Un treno, di sera di Columbus Portava mutandine nere che le si insinuavano tra i glutei a mo’ di tanga. I calzoni bianchi aderivano vertiginosamente al bacino e ne mettevano in evidenza le magnificenze: la deliziosa sodezza delle carni e il perfetto solco che divideva i glutei con la precisione di un tratto del Giotto. Più o meno alla metà del solco la cucitura del tessuto presentava una smagliatura e in quel punto il nero delle mutandine risaltava come una minuscola macchia scura. Ma quando ella si chinava in avanti e dava le terga al viaggiatore l’effetto prodotto era tale da tagliare il respiro. Per pochi secondi il tessuto bianco, a causa del movimento del corpo, si dilatava in tutte le sue fibre, le mutandine quasi si incastravano tra i glutei, la parte del sedere che rimaneva scoperta mostrava la sua superficie morbida e levigata. Quando nello scompartimento mi ritrovai seduto davanti a quella mora che aveva due diamanti verdi al posto degli occhi, età attorno ai 27 anni e altezza media, ebbi immediatamente l’istintiva certezza che quella sera d’estate, calda ma non torrida, mi avrebbe riservato delle sorprese. Mai, prima di allora, mi era capitato di constatare come la realtà potesse di gran lunga superare la più fertile delle fantasie e offrire a me, trentenne timido e riservato, un’occasione concreta per sfatare la convinzione che la vita fosse solo un lungo viaggio monotono senza scossoni. Era la terza volta che per prendere qualcosa all’interno della borsa lei si alzava, mi dava le spalle e, protendendo il braccio verso il ripiano dei bagagli, si metteva sulla punta delle scarpe oppure si chinava sul sedile. Una scena che si svolgeva a pochi centimetri dai miei occhi. Lo faceva apposta? Se era così aveva una bella sfrontatezza. L’uomo che l’accompagnava e sedeva al suo fianco, robusto, barbuto e sulla quarantina, mi aveva seriamente redarguito con delle occhiatacce. Per due volte i miei occhi era rimasti ipnotizzati da quel fondo schiena e per due volte, incrociando lo sguardo dell’uomo, avevo provato un forte imbarazzo. Lei, invece, sembrava disinvolta e non capivo se fingesse. Di sicuro non era a disagio perché, rimettendosi a sedere, aveva abbassato gli occhi sui miei pantaloni senza meravigliarsi del gonfiore all’altezza della patta. Dopo un po’ accavallò le gambe e si passò le mani sulle cosce per sistemarsi i pantaloni. Guardai ancora, conquistato da quelle gambe lunghe e affusolate e l’altro mi folgorò di nuovo con occhi carichi di risentimento. Da quando il treno era partito, nell’annottare della stazione di Frontone, non avevo scambiato con i due che poche frasi smozzicate ed è per questo che mi apparve sospetto il momento e il modo in cui l’uomo cercò di coinvolgermi nella conversazione. “Questi viaggi sono una vera barba ma per fortuna c’è lei”. Alludeva alla sua donna che si limitò a guardarlo con un mezzo sorriso. L’uomo insistette, nonostante io non avessi commentato. “Mi dica: non siamo una bella coppia?” Mi fissava con ostinazione come se pretendesse a tutti i costi una risposta. A disagio biascicai. “In effetti…” “Pensi che siamo insieme da oltre un anno e non c’è mai stata una lite” Lei, perplessa, aggrottò le ciglia. La sua presenza, e soprattutto le conturbanti moine, mi tenevano in stato di forte eccitazione. Era la terza volta in poco più di mezz’ora che mi torturava con la pantomina: si alzava, mi sbatteva in faccia il didietro, si risiedeva soddisfatta notando la mia espressione visibilmente turbata. Ero sempre più imbarazzato e poiché l’erezione mi dilatava le mutande con la forza di una molla in espansione, trovai il coraggio di alzarmi di scatto e, raggiunto il corridoio, mi diressi a passo svelto verso la toilette. Mi chiusi la porta alle spalle, allentai la cinta dei pantaloni e scostai la camicia con mani impacciate dalla frenesia. Il respiro accelerato, appoggiai le spalle alla porta e socchiusi appena le palpebre. Feci lentamente scivolare la mano sulla pelle liscia, avanti e indietro, e notai il reticolo di venuzze azzurrognole dilatarsi a ogni sollecitazione. Sentivo che se avessi proseguito un solo istante avrei spruzzato liquido dappertutto. Tolsi la mano e, con una concentrazione di cui mi sorpresi, riuscii prima ad attenuare l’eccitazione poi a domarla quasi del tutto. Mi ricomposi e uscii dalla toilette sperando stupidamente che lei non ci fosse più. Avevo appena imboccato il corridoio che me la trovai davanti. Inveiva contro un uomo, in mezzo al corridoio, vicino a uno scompartimento che non era il nostro. “Lei è un villano!”. L’uomo sorrideva, sprezzante. “Ho solo detto che hai un bel culo. Non sarà la fine del mondo!”. Nello scompartimento, occupato dal molestatore, qualcuno rise forte e fece commenti salaci. L’uomo, galvanizzato dagli incitamenti, le sfiorò la vita con un braccio e lei reagì allontanandolo bruscamente. Pur essendo un po’ titubante, mi avvicinai sforzandomi di apparire sicuro: “Cosa succede?” Lei mi guardò sorpresa; lui mi squadrò con cupa diffidenza. “E tu chi sei?” “Il marito della signora” L’uomo cambiò subito atteggiamento: allargò le braccia, si dichiarò desolato del suo comportamento e tornò nel proprio scompartimento. La vidi sorridere compiaciuta e riconoscente. “Non so davvero come ringraziarti”. Ero così confuso e orgoglioso per averla tratta d’impaccio che fui solo capace di chiedere, a bassa voce: “E il tuo fidanzato?” Facendo spallucce: “Oh, s’è assopito” Assentii e dissi: ” Torno allo scompartimento” Avevo fatto pochi passi quando la sua voce mi fermò. “Senti” Mi voltai di scatto come se avessi udito risuonare un allarme. “Sì?” “Ho paura di fare altri brutti incontri. Mi accompagneresti fino alla toilette?” Ero talmente frastornato che stavo per dire: “Ho capito bene?”. Invece risposi: “Volentieri” La seguii. Nel movimento delle anche le mutandine nere si muovevano in mezzo ai glutei in un modo che mi toglieva il respiro. Mi sembrava sin troppo chiaro: mi aveva invitato con una scusa banale per sedurmi in bagno. Mi esaltò subito l’idea che tra pochi istanti sarei entrato nel solco bagnato del suo sesso e le avrei regalato il “piacere che fa gridare”. Giunta alla toilette, controllò che non vi fossero persone nel corridoio, sospinse guardinga la porta del bagno e vi entrò lasciandola aperta. Restai impietrito a guardarla senza trovare il coraggio di farmi avanti: credevo che certe cose accadessero solo nei film. Mi attirò a sé afferrandomi la camicia e non appena fui dentro feci frettolosamente scattare la serratura. I nostri corpi si ritrovarono subito avvinghiati ed io cercai di fare ciò che avevo sognato dal primo momento in cui l’avevo vista: prenderla dietro. Quando puntai il pene contro il suo sedere, lei assecondò immediatamente i movimenti con il bacino in modo ! tale da sfregarlo contro di me. Frugando ansiosamente con le dita trovai la lampo dei pantaloni nel momento in cui lei si chinò in avanti per offrirmisi appieno. L’indumento scivolò per terra e mi dibattei freneticamente per affondare il pene nella mollezza burrosa delle sue natiche. “Ora basta” disse all’improvviso. Si girò verso di me, mi allontanò e recuperò per terra i pantaloni. Ero troppo eccitato per fermarmi: mi avventai su di lei e le mordicchiai le labbra. Mi respinse ancora, con maggiore decisione e assunse un’aria arcigna: “Se non la smetti urlo”. Dopo avermi fissato con severità per pochi secondi lasciò il WC. Mi ritrovai da solo nella latrina, gonfio di desiderio e di imbarazzo mentre il treno correva nella sera con ritmo monotono… dan.. dan.. dan.. dan Misi una mano sulla maniglia della porta, l’altra attorno al pene. La mano corse su e giù, con lo stesso ritmo del convoglio, dan.. dan. dan.. dan Finché il liquido sprizzò e diversi fiotti sporcarono le pareti. Rientrai nello scompartimento, sudato e turbato. Il fidanzato dormiva, la testa appoggiata allo schienale, cullata dal dondolio del vagone. Mentre lei se ne stava lì, tranquilla e disinvolta, ardevo di rabbia. Mi aveva ingannato con le sue arti femminili, attirato nella toilette e poi, al momento magico, brutalmente respinto. Perché si prendeva gioco di me? E perché rischiava tanto con un fidanzato burbero, arcigno e geloso? Proprio in quel momento l’uomo si svegliò, si stropicciò a lungo gli occhi e si guardò attorno sospettoso. “Roberta, dove sei andata?” “Perché me lo chiedi?” “Perché prima non c’eri” “Devo forse chiedere il permesso per andare a far pipì?” “Non è il caso che tu te la prenda” Con fare stizzito, accavallò le gambe, mise le mani conserte e voltò la testa verso il finestrino. “Non me la prendo. Ma vorrei che la piantassi con la solita gelosia” Dopo un po’ l’uomo mi guardò con espressione ironica: “Poco fa è uscito anche lei. Evidentemente solo il sottoscritto riesce ad assopirsi sul treno..” Sapeva forse del nostro incontro in bagno e attendeva che mi scoprissi? Non vedevo l’ora di scendere ad Afrasecca, alla stazione del mio paese, e di lasciarli ai loro battibecchi. Per superare il momento di tensione lei prese il giornale e si concentrò sui cruciverba. Si sforzava di trovare la soluzione, vergava, tornava a concentrarsi. Trascorse così parecchi parecchi minuti poi, stanca, ripiegò il giornale e me lo porse con tono cordiale. “Vuol leggere?”. Davanti al fidanzato mi dava del lei, in sua assenza del tu: diabolica e civettuola. A dispetto del risentimento che nutrivo per lei non riuscii a essere scortese e interpretai il suo gesto come il tentativo di farsi perdonare. Sfogliai distrattamente il quotidiano e nel momento in cui l’occhio mi cadde sullo spazio delle parole crociate trasecolai. A penna, sul margine superiore della pagina, era scritto:: “Poco fa ne avevo una voglia matta ma ho avuto paura…..ho tuttora le mutandine bagnate….ma prima di scendere chissà….” Richiusi di scatto il giornale e glielo restituii in modo sgarbato. Il fidanzato mi guardò più stupito che seccato. Poiché lei continuava a stuzzicarmi e a tenermi al guinzaglio, volevo farle capire che non avrei più abboccato. Quasi mi avesse letto nei pensieri, portò la mano sulla bocca per nascondere un sorriso. Il suo atteggiamento irridente mi mandò il sangue alla testa. Uscii nuovamente nel corridoio e cercai di scacciare l’irritazione fumando una sigaretta. Il treno si fermò a Pratola e scesero molti passeggeri. Gli scompartimenti divennero sempre più vuoti, con le tendine dei finestrini aperti frustate dal vento e le luci che, nello spazio di un secondo, si abbassavano e riprendevano vigore. Mentre passeggiavo pensieroso in fondo al corridoio e fissavo il buio oltre il finestrino, li vidi uscire dallo scompartimento e dirigersi dall’altra parte del vagone, verso l’uscita. In effetti da pochi minuti il treno aveva cominciato a rallentare: stavano per scendere a Dodi. Percorsero il corridoio lui davanti, lei dietro e vedendola ancheggiare alla sua maniera l’immagine delle mutandine nere quasi incastrate tra i glutei esplose nel mio cervello come un flash accecante. La donna irresistibile e crudele, che mi aveva illuso e respinto, spariva per sempre in una notte d’estate, senza neppure lanciarmi un sorriso di complicità oppure un cenno d’addio, come la brusca interruzione di un film per la pellicola spezzata. Dopo una breve pausa il convoglio ripartì in un silenzio rotto solo dai lievi scricchiolii dei vagoni. Rientrai nello scompartimento vuoto, mi tolsi le scarpe e mi distesi sul sedile per riposare. Chiusi gli occhi e mi abbandonai al placido dondolio del convoglio sentendo il sonno arrivare da lontano come l’azione lenta e inesorabile di un sedativo. Ma a impedirmi di prender sonno fu un rumore rapido e secco alle mie spalle. Subito mi scossi mettendomi a sedere di scatto e, prima di capacitarmi di ciò che vedevo, passarono alcuni secondi. Lei stava immobile davanti allo scompartimento e mi fissava sorridendo timidamente. Come era possibile? E dov’era il fidanzato? Ero talmente sorpreso che sentii un caldo violento sulle guance e farfugliai: “Credevo che fossi scesa..” Sollevò gli occhi verso la rete portabagagli: “Si vede che non sei un buon osservatore..” All’ultima fermata la sua piccola borsa era rimasta sul ripiano ma io non me ne ero accorto. Spiai ansiosamente alle sue spalle, timoroso di veder apparire una faccia barbuta. “E il tuo fidanzato?” Scosse lentamente la testa, sorridendo. “Non è il mio fidanzato” Ero allibito. “Vuoi dire che…” “Paolo è un collega d’ufficio. Mi corteggia da un anno e non si rassegna all’idea di non potermi avere. E così con gli estranei mi spaccia per fidanzata”. “Ma si comporta come se avesse dei diritti su di te!” “E’ solo molto geloso. Però è un uomo gentile. ” “E’ sceso a Tordino?” “Sì. Lavoriamo fuori, a Castellaneta, e tutti i venerdì torniamo nelle rispettive città di residenza con questo treno”. “E lui si comporta sempre così?” Ci fu un compiacimento tutto femminile nelle sue parole: “Solo quando un uomo mi guarda con interesse”. Mentre io rimasi seduto lei avanzò verso di me: “Sei ancora arrabbiato? Spinse lievemente l’addome verso il mio volto deliziandomi con l’odore della sua pelle. Le cosce erano lisce e ben tornite, il punto vita proporzionato alla corporatura. Dovetti fare uno sforzo disumano per vietare alle mie mani di staccarsi dalla pelle del sedile e palpare avidamente quelle carni sode e invitanti. Era una donna ambigua e sfuggente il fresco ricordo dell’umiliazione patita in bagno fu un monito a non abboccare ad altre provocazioni. Mi alzai e, polemicamente, cambiai posto. Invece di arrabbiarsi scoccò un’occhiata alla lampo dei miei pantaloni che si era nuovamente gonfiata e subito dopo uscì dallo scompartimento annunciando: “Vado in bagno”. Il prezzo da pagare per mantenere il mio atteggiamento di maschio ferito era enorme: ero quasi sopraffatto dalle progressive ondate di eccitazione. Tirai fuori il pene, gonfio da scoppiare, e gemendo sommessamente cercai sollievo nel moto liberatorio della mano. Sotto le stimolazioni il tronco duro e caldo si dilatò allo spasimo e mi resi conto che stavo per iniziare la discesa che conduceva al piacere. Fu allora che la sentii tornare dal bagno e i suoi passi farsi sempre più vicini. Il timore di essere sorpreso a masturbarmi vinse l’onda della libido e precipitosamente lo rinfoderai nelle mutande. Rientrò e come al solito si sedette accanto al finestrino, gettando su di me uno strano sguardo che non riuscii a interpretare. Mi avvidi che stringeva qualcosa in una mano e che la osservava con aria interrogativa non sapendo cosa farne. Quando fu sicura di avere la mia incuriosita attenzione appoggiò il pugno della mano sinistra nel posto vuoto accanto a sé e, aprendo lentamente le dita, ne fece uscire un indumento nero. In un baleno persi il controllo. Accecato dalla foga, le afferrai i pantaloni e lei, assecondandomi immediatamente, si allentò fulmineamente la lampo e sollevò il bacino di quel tanto che fu sufficiente a consentirmi di sfilarglieli. Le aprii con forza le gambe insinuandovi la! testa quindi, con labbra frementi di desiderio frugai nel suo pube con trasporto animalesco. Lei mi incitò urlandomi parole oscene, poi sentii la rapida sequenza dei getti di sperma inumidirmi mutande e pantaloni. Quando, dopo un quarto d’ora, scese a Postiglioni, prima di imboccare il sottopassaggio si voltò e sollevò il braccio: stringeva le mutandine nella mano.
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