -Non ha risposto, ma ha cercato di girarsi lentamente per guardarmi negli occhi. O forse ha solo fatto in modo che non le fossi più dentro. Sapevo che non mi stava ascoltando, che stava ancora una volta cercando una via di uscita. Sperava che quanto aveva fatto bastasse e io mi sentissi appagato. – Hai mai detto di no a qualcuno? -Lei si è passata la lingua sulle labbra senza rispondere. – A quanti hai detto di no, Serena? Da quando non scopi? A quanti hai fatto capire che perdevano solo tempo? -Adesso era più calma, ma mi guardava sempre stranita, forse sperava che ci fermassimo alle parole, ma io sentivo di nuovo crescere in me la volontà di dominarla. – Parecchi – ha ammesso. – Parecchi – ho ripetuto. – Lo sai, cosa significa per un uomo sentirsi dire di no, Serena? Sentirsi dire: con te non scoperò mai? – – Non lo so. – Era di nuovo molto spaventata, non riusciva a gestire minimamente il dialogo. – Penso che ci rimanga male. -Io ho sorriso, ma il mio sguardo era torvo. – E’ come sputargli in faccia – ho detto. – Ti hanno mai sputato in faccia, Serena? -Ha scosso il capo e ha capito che stavo di nuovo tirando i fili, le facevo alzare le braccia, scuotere la testa, aprire le gambe… – Mettiti in ginocchio, Serena! Qui in ginocchio di fronte a me. – – No, ti prego. No. -Mi sono alzato e sono stato in piedi davanti a lei. – E’ come se ti pisciassero in faccia, sai? -Lei ha girato il capo di scatto intuendo cosa stavo per farle, ma non ha avuto il coraggio di sottrarsi. – Io sono stata gentile – non aveva il coraggio di guardarmi – ho fatto tutto quello che volevi. – – Guarda che non ti faccio niente, Serena. -E per un attimo deve essersi sentita rassicurata. – Voglio solo farti quello che tu hai fatto a tanti uomini e che stasera volevi fare con me. Solo pisciarti in faccia, niente di più. Girati! – le ho ordinato.Lei non ha ubbidito subito e allora l’ho afferrata per i capelli e le ho girato a forza il viso contro di me. – Adesso lo farò e tu starai ferma perchè se no stavolta ti ammazzo sul serio. E non pensare di fare stupidaggini, perchè allora posso diventare cattivo. -Ho sentito la sua testa dondolare inerte sotto le mie mani. – In fondo cosa ti sto facendo stanotte, Serena? – ho continuato tenendola per i capelli anche se non opponeva resistenza. – Cose normalissime. Solo che non intendo pagarle come fanno tutti gli altri uomini, non intendo accompagnarti a casa mille volte e ascoltare tutti i giorni i tuoi stupidi problemi al telefono, e regalarti fiori, e portarti al ristorante e a ballare il sabato sera, e fare discorsi seri. Tutto questo per essere premiato e ricevere alla fine, una volta o due la settimana, se ti va, naturalmente, la tua figa o il tuo culo. – – No, non farlo! – ha implorato. – No! Ti prego, perchè? -Ha cercato di divincolarsi e solo allora mi sono reso conto che, quasi indipendentemente da me, le stavo già bagnando il volto e rivoli le scorrevano addosso bagnandole il viso. – Che schifo! – ha balbettato e ha tentato di sottrarsi a quella cascata che la inondava e io sono corso su di lei che rotolava a terra, ho continuato a innaffiarla, a inseguirla sull’erba, a spruzzarla su tutto il corpo, a vedere il mio zampillo esplodere in mille scintille di luce. – Abbiamo tempo – ho detto alla fine quando ormai era tutto finito. Lei era solo un sacco vuoto ai miei piedi. – Sei brava a far l’amore? – le ho chiesto dopo un po’ respirando il buio come se fosse una droga. E quando ho capito che non mi avrebbe più risposto, che non era più capace nemmeno di afferrarsi alle mie parole per cercare una via d’uscita, mi sono di nuovo sentito eccitato.La notte era bella, non dovevo sprecare le emozioni, non dovevo sprecare nemmeno i silenzi, nemmeno la sensazione di vederla lì, immobile ai miei piedi, disposta a fare qualsiasi cosa per uscirne viva. Era un rito di cui io ero il sacerdote e lei la vittima da immolare. Un sacrificio compiuto finalmente all’aperto, con le regole che soltanto le stelle potevano dettare, e non nell’ovattata penombra della camera da letto, dove tutti gli altri uomini sono costretti come in una prigione da regole dettate dalle donne. – Perchè odi tanto le donne? -La sua domanda mi ha stupito. E’ stato come sentire una bambola improvvisamente parlare, fare domande sensate e non ripetere soltanto “Voglio la mamma”. – Non odio le donne. – Quella domanda mi aveva irritato. – Mi comporto con loro come loro si comportano con gli uomini. Tutto qui. Sarebbe come se gli animali si mettessero a dare la caccia agli uomini, le mucche macellassero i bambini e se li mangiassero alla griglia. Mostruoso, vero? O no? -Lei ha capito che non era il caso di continuare. – Adesso faremo un gioco. Un bel gioco, Serena. -C’era un silenzio irreale intorno a noi, anche i grilli si erano calmati, o almeno mi pareva di sentirli più lontani. – Che gioco? – ha chiesto dopo un po’. – Il gioco della morte – ho spiegato con calma. La sua domanda mi aveva offeso e volevo punirla. – Ti faccio scegliere come ti ucciderò. -Lei si è risollevata in piedi, ansimante, con gli occhi sbarrati. – Lo faccio perchè sei stata gentile – ho spiegato ancora. – E’ un riguardo che non ho mai usato a nessuna. Credimi, Serena. -Lei ha cominciato a scuotere il capo. – Avevi promesso… mi avevi promesso… Avevi promesso che se ero gentile non mi ammazzavi, te lo ricordi? -L’ho guardata con disappunto. – Ho semplicemente cambiato idea. – Poi ho aggiunto piano. – Si può cambiare idea, vero Serena? Anche le donne cambiano idea: te la promettono, poi cambiano idea e non te la danno più. Cosa c’è di male? -Era terrorizzata. – No, ti prego, no. Farò qualunque cosa, chiedimi qualunque cosa, io sono gentile, lo sai, ma non ammazzarmi. A che ti serve ammazzarmi? – – Credo sia giusto – ho continuato guardando lontano, come se invece che notte fosse giorno e io stessi guardando le montagne sull’orizzonte. – Credo sia giusto – ho insistito – permettere a ciascuno di morire come vuole. Così come gli si dovrebbe permettere di vivere come vuole. -Lei ha cominciato a dire di no e altre frasi senza senso, e io mi sono seduto a terra giocherellando con un filo d’erba. – Ti potrei uccidere strozzandoti – ho detto, cercando di restare il più serio possibile. – Sono bravo, Serena, a strangolare. – E ho mostrato le mani con le dita spalancate come per gustare la stretta. – Ti muoveresti per un po’ e poi staresti immobile, finalmente, per sempre. E non avresti più problemi di darla, non darla, di masturbarti o no. Tutto finito. Ti va bene così? -Ha scosso il capo tremando. – Allora cerchiamo un altro modo. Potrei prendere un po’ di benzina dal serbatoio della macchina e spruzzartela addosso. Poi ti accenderei come si fa con una sigaretta. Moriresti come i bonzi, moriresti come loro per protesta. La mia protesta, ben inteso. Ti andrebbe bene? -Ha continuato a scuotere la testa, ma non osava parlare, come se parlando entrasse nell’incubo e il silenzio invece la tenesse fuori dal mio delirio. – Oppure potrei trascinarti legata dietro la macchina, imballare il motore e via. Sentiresti prima l’erba, poi l’asfalto che ti consuma la pelle, e dietro resterebbe la striscia del tuo sangue. Ti piacerebbe, Serena? – – No, no , non lo puoi fare! – ha urlato lei. L’ho guardata offeso. – Qui comando io, – ho puntualizzato con freddezza. – Qui non sei più una figa che dice: questo si e questo no, qui comando solo io, ricordatelo. -Non ha parlato, il suo sguardo era vitreo. – C’è un ultimo modo – ho spiegato. – Potrei prendere il cric della macchina e infilartelo tra le gambe, spingertelo dentro nella figa, fino a sentire che ti rompi e che il sangue ti scivola sulle gambe e cola sull’erba e tu ti divincoli, ti divincoli, finchè non hai più la forza di farlo, non hai più neanche la forza di gridare e alla fine sei soltanto una cosa ferma, sempre più ferma, sempre più fredda… -I suoi occhi stavano urlando, urlavano tanto forte che la voce era inutile. – Quale scegli? – Si è messa silenziosamente a piangere, torcendosi le mani, l’una con l’altra, così forte che ho temuto se le spezzasse, di sentire il crac delle ossa e vedere il bianco della frattura tagliare la pelle fino a uscirne. “No” diceva semplicemente. “No”E quelle due lettere, una consonante e una vocale, erano più di un lungo discorso, più del suo corpo nudo, che si agitava davanti a me reggendosi in piedi a fatica, di cui sentivo ancora l’odore, un odore che riempiva l’aria della notte, in cui non volevo penetrare se non dopo essere penetrato nel suo cervello. – Se fosse per me, Serena, se potessi scegliere io, non ti ucciderei. -Mi ha guardato come impazzita, le si è bloccato il respiro, tanto che ho creduto che se non avessi continuato si sarebbe fermata così per sempre, sarebbe davvero diventata cianotica per mancanza d’aria e alla fine sarebbe morta annaspando, come se la luce della luna si fosse trasformata in acqua intorno a lei. – Perchè ti amo, Serena. Perchè mi accorgo che ti amo. Non ti ammazzerò come ho fatto con le altre. -E’ venuta verso di me, ubriaca, come se si fosse bevuta la luna cento volte in un bicchiere, mi si è inginocchiata accanto, le sue labbra hanno cercato le mie fino ad affondarmi dentro, ho sentito il suo corpo quasi penetrare nel mio, i suoi seni schiacciarsi fino ad appiattirsi contro il mio petto, il suo pube aderire a me fino a farmi male. Per un lunghissimo istante è stata un corpo fremente disteso su di me, la sua pelle accarezzava la mia, i suoi nervi ballavano ancora tra il terrore e la liberazione da un incubo. Le sue braccia, le sue dita affondavano nella mia carne mentre rotolava di lato e mi tirava verso di se, e io le chiedevo, timidamente adesso, come se lei mi potesse dire di no: – Mi vuoi, Serena, mi vuoi dentro di te? -E lei chiudeva gli occhi e le sue mani prendevano il mio volto e io sentivo le sue labbra spalancarsi di nuovo, come le sue gambe, come se stessi penetrando, precipitando silenziosamente in un grande vortice di cui non vedevo la fine.E’ durato quasi mezz’ora il nostro stringersi e cercarsi e penetrarsi e baciarsi e succhiarsi, la nostra prima scopata, in cui siamo riusciti ad esplorare solo una piccola parte delle nostre sensibilità, e alla fine ho capito che era appagata e che ormai voleva solo godere, e l’ho accontentata con una serie di colpi intensi, profondi, a cui lei reagiva piantandomi i talloni sopra i glutei, per accogliermi a fondo in lei. Un rantolo prolungato è stato il segnale dell’inizio del suo orgasmo, a cui subito ha fatto seguito il mio; non ho pensato neppure per un momento se ci fosse qualche controindicazione, e mi sono scaricato in lei, prima di crollare sfinito al suo fianco. L’ho abbracciata ancora stretta e l’ho baciata, tirandola il più possibile vicino, e la sentivo sussurrare con aria trasognata:”Sono tua, tua, non mi uccidere” Eravamo seduti in macchina. La luce ora non era la stessa oltre il finestrino, la luce che si infiltrava fra i suoi capelli scomposti, che si sdraiava in brandelli geometrici sulla pelle del suo corpo, adesso conteneva qualcosa. Forse solo un germoglio di una promessa, un profumo leggero, fino a poco prima inesistente, come quello delle rose ancora posate sul sedile posteriore.Ma ancora il buio resisteva, la sua era una ritirata lenta, combattutta, metro per metro, nuvola per nuvola.Sull’Appia lontana l’insorgere dell’alba aveva depositato anche un autobus, lo si vedeva indistinto, solcare un breve orizzonte fra due montagnole d’erba prima di scomparire per sempre come un miraggio. – Sei sveglia, Serena? – – Si – ha detto dopo un po’, come se la mia domanda l’avesse svegliata. – Ti voglio fare una confessione, Serena… – ho cominciato. – Se non vuoi farla, non farla! – mi ha interrotto precipitosamente. Temeva che le confessassi chissà quale atroce delitto, e di diventare poi “una che sapeva troppo”.Era attenta, ora, incerta, tesa, bellissima ai miei occhi. L’avventura stava finendo, in quei brevi istanti lei si sarebbe giocata la vita e la morte, avrebbe puntato l’ultima fiche sulla roulette prima che gli inservienti vi stendessero sopra un panno e mandassero tutti a dormire. – Mi sono divertito, stanotte, Serena – ho detto parlando calmo. – Sei stata magnifica a fare l’amore. Forse hai finto o forse eri davvero tanto felice di non morire che hai goduto davvero. Comunque è stato bellissimo. E poi mi sono divertito a vederti spaventata. A vederti piegata a tutte le mie voglie solo perchè avevi paura di morire. -Lei cercava di capire quale altra pazzia si stesse scatenando in me. – Ho giocato. Ho giocato con la tua paura. Tra l’altro, te lo dico, è stata solo colpa tua. Se invece di uno schiaffo avessi magari risposto alla mia mano sulla coscia con una battutina, non sarebbe accaduto nulla. Nulla, capisci? -Lei non si arrischiava ancora a parlare. Voleva prima vedere dove sarei andato a finire. – Adesso tu scenderai dalla macchina – ho continuato tranquillo, – io metterò in moto, e me ne andrò fino all’Appia, lascerò la macchina alla fermata dell’autobus con la chiave infilata nel tubo di scappamento, e tu, quando ci sarai arrivata a piedi, tornerai a casa. -Vedevo i suoi occhi che capivano soltanto quell’ultima frase, per lei era importante solo il “tornerai a casa”, la fine dell’incubo. – E non lo dirai a nessuno – ho continuato. – Non potrai dire a nessuno quello che è successo stanotte. Pensaci bene. Non lo potrai fare, Serena. -La paura era di nuovo in lei. – Ma no, stupida, – l’ho rincuorata – smettila di tremare, non hai ancora capito che è stato uno scherzo, che mi sono solo divertito? Che non sono uno psicopatico e che non ho mai ammazzato nessuno in vita mia e non lo farò mai? Che ho semplicemente preso quello che tu hai dato al tuo ragazzo e magari a chissà quanti altri solo perchè ti andava. Solo che l’ho preso gratis. -Lei ha preferito continuare a non parlare, o forse non ne aveva più la forza. E la voglia. – Quando sarai di nuovo sulla tua macchina e io sarò lontano su un autobus, lo so che penserai di andare a denunciarmi. Ma cosa dirai? -Mi divertiva quello che stavo per dire perchè in fondo tutto era successo senza che io lo volessi, anche se adesso tutto giocava irrimediabilmente contro di lei.Si, sempre un gioco. – Quando arriverai al commisariato ti chiederanno: “Chi è stato? Come si chiamava?”. E tu dovrai dichiarare che non sai nemmeno il mio nome di battesimo, non dico il mio cognome, nemmeno il mio nome. “E’ lui che l’ha condotta sul prato?” ti chiederanno e tu li dovrai smentire: “No, sono stata io, siamo andati con la mia macchina, guidavo io”. E dovrai raccontare che prima siamo stati al ristorante insieme e che mi hai baciato davanti a tutti. -Piangeva, forse era la tensione, forse era rabbia. – Scendi – le ho ordinato, ma lei non si muoveva. – Scendi! – le ho urlato. – Non lasciarmi, ti prego! – i suoi occhi colmi di lacrime mi guardavano supplichevoli. – Ti ho detto di scendere, mi hai sentito? – ho urlato ancora.A quel punto si è scossa, ha aperto lo sportello, poi si è girata e mi ha detto: – Ti odierò per tutta la vita! – – No, non credo. – le ho risposto mettendo in moto. – Credo invece che ti mancherò follemente. E poi, chi odierai? – le ho chiesto divertito.E’ scesa come in trance, io ho fatto pochi metri, mi sono ricordato delle rose, mi sono fermato e gliele ho buttate vicino. – Queste comunque sono tue – le ho gridato. – E grazie di tutto, Serena. Te le sei proprio meritate. -In macchina erano rimasti anche il suo reggiseno e la camicetta, ma non glieli ho gettati, li ho lasciati sul sedile, come un trofeo. E mentre mi allontanavo l’ho sentita urlare. O meglio non erano urla e nemmeno diceva qualcosa, era come un gemito, un lamento a pieni polmoni che attraversava l’aria, che sentivo ancora quando sono arrivato alla strada e che ho continuato a sentire mentre aspettavo alla fermata.Pochi minuti dopo, salito sull’autobus, mentre barcollavo accanto alla bussola cercando nel portafoglio la tessera, l’ho vista ancora lontana che scendeva da una collinetta verso la strada. Ma ormai non urlava più.Anche lei mi ha visto, ne sono sicuro. Aveva la gonna scomposta, abbassata sulle gambe vacillanti, e le mani incrociate disperatamente, che stringevano quell’assurdo mazzo di rose a coprirsi i seni.
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