Mi angoscia l’idea di trascorrere il natale attorno alla tavola imbandita di sorrisetti e apprezzamenti forzati e convenzionali, già mi aspetto tutti i parenti dimenticati che riemergono il giorno del tortellino con i loro come sei cresciuta, come ti sei fatta bella come stai e come sei messa. Quest’anno rinuncio e me ne torno a Vienna, mi prendo la scusa della nostalgia. Mi ospita Luca, fotografo riformatosi in un qualche istituto correttivo genovese, nel suo nuovo appartamento in centro. Quando l’avevo lasciato, una anno prima, era un essere afflitto da inconfessate manie di persecuzione delle quali imprigionava sulla pellicola i persecutori. Viveva in una affollatissima wohngemeinshaft in periferia, dormiva su un tappeto e non mangiava quasi niente perchè tutto il guadagno di qualche scatto di cronaca bastava appena per rimboccare con gli acidi le varie vasche da sviluppo fai da te. A qualcuno devono essere piaciute le sue fotografie, lo hanno mandato a esporre a New York e tra poco arriverà fino in Cina: Il nuovo appartamento è freddo ma grande: alle pareti quel che resta della tappezzeria strappata con troppa fretta e sul pavimento tutto quel che può servire, dal materasso alla televisione, alla gabbia di un animale di cui ho conosciuto solo il rumoreggiare notturno, ma che non ho visto mai. E’ la vigilia, dopo una decina di ore di treno suono al campanello di casa. Ho giusto il tempo di lasciare le valige in un angolo, fare pipi e andare al festino di natale in casa dell’ amico di un amico di un amico. Conosco e riconosco subito lo stile Caritas del divano cencioso, rattoppato e vistosamente rammendato con filo di lana spesso a disegnare un lugubre sorriso cicatrizzato, invano nascosto da un mucchio di cuscini dalle fogge più diverse (il manifesto viennese in fatto di arredamento pretende l’assoluta eterogeneità degli elementi). Concludono l’arredamento un tappeto di palma (credo), un tavolinetto decorato con cenere, erba secca dal balcone e un tot di bottiglie di birra. Un paio di materassi rivestiti e ripiegati a metà assecondano la posa di quattro asburfreak a tinte brune nell’angolo dello sciallo. Perfettamente a mio agio nel ruolo di chi è assolutamente fuori luogo, mi faccio offrire una birra e neppure mi presento, mi metto a ballare senza posa con Kruder e Dorfmeister . Fine del disco, fine delle forze mi faccio largo sul divano e mi bevo un’ altra birra. Vengo presa dal raptus d’ansia di comunicazione di una ragazza bionda e alticcia e lascio che mi parli senza capirne un cazzo, mentre uno dei freak che credevo dormisse inizia a baciarmordermileccarmilcolloelpetto. Per un po’ fingo indifferenza, ma non si può e finisco la festa stesa con lui sul tappeto abrasivo. Vuole che lo accompagni a casa e io lo seguo: mentre il taxi ci porta sempre più in periferia, il mio amico mi parla di recenti problemi economici e con il mio tedesco afferro che ancora vive con la madre, ma percepisco e non capisco un tono preoccupato. La corsa finisce di fronte ad uno squallidissimo edificio fuligginoso, paghiamo il taxi quasi senza smettere di baciarci. Non c’è l’ascensore e già quasi vengo alla sosta del terzo pianerottolo, ma lui prende le chiavi dalla tasca e apre la porta. Tutto buio; per non far rumore ci togliamo le scarpe ancora prima di entrare. Aspetto mentre va a prendere qualcosa da bere in cucina. Apre la porta e ne viene fuori, insieme a una gelida luce al neon, l’urlo isterico e incazzato della madre. Un momento di panico e poi il silenzio e io che già penso di scappare prima che sia troppo tardi. Non penso abbastanza in fretta e un donnone enorme e decadente in una vaporosa camicia da notte rosa tutta pizzi e merletti mi guarda dritto negli occhi senza dire nulla, non mi saluta e neppure dà il tempo a suo figlio di presentarmi. La canuta signora mi disprezza e non mi concede una parola, mi dà le spalle e se ne va lasciandomi di pietra. Si muove piano e trascina le pattine sformate sul pavimento in legno lasciando una scia di tetri scricchiolii; scompare per una decina di secondi dietro una porta a vetro, poi la vedo riapparire con un fardello in braccio. Non ci voglio credere, assisto alla scena come se fossi davanti alla Tv, eppure la pazza vecchiona stringe a se un Gesù bambino verniciato a chiazze,a grandezza naturale con mangiatoia annessa, e, mentre lo allontana dalla camera del figlio, preservandolo dall’assistere a ignobili indecenze, lamentosamente predica parole di conforto e si bacia il putto e se lo accarezza. Io pure, per quella notte, un pezzo di legno.
Aggiungi ai Preferiti