Oggi è improbabile, domani forse, si domani ci riuscirò. Tutti i giorni, tutti i giorni della settimana la stessa strada. Itinerario condiviso da decine di altre figure, allineate, incolonnate, in attesa di un verde o di un tratto di strada libero. Poi le sfumature, vedere come cambiano i colori del cielo a seconda della stagione. In inverno, quando esco da casa che è ancora buio e ritorno che è già buio. Lucine rosse che inseguo, attento all’intensità del loro essere vive, del loro essere testimoni che una mente, un corpo, un’anima, vive dentro le lamiere colorate e sinuose di sculture moderne. Luci bianche che incrocio. Potrebbero essere eterne, oppure vivere per un attimo. Non danno un senso di vissuto, di partecipato. Strane le macchine. Da dietro sono ostacoli, guide, emozioni. Basta una frenata per accendere una fiammella di vita. Dal davanti sono niente, luci fisse, senza vita, come se fossero senza passato e senza futuro. Piano le stagioni scorrono, le giornate si allungano. Allora posso vedere il sole che piano, stancamente si solleva dalla terra. Risveglio continuo, da mille anni e per altri mille ancora. A volte mi vedo riflesso nella palla rosso fuoco che frantuma il buio. Mi vedo mentre mi alzo dal letto e saluto un nuovo giorno. Come cambiano quelle emozioni. Le auto non sono più luci rosse o bianche. Sono oggetti viventi, profili precisi. Così come le figure che le abitano. Diventano uomini e donne. Non più il gioco stupido ed infantile di indovinare che le guida. Realtà, capelli corti che circondano visi truccati, capelli lunghi che disegnano visi affilati. Ma devi sempre indovinare, indovinare cosa si nasconde sotto le teste. A volte mi trovo a pensare che le auto sono solo mezzi che trasportano teste, mentre i corpi sono altrove. In estate tutto è diverso. Tutto ha un sapore forte e intenso. Anche se piove, non importa veramente. Tutto è lì, da vedere, toccare. Ti rimane il gusto di pensare alle gambe, quelle che non puoi comunque vedere. Sognando la pelle che affiora dal bordo di gonne sempre più corte. Colorate dalle prime domeniche al mare o tornite da lunghe passeggiate in montagna. Pensando a seni tondi e pieni, come otri di buon vino. Eccitandomi a percorrere profili immaginari. L’estate, come se vivessimo solo a periodi, parzialmente. Passando il resto dell’anno a far scorrere il tempo. Vedi già al mattino che le decappottabili sono un segno di distinzione, che le moto rombanti riemergono dal letargo invernale. La sera poi. Quando l’aria si impregna del calore del giorno, quando l’asfalto rilascia il calore del sole. Guidi sentendo l’aria densa e umida che ti chiude le narici. Allora eccomi a celebrare il condizionatore, stupenda invenzione, che trasforma la natura in un metro cubo di vita artificiale. Sono quei giorni in cui provo invidia per chi vive alle Svalbard o in qualunque altro luogo freddo. Chissà perché mi vengono in mente solo quando fa caldo. Serena guida una fiammante coupè, ne seguo sempre il profilo con lo sguardo. Lei bella e lontana, come le linee gentili ma aggressive della sua auto. Saranno mille anni che ogni mattina la raggiungo sul rettilineo della Comasina. Sono mille giorni che la supero, gettandole uno sguardo, sperando in una risposta. Anche lei riconosce ormai il profilo della mia auto. Come se fosse un rituale si sposta leggermente a destra per lasciarmi passare. Mai che risponda al mio sguardo, neppure quando la spio dal retrovisore. Assente come solo una donna è capace di esserlo. Ho provato anche a rallentare, a divenire ostacolo, ma lei non mi supera mai. Inerte, o almeno così mi appare. Nulla sul suo viso si smuove. Neppure gli occhi lasciano partire un messaggio. Fosse anche disappunto o fastidio. Nulla. Il rettilineo finisce, io svolto a destra e lei prosegue. Domani saremo di nuovo qui, su questo rettilineo, io a sperare in un segnale, uno sguardo e lei a guidare la sua auto. Mi chiedo spesso a cosa pensi. Quali ombre le sorvolino la mente, quali pensieri si rincorrano nella sua mente. Mi chiedo spesso cosa pensa di me. O almeno cosa pensa di quel guidatore che da mille anni la supera e che da mille giorni le lancia uno sguardo mai raccolto. Deve essere successo ieri, o forse domani, non ricordo bene. L’incrocio è lo stesso, il semaforo pure. Tra me e Serena dolo una vecchia e stanca auto di media cilindrata. All’interno due uomini che fumano e sembrano raccontarsi storie consumate. Scatta il verde ed è come se lo spazio fosse frantumato dall’attesa. Acceleratori pigiati e frizioni rilasciate. Motori che rombano, in un attimo l’aria è violentata da scarichi impietosi e carichi di gas micidiali. L’abitudine è cattiva amica a volte. I gesti che diventano rituale, a volte sono inconsapevoli. Lo sguardo che si volge a destra o sinistra per un ultimo controllo ci ruba l’attimo. Serena deve frenare per colpa di un furgone che non rispetta la sequenza delle luci che governano il mondo stradale. L’auto che la segue la tampona ed io mi fermo un attimo prima che il mio carrozziere diventi mio amico. Gli uomini scendono. Dimenticano le loro storie e si scagliano contro Serena, un occhio a lei ed uno alla loro auto che conta un’ammaccatura in più. Il tempo si ferma, lo spazio è invaso da figure umane, l’aria si riempie di bestemmie e di parole urlate. In quei momenti si ha la sensazione che sia scoppiata la guerra, che uomini e donne siano pronti a morire. Le altre auto si scagliano contro i litiganti, ululare di clacson e di trombe. Bocche che si aprono spasmodiche. Non senti quello che dicono ma puoi indovinarlo. Qualcuno fa gesti con la mano, invito a visitare parti intime poco nobili. Altri scuotono la testa, come l’accaduto fosse opera di alieni. Mi fermo, con al diligenza di chi ha già vissuto, metto in funzione le luci d’emergenza, così da segnalare il futuro lavoro di qualche meccanico e del fratello carrozziere. Scendo, senza una ragione pratica. Impersono il ruolo del tale che non c’entra nulla ma che si sente eletto da un elettorato inesistente a paciere. “scusate. forse è meglio spostarsi. state bloccando il traffico” uso un tono deciso ma cordiale, i due uomini sembrano pronti ad una battaglia per la vita. “ma che cazzo vuole questo? Fatti i cazzi i tuoi e fila via!” purtroppo la cordialità non è sempre benvenuta. “Sono cazzi miei! state intralciando il traffico e bloccate la circolazione, me compreso, quindi adesso salite in macchina e spostatevi!” mi capita spesso che quando avverto un pericolo sottile, un brivido di paura, la mia voce esca diversa, ma più convincente. Non sono certo un colosso, ma l’apparire deciso aiuta sempre. “si, ha ragione il signore, possiamo fermarci lì, in quello spiazzo..” la sua voce, dopo mille anni e mille giorni sento la sua voce. Vedo anche i suoi occhi, dolci ed enormi, mi sembra di percepire un grazie. Forse lo voglio solamente. Il piccolo corteo delle tre auto si muove lentamente, sbloccando finalmente l’incrocio. Entriamo nel piccolo spiazzo, davanti ad una centralina dell’energia elettrica. Io parcheggio davanti all’auto di Serena, mentre gli altri si mettono dietro. Guardo dallo specchietto e la vedo osservarmi. È la prima volta, nei suoi leggo un certo smarrimento, timore forse. Scendo, mi vende e scende anche lei, forse si sente protetta. “non mi sembra una cosa grave, un tamponamento di poco conto, credo che la cosa migliore sia la constatazione amichevole..” mi prendo il ruolo di pacificatore, mi ci sento bene dentro, convinto che faccia piacere anche a Serena. “di poco conto? Ma guarda qui che botta! Ci saranno almeno tre milioni di danni!” dei due, parla quello che era seduto di fianco, come se i ruoli fossero presi da chi non guidava. “ma dai, non scherziamo, con tre milioni ci rifai tutta la macchina a momenti!” Serena se ne esce allo scoperto, con piglio ed energia. “allora chiamiamo la polizia. Che facciano i rilievi e poi vediamo. Solo perché avete due lire e le macchine nuove, vi credete superiori. La colpa è tua signorina, e tu paghi!” risponde il guidatore, in un attimo si ristabiliscono i ruoli. La schermaglia verbale è piuttosto accesa, ma comprendo che tutto può finire in una bolla di sapone. Basta arrivare alla constatazione amichevole, poi è lavoro per i burocrati delle assicurazioni. Serena è carina, un completino color pesca, che non capisco se di seta o cotone pettinato. La giacca aperta su una blusa ci una tonalità più scura. I capelli castani, raccolti sulla nuca e tenuti da un fermaglio in cuoio, di quelli bloccati da uno stiletto in legno. La gonna è poco sopra il ginocchio, le gambe sono belle, sode e muscolose, velate da un filo di abbronzatura. Il suo viso è affilato, quasi mascolino, la fronte alta, le guance piatte, labbra rosse e piene, non carnose ma invitanti. Il seno sembra proporzionato alla figura, non piccolo, neppure enorme. Un seno preciso, di quelli che carezzi con garbo e baci con passione. È come la immaginavo, fuori. Adesso la posso immaginare senza nulla addosso, vestita solo dei miei sguardi. Mentre parlotta con i due, la osservo da dietro. Un sedere tondo e pieno, forse un tantino grosso. Mi ci vedo già, mentre le afferrò con i denti l’elastico degli slip e li trascino verso il basso. Mi avvicino, come per farle avvertire la mia presenza. In realtà spero di trovare il contatto con il suo corpo. Dopo poche battute, riesco a convincere tutti. Finalmente iniziamo a compilare il modulo. “te ne intendi di questa roba? Io con i moduli e le assicurazioni non ci prendo tanto, mi aiuti?” lo avrei fatto comunque, con quella bocca e con quegli occhi mi può chiedere di tutto. “si faglielo fare a lui, che sembra uno che ci lavora sulle scartoffie. vero? Non sembri uno di quelli che suda tu, cosa fai il dirigente?” nella maniera più classica, l’ignorante usa lo scherno per difendersi, conosco il tipo e lascio perdere. Appoggiato al cofano dell’auto di Serena, con calma ed attenzione compilo tutte le sezioni, faccio anche lo schizzo dell’incidente e tutto il resto. In pochi minuti ho finito il lavoro. I due uomini mi sono addosso, tanto vicini che ne posso sentire l’alito bruciato da troppe sigarette e impastato dall’odore di caffè. I loro abiti non sono certo freschi di bucato e la loro pelle, cotta dal sole, non ha visitato recentemente una doccia. Serena si è messa di lato come se la cosa non le interessasse. “bene, adesso firmate qui ” dico rivolgendomi a Serena ed al guidatore “noi firmiamo sotto, come testimoni” dico all’altro tizio. Quando Serena firma, si inchina sul cofano e posso vedere bene il suo seno, rinchiuso da un delicato pizzo bianco. Ho l’impulso di allungare la mano, ma mi trattengo. Lascio lì solo i miei occhi. Troppo a lungo, tanto che lei, rialzandosi, se ne rende conto. Dopo le firme i saluti. I due risalgono sulla loro vettura e se ne vanno. È il momento di dire una parola, qualche cosa, ma non mi trovo impacciato. Sarà che lei mi ha visto chiaramente, mentre le guardavo il seno, sarà che mi piace troppo. Sarà ma parla lei. “ti ringrazio, sai quei due non mi sembravano proprio dei signori, è stato gentile da parte tua darmi una mano” “non è nulla, anzi, è stato un piacere, in fondo ci conosciamo..” “come? Non mi sembra di averti incontrato prima..” Ma Serena, sono mille anni che ti seguo e mille giorni che ti regalo un sorriso, come puoi non esserti mai accorta di me. Penso, il pensiero è un urlo disperato. Lei forse legge la disperazione nei miei occhi. Guarda per un attimo la mia auto, riguarda me. “è vero. scusa, tu sei quello che tutte le mattina mi sorpassa, mi guarda e poi mi si mette davanti, allora sei proprio tu quello.. Ma spiegami, perché lo fai?” eccola, la capacità tutta femminile di fare sentire un uomo, un perfetto idiota. “si, sono io.. Lo faccio perché. non te lo so dire, è una specie di abitudine.” “allora lo fai sempre?” “si, credo di si. forse” “ok, ora devo andare, spero che l’assicurazione non ti disturbi, grazie ancora, ci vediamo eh?” si allontana, sale sulla sua macchina e se ne và. Lasciandomi lì da solo, a darmi del cretino, pensando a domani mattina, quando la rivedrò. In ufficio la giornata non scorre, la mia mente torna a Serena. Per essere sinceri torna al seno di Serena, alle sue gambe ed al suo profumo, che mi sembra di sentire ancora nel naso. Verso mezzogiorno, quando il fermento pausa pranzo, diventa vociare di anime affamate, mi passano una chiamata. “Ciao, sono Serena, senti mi spiace per questa mattina, ma avevo fretta, se vuoi possiamo prendere un aperitivo insieme.. Ti va bene stasera alle 6?” “si, certo che mi.” “allora va bene, alle 6 alla Pergolina, sai quel locale sulla Com’asina? Ci vediamo la, ciao e grazie ancora..” “ciao..” Nemmeno il tempo di una parola di più. Mi chiedo se sia sempre così, ma importa poco. Non vedo l’ora che siano le 6. Arrivo puntuale, puntualità maschile, che significa arrivare in anticipo, quando chi dobbiamo incontrare è una donna. Sempre che la donna sia una nuova conquista o una preda da catturare. Aspetto, appoggiato alla mia auto, fumando una sigaretta e godendo dell’aria fresca. Lei arriva, in ritardo, ritardo femminile, cioè lasciare l’uomo sempre in sospeso, a divorarsi per i minuti che fuggono. Se l’uomo è compagno o marito, il ritardo è una logica punizione al nostro essere uomo. Se l’uomo è come me, cioè in trepida attesa di un agognato si, il ritardo è uno strumento di tortura che fa salire il desiderio. Mi sorride, avvicinandosi, i capelli sono sciolti sulle spalle, più graziosa direi. Si ferma davanti a me, forse indecisa se darmi la mano o semplicemente sorridermi. L’anticipo, dandole la mano, sorridendole. Entriamo nel locale, ci sediamo ad un tavolino, appena in disparte. Siamo di fronte, posso vederla bene. Posso vederle le gambe, liberate dalla gonna che scivola verso l’alto, o forse meglio dire verso il basso. “Sai, è da stamattina che mi domando se la stoffa del tuo abito sia seta o cotone pettinato..” Sorride, meravigliata ma compiaciuta, perché alle donne piace sapere di essere osservate. “seta. adoro la seta” “anch’io..” Mi racconta di se, del suo lavoro. È un funzionario commerciale in una azienda d’arredamento, tutto il giorno a spiegare ai clienti tessuti, legni, decorazioni e solidità di mobili che sono fatti per durare una vita. La lascio parlare, così che posso guardarla, pagherei non so cosa, per poterle rivedere i seni, mi accontento di scorrere all’infinito la linea delle sue gambe. Le parlo di me, del mio lavoro. Mi chiede se sono sposato, anche se non crede al mio no. Sorseggia il suo Bellini come se lo desiderasse da anni. Sorseggio il mio spumante come se la desiderassi da sempre. I minuti scorrono veloci, come sempre, come ogni volta che vorresti fermare il tempo. Pago io, per abitudine più che per garbo. Usciamo e ci avviciniamo alle nostre auto. Vorrei allungare il tempo all’infinito. Sentire il suo profumo più da vicino. Lei sembra così lontana, così inavvicinabile. “grazie dell’aperitivo, a buon rendere..” “figurati, un piacere, spero di rivederti..” “certo, domani mattina, no?” e sorride. Ridiamo di gusto, in effetti il nostro incontro è un rituale. Se ne va, la osservo risalire sull’auto e faccio altrettanto. Mi viene voglia di piangere. Era lì, ad un passo da me. Potevo toccarla, potevo dirle quanto la desideravo. Invece niente. Mi sento un bamboccio, un ometto di latta. Mi sento me stesso, ogni volta che sono vicino ad una donna. Accendo il motore, la radio e una sigaretta. Altro rito consumato dal tempo. Abbasso il vetro, per lasciare che l’aria fresca si impadronisca della mia mente. “Ma non vai a casa?” la sua voce mi risveglia dallo stato di torpore in cui mi ero andato a cacciare. “si ora vado, stavo solo pensando..” “al mio seno o alle mie gambe?” con aria sorniona e accattivante mi scruta, abbassandosi come a volere entrare dal finestrino. “a come sarebbe bello se potessi averti.” i miei occhi sono già dentro la sua scollatura, la mia mente è già sui suoi capezzoli e la mia eccitazione sale irrequieta. Infilando la testa dentro l’auto mi bacia, io mi sento rapito dal suo profumo, la bacio con passione, cerco la sua lingua, assaporo il gusto delle sue labbra. Sento la sua mano che si posa sulla gamba, poi con audacia la sento afferrare la mia erezione. Sollevo una mano e le imprigiono un seno, sodo, quasi duro, senza smettere un momento di baciarla. Non mi importa che possano vederci, non mi importa di nulla, la voglio, voglio il suo corpo, il suo odore. La sua lingua è un vortice, geme di desiderio, come me. Mi abbassa la cerniera e infila la mano attraverso l’apertura dei pantaloni. Il contatto con la sua mano è come un’esplosione. Continuo a baciarla, strizzo il suo seno, pieno di desiderio e di voglia di lei. Si ferma, lo sguardo eccitato e perso, mi sorride. Fa il giro dell’auto e sale, si siede al mio fianco. Finalmente posso abbracciarla e sentire il suo corpo contro il mio. Mi allontana un poco, mi afferra il pene turgido e lo libera dal tessuto che lo imprigiona. Si abbassa e mi sento scomparire nella sua bocca. Tocco tutto ciò che posso, carne, seta, pizzo. Lei succhia con vigore e con la voglia di farlo. La sua lingua sale e scende, segue il profilo del mio piacere, poi si appropria del mio essere e sento la sua bocca avvolgermi completamente. Continua, senza sosta. Voglio allungare il tempo, godere più a lungo della sua bocca e delle sua labbra. Inutile, troppa è la voglia di lei, troppa è la sua foga. Il mio respiro accelera e non trattengo i gemiti. Lei si accorge del piacere che mi sta salendo e diventa quasi furiosa. Godo, sento il mio succo risalire lungo il mio corpo ed esplodere nella sua bocca. Lei succhia e lecca avida, io godo e mi perdo dentro me stesso. Non smette ed io mi sento prosciugare. Quando solleva la testa, vedo nei suoi occhi la luce del piacere, accesa e viva come pensavo che fosse. Io mi sento svuotato e molle, preso ancora da un orgasmo agognato. “dovevo sdebitarmi.” dice sorridendo, con malizia. “ma adesso sono in debito io.” con altrettanta malizia. “giusto.. adesso tocca a te.” mi sorride e mi carezza. Le infilo la mano sotto la gonna, cerco il bordo della mutandine, piano le infilo due dita sotto l’elastico e quasi le strappo il tessuto dalla pelle. Mi abbasso, baciandole le gambe, la sua pelle è morbida, setosa. Sento di nuovo l’eccitazione salire, lei, complice, si allunga un poco per potermi carezzare la carne affamata. Le allargo le cosce pian piano, come a voler aprire il portone del piacere. Incontro un poco di resistenza, solo un poco, finalmente mi asseconda e le mie mani scendono verso il suo tesoro nascosto. Sento la peluria, morbida e curata, mi eccito all’idea che si scolpisca il pube, scendo verso la sua fessura, ma non la trovo. Le bacio i contorni del pube, con la lingua disegno il profilo della sua peluria castana. Con un piccolo movimento, di scatto, apre le gambe e solleva il bacino. All’improvviso un pene, piccolo ma deciso, si staglia contro il mio viso. “ma cos..” la mia sorpresa è intensa, la mente è ancora eccitata ma la mia sorpresa è troppo forte. “bacialo, succhialo.. Ti prego. fallo” “ma sei un uomo. io non posso. io ” Io niente, sento le sue mani sul mio pene, le sento come se fossero due labbra. Afferro il suo sesso, lo sento turgido e caldo, un profumo strano, sconosciuto. Comincio piano a far scivolare la mia mano lungo quella carne bollente. La sento gemere, la sento afferrarmi la testa, spingermi verso di lei. Vincendo la mia mente, come se volessi cancellarmi, prendo tra le labbra quel suo membro e lo bacio, poi lo succhio e poi lo bacio. Non mi riconosco, ma quel nuovo gioco mi piace e mi attira. Il suo corpo vibra ed il mio anche, il mio desiderio si mescola con il suo, i nostri odori, le nostre menti, i nostri corpi. Mentre continuo a succhiarlo le infilo un dito nell’orifizio nascosto del suo piacere. Non aspettava altro. Si abbandona sul sedile, godendo come me poco prima. Il suo getto è violento, sento la bocca piena di lei, di lui o di cosa sia questo essere sconosciuto. Bevo, ingoio ogni goccia che esce dal suo corpo. Mi sorprendo del piacere che provo, mi sorprendo del sapore nuovo che assaporo. Tutti e due siamo sprofondati nei nostri sedili. È lei la prima a ricomporsi, io seguo il suo esempio, senza fretta, ancora incredulo. Vorrei dire qualche cosa, ma non so cosa. Non trovo le parole. Le trova lei. “come ti senti?” “non lo so, non saprei dire. ma bene, si, bene.” “anch’io, scusa se non ti ho detto nulla, ma sai com’è…” “no, non lo so com’è. avresti dovuto dirmelo” “sei sicuro? Se lo sapevi.. L’avresti fatto ?” “no, credo di no” “ma ti saresti perso qualche cosa.” “forse si, ma.. Io sono un uomo, non sono un.” “Gay? Nemmeno io, io sono donna, mi sento donna, tu eri convinto che io fossi donna! “hai ragione, ma . non lo so, mi sembra tutto così strano..” “lo strano siamo noi..” “in che senso?” “quasi tutti facciamo sesso con il corpo, poco con la mente. noi due, ci siamo scopati di cervello..” “vuoi dire che la nostra mente è andata oltre i nostri corpi?” “voglio dire che abbiamo saputo godere del momento, con tutto, corpo e mente” “si, forse hai ragione..” “lo rifaresti?” “forse… si!! Scende dalla macchina, fa il giro, infila la testa dal finestrino e mi bacia. Io la bacio, con passione, come se fosse normale. Ma forse è normale. “ci rivediamo?” chiedo io “certo. domani mattina, no?” e se ne va, ridendo di me, ridendo di se stessa, ridendo di noi.
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