Mercoledì. Arrivai a scuola come in trance, scoprire nella preside una compagna di sventura invece di tranquillizzarmi mi aveva ulteriormente spaventato: se persino lei era nelle mani del segretario che speranze avevo di difendermi da quell’uomo? In sala professori presi il registro ed andai in classe, nei corridoi incrocia delle colleghe con cui scambiai poche parole ma non il segretario né la preside. Due ore in una prima, due in una seconda, senza che succedesse nulla, a pranzo con le colleghe, le solite chiacchiere: colleghe senza uomini (e non mi veniva nemmeno da pensare beate loro), quelle con i figli, qualche battutina sull’audacia della mia mise, battute che avevo imparato ad accogliere con un sorriso, come se fossero complimenti. Poi di nuovo a scuola: riunioni nelle singole classi prima e consiglio poi, alle cinque. Entrando in consiglio vidi la preside; anche lei vide me e subito mi venne incontro, mi tirò da parte e disse: “Alla fine del consiglio vieni da me in presidenza.” Si allontanò subito lasciandomi a cercare di interpretare la serietà del suo viso, le sue poche parole. Il consiglio durò fino alle sei e mezzo. La preside fu la prima ad uscire dalla sala; lasciai che le altre si allontanassero poi presi le mie cose, andai in sala professori, misi libri e registri nell’armadietto, mi guardai nello specchio, ripassai il rossetto alle labbra, rosso, un po’ scuro, allargavo leggermente le labbra, labbra da pompini, pensai, ritoccai gli occhi. Sistemai la camicetta, nera, incrociata sul seno, la scollatura che terminava ben oltre l’attaccatura dei seni, la gonna di seta, pure nera, controllai la riga delle autoreggenti, nere anch’esse. Il silenzio nella scuola era assoluto, mi diressi verso la presidenza, le mie scarpe ticchettavano ad ogni passo, nel silenzio, camminavo a lunghi passi, muovere il culo mi era diventato naturale ormai, lo sentivo ondeggiare di qua e di là come un pendolo. Entrai in presidenza e trovai che la preside si era cambiata: top bianco leggerissimo, elasticizzato, che disegnava perfettamente la forma dei seni, ampiamente scoperti e sorretti da un reggiseno a balconcino, gonna di seta grigio chiaro, chiusa da tre bottoni su un lato, le scendeva poco sotto l’inguine e copriva a stento l’orlo delle autoreggenti bianche, scarpe di pelle nere, molto scollate, con lacci alle caviglie e tacchi altissimi e sottili. L’ombelico era scoperto, aveva una pancia bellissima: piatta, morbida, l’ombelico profondo, scuro. I capelli erano raccolti in una coda alta, si era truccata pesantemente anche lei. Due battone. Il segretario entrò sorridente, ci squadrò entrambe e “Ma che bella coppia! Vi siete guadagnate un aperitivo con lo spasso, andiamo!” Uscimmo dalla scuola sotto braccio al segretario che aveva un’espressione molto soddisfatta; camminava a passi lunghi incurante degli sforzi che dovevamo fare per tenergli dietro senza precipitare dai tacchi, stringeva le braccia e ci trascinava. Arrivate alla macchina ci disse di salire dietro tutte e due e di cominciare a scaldarci tra di noi, che ci sarebbe stato da divertirsi. Per fortuna la strada che imboccò era poco trafficata, cominciammo a baciarci e a scambiarci carezze leggere al viso, alle cosce, ai seni. Lui ogni tanto guardava nello specchietto e vedendoci impegnate ci diceva: “Brave! Brave!, così! dolci, dolci,” Dopo circa un quarto d’ora arrivammo in un bar di campagna, parcheggiò vicino ad un’altra decina d’auto, scese e venne ad aprire la portiera dal mio lato. “Su belle, a terra! E scendendo fatemela vedere bene!” Misi giù un piede allargando le cosce, lasciai che guardasse, non avevo mutande, mi fece cenno di muovermi e mi tirai fuori dall’auto. La preside scivolò sul divanetto verso la portiera e fece esattamente le mie stesse mosse, anche lei senza mutande, la sua bella figa in vista, anche lei giù. Il segretario ci indicò l’entrata del bar aspettando che lo precedessimo. Entrai per prima, poi la preside, ci fermammo un attimo sulla soglia per abituarci alla penombra che regnava nel locale. Tutti gli avventori si erano zittiti al nostro arrivo, il segretario ci spinse verso il bancone rompendo il silenzio con un “Salute a tutti”. In risposta attaccò un chiacchiericcio eccitato, con occhiate lanciate verso di noi che ci stavamo avvicinando al bancone, commenti, immaginavo, tipiche battute maschili, occhi che ci pesavano le tette, ci percorrevano le cosce, seguivano il movimento dei sederi, studiavano le labbra. Arrivati al bancone il segretario ci indicò un tavolo in fondo alla sala: era un piccolo tavolo rotondo, circondato da una fascia vuota che lo isolava, meglio illuminato degli altri da tre faretti incrociati, sembrava fatto apposta perché tutti potessero vederlo, una specie di piccolo palcoscenico. Con un leggero tremito mi avviai, fendetti la sala ancheggiando bene, sapevo che al segretario avrebbe fatto piacere e speravo…, già, cosa speravo? Esibirmi mi piaceva, davvero speravo che solo di quello si trattasse? La preside mi seguì a capo chino ma anche lei doveva muoversi bene, lo capii dalle occhiate che si spostavano da me a lei, dai commenti sussurrati. Feci il conto dei presenti: 24 più il barista ed il segretario. Lui si sedette dietro il tavolino, noi ai lati, rivolte verso la sala, con le gambe strette, le mie ginocchia che sfioravano quelle della preside. Il barista venne verso il tavolo, dal modo in cui lui ed il segretario si salutavano capii che si conoscevano già, il segretario ordinò degli aperitivi della casa: molto secchi e abbondanti, raccomandò. “Allora ragazze, vi piace il posto? L’aperitivo della casa è una bomba, sentirete, può scaldare anche voi due stoccafissi, sembra che vi abbiano infilato una scopa nel culo, che c’è? Non siete a vostro agio?” Il viso di entrambe si distorse in una smorfia che voleva essere un sorriso, come se le sue parole fossero solo una battuta. Arrivarono gli aperitivi, due grandi bicchieri pieni di una miscela rossa, al primo sorso una vampata di fuoco ci percorse entrambe, le guance divennero di un rosso acceso, il freddo che avevo provato sino a quel momento, senza rendermene ben conto, scomparve. Il segretario sorrise ed alzò il suo bicchiere in un brindisi: “Alle due più grandi puttane che abbia mai conosciuto!” Aveva parlato con un tono di voce normale ma dagli altri tavolini non potevano non averlo sentito, infatti i sogghigni si sprecarono e tutti si risistemarono sulle sedie girandosi verso di noi e squadrandoci con occhi famelici. Bevemmo in risposta al brindisi, anche per distogliere l’attenzione dalla sala. Il secondo sorso finì di scioglierci, ci muovemmo entrambe sulle sedie accomodandoci meglio, l’orlo delle gonne risalì scoprendo l’elastico delle autoreggenti, ma sì, al diavolo! Che si lustrassero gli occhi quel branco di porci, se era solo quello che volevano. Il segretario guardò me, mi fissò negli occhi, guardò i miei capezzoli che bucavano la stoffa della camicetta, evidentemente ritenne che andassi bene perché sorrise e si voltò verso la preside che invece stava leggermente piegata su se stessa, col capo chino, gli occhi fissi sul bicchiere: “Tesoro, tirati insieme! Su dritta e spingi in fuori le tette, non sei mica ad un funerale!” La preside si raddrizzò, mi lanciò uno sguardo che invocava un aiuto che non potevo darle, spinse fuori il seno. Il segretario la squadrò attentamente poi fece un cenno al barista, si fece portare una ciotola con dei cubetti di ghiaccio e la fece posare davanti alla preside: “Passatene uno sui capezzoli! Voglio vederli bene in tiro, come quelli della tua amica.” La preside lo guardò inorridita e non si mosse, il segretario si girò verso di me: “Pizzicale le cosce! Vediamo se si decide questa troia!” Lo feci per il suo bene, far incazzare il segretario peggiorava solo le cose per entrambe, feci scivolare una mano verso l’interno delle sue cosce e le strizzai la carne con tutta la mano. Sobbalzò sulla sedia, l’espressione sul suo volto si fece adirata ma la mano corse alla vaschetta, afferrò un cubetto e si infilò sul lato del top. Dalla sala tutti avevano osservato i nostri maneggi nel silenzio più assoluto, mormorii di approvazione accolsero la mano che, in modo perfettamente visibile passava il cubetto di ghiaccio sul capezzolo. Quando fu ben in tiro sfilò la mano, cambiò cubetto e fece la stessa cosa con l’altro. Alla fine anche i suoi capezzoli, più grandi e lunghi dei miei, erano duri e puntavano in avanti come due punte da trapano. Il segretario la guardò soddisfatto e mi disse: “Sai, è la prima volta della signora, in pubblico. Forse credeva che saremmo andati avanti per sempre a soddisfarla solo in privato. Invece stasera è festa grande e tu che sai già come vanno queste cose devi indirizzarla bene. Voglio vedervi far tirare il cazzo ai morti stasera, qui sono tutti amici e non dovete temere nulla.” Fece di nuovo cenno al barista che andò a chiudere a chiave la porta del bar e tirò le tende delle vetrine, poi venne a sedersi anche lui in prima fila, girato verso di noi con un bicchiere in mano. Cosa dovevo fare? Pensavo in fretta, sapevo di avere pochi istanti per mostrarmi all’altezza della situazione, se il segretario avesse ripreso lui in mano il controllo sarebbe stato tutto peggio. Gli chiesi delle monete, andai al jukebox e misi delle canzoni lente. La musica si diffuse per la sala mascherando il silenzio. Tornai al tavolo, afferrai il bicchiere, lo vuotai con un’unica, lunga sorsata poi invitai con lo sguardo la preside a fare lo stesso. Lei obbedì ed in un sol sorso lo svuotò anche lei. In silenzio le tesi la mano per invitarla a ballare, lei la prese e mi si accostò davanti al tavolino, ci stringemmo, mi sussurrò all’orecchio che le girava la testa; le dissi che era meglio così e di lasciarsi andare qualunque cosa accadesse, opporre resistenza sarebbe stato peggio, se il segretario ci aveva portato lì era per metterci all’opera e di solito quando non era soddisfatto diventava ancor più cattivo pur di dimostrare che era lui a comandare. Cominciammo a ballare, strinsi il suo seno al mio, i capezzoli che si sfioravano ad ogni movimento, le misi una mano sul culo ed attirai il suo bacino verso il mio. I vestiti erano così leggeri che mi sembrava di averla nuda tra le mie braccia. La sentii sciogliersi, sentii i capezzoli di entrambe indurirsi e gonfiarsi ancor di più, cominciai a palparle il culo e mi sentii prendere dall’eccitazione. La sentivo abbandonarsi tra le mie braccia sempre più morbida e disponibile, arresa, la sentivo mia, sentivo di poterle far fare delle cose, forse qualunque cosa e la sola idea mi eccitava terribilmente, averla nelle mie mani. Feci scivolare una mano sotto l’orlo della minigonna e le scoprii lentamente una natica, con l’altra la presi per i capelli, attirai la testa verso di me e le infilai la lingua in bocca. La bacia a lungo, a fondo, ogni tanto attiravo la sua lingua all’esterno, sentivo gli sguardi fissi su di noi e volevo dar loro soddisfazione, sapevo che agli uomini piace vedere due donne che si slinguano, sapere per certo che lo stanno facendo. Le mordevo le labbra senza interrompere il bacio, affondavo la lingua, le percorrevo il palato, la sua lingua prese a rispondere, si indurì, prese ad “obbedire” ai miei movimenti. Feci scivolare la mano sul davanti, la infilai tra le sue cosce e la sentii bagnata. Spostai la mano verso l’alto e, tirandole il top verso il centro, le scoprii un seno: si irrigidì, bastò che le pizzicassi il capezzolo perché si rilassasse di nuovo. Le sciolsi il top alle spalle, lo tirai verso l’alto, interruppi il contatto delle bocche solo il tempo di sfilarglielo poi lo lanciai verso il pubblico. Le tirai i capelli dalla nuca scostandola da me quanto bastava perché il suo seno scoperto fosse chiaramente visibile da tutti. Partirono dei fischi, qualcuno disse “belle tette!”, altri commenti. I suoi occhi nei miei, un’espressione da vittima rassegnata che mi eccitò ancora di più. Le sussurrai di aprirsi la gonna, non se lo fece ripetere, sganciò i bottoni uno per uno, lentamente, forse perché ancora esitava, forse per far salire meglio l’eccitazione, chi sa. Sganciato il terzo bottone la gonna, stretta dai nostri bacini serrati l’uno contro l’altro, le scivolò sul dietro scoprendole il culo. Mentre scrosciava un applauso, infilai la mano tra i nostri bacini, sfilai la gonna e gettai anche questa verso il pubblico, poi reinfilai la mano le presi il monte di venere e la spinsi ad inarcarsi così da mostrare in tutta la sua bellezza le sue chiappe abbondanti e nettamente divise. In quel momento sfumava l’ultima delle canzoni che avevo messo, le feci fare una mezza piroetta e la abbandonai, completamente scoperta, arretrando leggermente. Per un attimo nella sala tornò il silenzio, poi il barista (un omone, un metro e novanta, molto ben piazzato, spalle larghe) si alzò dalla sedia e le si accostò subito imitato da altri cinque avventori, appena la sfiorarono lei cercò di reagire, di allontanare quelle mani. I sei le si fecero più addosso, presero a pizzicarla infilandole le mani dovunque: come sempre, più lei si dibatteva più quelli incattivivano. Poi c’era quella sua faccia da martire, come non farle del male. Rapidamente venne ridotta alla ragione, si abbandonò alle mani dei sei, piangeva. Il segretario mi chiamò, mi fece sedere sulle sue ginocchia, mi mise in mano il cazzo che aveva già in tiro e mi disse di masturbarlo mentre ci godevamo la scena. Nel frattempo i sei, anche loro, avevano tirato fuori il cazzo come pure la maggior parte degli altri avventori ancora seduti ai tavolini. Le mani della preside venivano spostate ora su un cazzo ora sull’altro e lei aveva smesso di piangere. Bocche si impossessavano della sua violandola senza delicatezza, mani le strizzavano i seni, dita la penetravano davanti e di dietro, lingue le si infilavano nelle orecchie. Tra un bacio e l’altro cominciò ad emettere suoni inarticolati ma che facevano ben capire come avesse cominciato a gradire il trattamento. Fu a quel punto che da dietro il barista le infilò il suo grosso cazzo nella figa e prese a scoparla in piedi mentre gli altri, intorno, continuavano a usarla in ogni modo possibile. Uno parlò all’orecchio del barista, questi assentì, la fece piegare a novanta gradi e un altro cazzo le finì in bocca, le tette che pendevano sotto il suo busto furono prese di mira dagli altri ancor più di prima: chi le strizzava, chi le mungeva, chi le avvitava i capezzoli, chi gliele schiaffeggiava. Mugolò il suo primo orgasmo sul cazzo che teneva in bocca. Il barista e l’altro si sfilarono da lei in contemporanea sborrandole uno in faccia e l’altro sulle natiche, i due che lei stava masturbando si afferrarono i cazzi e completarono da soli la masturbazione venendole sulla schiena, gli ultimi due si infilarono solo un attimo nella bocca e nella figa prima di innaffiarla anche loro in faccia e di nuovo sul sedere. Fu a quel punto che il segretario mi fece alzare: “Vai a pulirla!” Tirò fuori la lingua in un gesto di volgarità assoluta, facendomi capire quello che dovevo fare. Ed io, che mi ero quasi illusa di passarla liscia, andai dalla preside, la sollevai, la baciai in bocca poi scesi sul suo seno e cominciai a leccare lo sperma inghiottendolo man mano, la girai di schiena la leccai tutta dal collo fino alle natiche, la feci piegare leggermente e le affondai la lingua nella figa. Bastò un leggero colpo alla clitoride e venne di nuovo: si portò le mani alle tette stringendosele forte e proruppe in un rantolante, lunghissimo: “Troia!” senza che si capisse se era rivolto a me che la leccavo o a se stessa. Quando l’orgasmo finì di scuoterla mi tirai su, il segretario fece cenno a lei di sedersi al suo fianco e a me che era il mio turno. Stetti ferma un attimo poi decisi, tolsi rapidamente gonna e camicetta e le gettai sul tavolino più vicino, aprii le gambe a compasso meglio che potevo, mi piegai a novanta gradi, portai entrambe le mani alle natiche spalancandole bene e presi a girare su me stessa mostrando a tutti i miei buchi con le tette come sfondo al di là delle cosce. Completato il giro, mi tirai su e mi diressi subito verso un tizio di circa sessant’anni con un cazzo in semitiro, mi accoccolai davanti a lui e glielo presi in bocca, lo succhiai fino a farglielo diventare ben duro poi mi tirai su e mi accostai ad uno grassissimo con un cazzo di discrete dimensioni, gli montai addosso e mi infilai il cazzo nella figa prendendo a cavalcarlo, con le mani poggiate sul suo pancione mentre lui mi strizzava dolorosamente le tette. Quando sentii che stava per venire mi sfilai, mi accostai al suo vicino, gli girai le spalle, mi sputai sulle dita per bagnarmi il buco del culo che, per la verità era già abbastanza bagnato per tutti gli umori che mi erano colati fino ad allora dalla vagina, ed ondeggiando il bacino mi calai a prendere nel culo un cazzo lungo e sottile che mi scivolò dentro come nel burro. Quello da dietro mi afferrò le natiche e me le allargò più che poteva così da infilarmi il cazzo talmente a fondo che davvero mi sembrava volesse arrivarmi in gola. Dopo poco mi sfilai anche da lui, tornai in mezzo alla “pista” e mi misi ferma, a capo chino, ad aspettare quello che sarebbe successo, ero una schiava, io, avevo solo voluto mostrare una parte dei miei talenti, adesso stava a loro decidere come usarmi. Non dovetti aspettare molto, purtroppo. Una violenta scudisciata si abbatté sulle mie natiche facendomi scattare in avanti ed urlare per il dolore, mi girai: il segretario era in piedi dietro di me con la preside accucciata ai suoi piedi che lo succhiava ed una frusta in mano. Fece un cenno e io tornai al mio posto portando entrambe le mani dietro la nuca ed inarcando la groppa così da offrire meglio il culo. Se mi ero illusa di cavarmela con delle semplici chiavate le mie speranze erano state subito deluse. Il segretario colpì a lungo e senza pietà, dopo il trentesimo colpo non riuscii più a trattenere né le urla né le implorazioni, mi sentivo il corpo ridotto ad una gelatina tremolante che si scuoteva ad ogni colpo. Riuscivo però a tenere la posizione, sapevo che era quello che il segretario si aspettava da me e che se non lo avessi fatto il supplizio si sarebbe solo allungato. Al centocinquantesimo colpo la mano si fermò. Sentivo il culo gonfio avvampare. Immediatamente quello sul cui cazzo mi ero inculata poco prima mi venne alle spalle e mi infilò nel culo prendendo a scoparmi a gran colpi; anche il ciccione si avvicinò insieme al tizio più anziano e ad un altro suo amico che non avevo notato ancora e che avrà avuto almeno settant’anni, magrissimo, con un’espressione laida sul volto ed un lungo cazzo completamente molle che gli pendeva fuori dai calzoni. Il ciccione mi spinse il cazzo in gola tirandomi la testa fino a farla affondare nella sua pancia mentre i due anziani mi mettevano il cazzo in mano ed il più vecchio dei due, afferrandomi il capezzolo e piantandoci delle unghie lunghe e taglienti che mi provocarono immediatamente delle terribili fitte, cominciava a dirmene di tutti i colori: “Sei davvero una bagascia, ti è piaciuto prima gettarci in pasto la tua amica, vero puttana,e adesso speravi di avercelo fatto tirare solo raccontandoci che lo prendi bene, vero? Per farlo tirare a me ci vuole ben altro, troia. E stasera ho proprio voglia che tu me lo faccia tirare.” Continuò ad insultarmi finché quello dietro di me non mi sborrò nel culo più o meno in contemporanea al fiume di sborra che il ciccione mi riversò in gola. Poi i due vecchi mi tirarono dritta. Accostarono un tavolino rotondo mi ci fecero poggiare la schiena e mi legarono i polsi alle caviglie incrociando le corde. Il tavolino non era molto alto, dovevo stare con le ginocchia piegate e le cosce completamente aperte mettendo oscenamente in mostra la figa rasata, le tette dure svettavano sul mio tronco sormontate dai capezzoli dritti come grossi chiodi, la testa pendeva all’indietro e cercare di tenerla su nel vuoto mi costava un grande sforzo. Il vecchio venne a mettersi a cavalcioni della mia faccia, imprigionandomi la testa tra le sue cosce magre: “Leccami i coglioni puttana e cerca di non agitarti troppo!” Perché avrei dovuto agitarmi? Tirai fuori la lingua e cominciai a leccargli i coglioni e così solo quando un bruciore atroce mi montò dal capezzolo destro al cervello capii cosa volevano farmi. Grosse gocce di cera mi colavano sui capezzoli scivolando poi lungo i seni; non era la prima volta che subivo questo supplizio ma era la prima volta che la candela veniva tenuta così vicino alle tette, le gocce cadevano bollenti sui capezzoli e poi scivolavano lungo i seni. Inghiottii i coglioni del vecchio, stavo per morderli quando lui mi prevenne apostrofandomi: “Non ci pensare nemmeno puttana, conciata come sei ti farei fare una fine terribile, troia. Più dolore senti, più dolce deve essere la tua lingua, ma non farmi sentire i denti neanche per sbaglio!” Mi bloccai, aveva ragione lui, resistetti al dolore e presi a leccargli i coglioni a grandi lappate, più soffrivo e più la mia lingua aderiva alle sue palle, sentivo il suo cazzo crescere lentamente sul mio petto. Ad un certo punto mi liberò la testa, lanciai un’occhiata alle mie tette completamente ricoperte di cera mentre il vecchio, sempre con la candela in mano, andava a piazzarsi tra le mie cosce puntando il cazzo ormai duro e spaventoso sulla mia figa. Mi penetrò con un sol colpo sfondandomi, l’altro si accostò e mi infilò in bocca, cominciarono a pomparmi entrambe, poi le prime gocce di cera caddero sulla clitoride, cacciai un urlo disumano soffocato dal cazzo che mi affondò in gola, mi dimenavo inutilmente, bloccata dalle corde e da quei due cazzi che mi inchiodavano, qualche goccia di cera cadeva ogni tanto anche sul cazzo del vecchio che non sembrava farci caso, il dolore era atroce, la candela vicinissima alla mia pelle, i rivoli di cera prolungavano il tormento spandendosi su tutto il monte di venere. Svenni, qualcuno mi buttò dell’acqua in faccia e tornai in me per vedere i due vecchi al lato della mia faccia che si menavano il cazzo fino a inondarmi di sperma occhi, naso, bocca, guance, orecchie. Fu la preside stavolta a far le pulizie, a piccoli colpi di lingua leccò via tutto lo sperma. Quando mi vide tranquilla prese ai lati il calco di cera che copriva il seno sinistro e tirò lentamente verso l’alto fino a staccarlo poi lo andò a depositare sul tavolino davanti al segretario; lo stesso fece con l’altro seno e col calco del mio monte di venere. Poi mi slegò e mi portò a sedere a fianco al segretario che mi porse da bere con un sorriso soddisfatto. Era di nuovo il suo turno: andò ad inginocchiarsi per terra, inarcò la schiena esponendo bene il culo, posò i palmi delle mani davanti alle ginocchia e cominciò a leccarsi le labbra come se davvero l’unico suo desiderio fosse quello di leccare un cazzo. Era perfettamente immobile, solo la lingua percorreva le labbra instancabile ed invitante, a tratti simile ad un serpente, un serpente incantatore. L’immobilità fu rotta da un avventore giovane e di bell’aspetto che si avvicinò a lei impugnando un cazzo di notevole dimensioni; le si piazzò di fronte e la lingua della preside prese a lambirlo, lentamente lui avanzò fino ad infilarglielo in bocca, prese a muovere il bacino avanti e indietro scopandola mentre lei rimaneva immobile, accogliente, con le guance incavate; il ragazzo venne in un attimo, nella gola di lei, subito un altro prese il suo posto e poi un altro ancora e così via per sei volte, tutti le sborrarono in gola, al settimo una lacrima le scese lungo la guancia, unico segno dello sforzo che stava facendo per tenersi immobile, l’ottavo, il nono, il decimo, il cazzo dell’undicesimo era piccolo e l’uomo venne sulle sue labbra senza neanche averglielo infilato ma il dodicesimo era una specie di gigante dal cazzo enorme, la preside dovette spalancare la bocca nel tentativo di farlo entrare, ma era davvero grosso, l’uomo le mise una mano dietro la nuca e la tirò verso di se, la preside annaspò, sollevò le mani cercando di allontanarlo ma l’uomo con la mano libera gliele afferrò entrambe e spinse ancora: era dentro a metà, prese a muoversi con delicatezza, si tirò leggermente in fuori poi spinse di nuovo in avanti, la preside aveva gli occhi fuori dalle orbite e dimenava il busto nel vano tentativo di sottrarsi alla penetrazione. Un altro uomo le si avvicinò alle spalle, anche lui con un bel cazzo grande, anche se non come quello del primo, si inginocchiò dietro di lei, le aprì le natiche e la infilò con un sol colpo, la preside spalancò la bocca come per urlare ed il primo ne approfittò per affondarle ancora il cazzo in bocca, altri due si avvicinarono ed il gigante le mosse le mani in modo da farla appendere ai loro cazzi, trovò la forza di masturbarli, muoveva le mani velocissima, come invasata, quello nel suo culo venne dentro di lei e fu sostituito da un altro, vennero quelli che masturbava ma non il gigante che ormai affondava ampiamente nella sua gola, dandole appena il tempo per respirare, ogni tanto; altri due le misero il cazzo in mano, un altro glielo mise in culo, per la terza volta. Il segretario mi fece alzare e mi spinse verso il gruppo, mi fece inginocchiare accanto alla preside e dovetti piegare la testa per aiutarla a leccare il cazzo che aveva in bocca, quasi subito mi trovai anch’io con due cazzi in mano ed uno in culo, mi eccitai, cercai la lingua della preside sul cazzo dell’uomo, muovevo anch’io le mani veloce, agitavo i fianchi per meglio offrirmi alla penetrazione, perdetti presto il conto dei cazzi che mi passavano per le mani o per il culo, riconobbi il vecchio perché non si fece sfuggire l’occasione di strizzarmi di nuovo i capezzoli, ancora doloranti da prima. Non so per quanto andammo avanti. All’improvviso rimase solo il cazzo del gigante che si tirò indietro e ci sborrò in faccia, tanto: ci abbracciammo e cominciammo a leccarci lo sperma l’una dal viso dell’altra, quando fummo pulite ci accasciammo per terra, l’una sull’altra, disfatte, abbracciate restammo lì ad occhi chiusi. I rumori intorno a noi lentamente cessarono. Aprimmo gli occhi e vedemmo l’espressione beffardamente soddisfatta del segretario che ci osservava seduto con un bicchiere in mano: “Bravine, stasera siete state bravine, ed era solo un aperitivo, chissà ad una cena cosa sapreste fare! Adesso in piedi che bisogna tornare a casa.” Ci alzammo barcollando girammo per il locale a recuperare i nostri vestiti, dal retro si sentiva qualche rumore ma il barista non si fece vedere, uscimmo che era ormai buio. Tornammo a casa.
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