Quella sera, faceva caldo, ormai era quasi estate. Ero uscita presto, avevo appuntamento in un locale di periferia, non molto frequentato, con il mio ex ragazzo. Non eravamo stati assieme che per qualche mese, ma lui, aveva espresso il desiderio di vedermi. Tutto era andato per il meglio, fino al momento in cui, il tentativo di riconquistarmi era diventato insistente ed esagerato. Ricordo ancora quel faccino infantile, le sue labbra che tentavano in vano di avvicinarsi alle mie… avevo da poco compiuto diciotto anni e lui, di un anno piu’ piccolo, mi faceva nascere in me una grande tenerezza ma.. null’altro. Decisi dunque di accompagnarlo a casa e di congedarmi. Non avevo però desiderio di rientrare. Quella sera, era stata angosciante. Iniziai a pensare che, forse, sarebbe stato meglio non uscire, non vederlo… non dargli modo di illudersi. Eppure, pensavo di essere stata chiara nell’esporre le mie intenzioni ma, invece, aveva voluto fare di testa sua… e rovinare la tranquillità di quella serata. Passeggiavo per il lungo viale, ormai erano le undici passate. I passi lenti, si perdevano sull’asfalto, mentre i pensieri s’affollavano nella mente. Le voci che giungevano dai locali che costeggiavano, erano sommesse ed il rombo dei motori sulla strada si mischiava ai pensieri. Mi sentivo in colpa. Non riuscivo a comprenderne il motivo ma.. il comportamento di Dario mi aveva infastidita. Eh si, mi aveva fatto tenerezza ma, in fondo.. era il tentativo disperato di un bimbo. Ed io, ormai, lo vedevo realmente così. Un bambino. Il tempo scorreva, silenzioso, impercettibile. Ed i passi si disperdevano tra quelle strade familiari, che accompagnavano i miei pensieri quella notte. Erano molti ma, non li ricordo. Il marciapiede costeggiava ora un grande edificio per allargarsi poi nell’introdurre l’ingresso di una banca. Lì, vicino alle porte scorrevoli, sostava una guardia notturna. Stava fumando una sigaretta. Passai avanti ma, non ricordo come, d’un tratto, mi ritrovai davanti a lui, a scambiare due parole. Era una notte lunga, mi disse, che non voleva passare e, di certo, l’afa non facilitava l’attesa. Non parlavo molto, più che altro, sorridevo alle sue affermazioni. Mi sentivo a disagio. Un bip provenne dall’interno dell’edificio. Doveva andare a controllare e mi invitò a seguirlo. Entrammo e le porte scorrevoli si aprirono. Ci recammo in un ufficio, sul fondo della stanza. Mi disse che avrebbe fatto in fretta e mi fece cenno di accomodarmi, su una sedia, li vicino. Non era un ufficio molto grande. Vi era una scrivania, alcuni monitor per le telecamere ed altri apparecchi per controllare la sicurezza dell’edificio. Passarono pochi istanti, sollevò lo sguardo, mi osservò. Mi porse il pacchetto di sigarette, chiedendomi se ne desideravo una. Accettai. Il disagio stava crescendo ed il silenzio che regnava, non faceva che aumentarlo. Passarono ancora alcuni istanti. Poi, venne a sedersi accanto a me. Non disse nulla e l’agitazione in me, cresceva. Volevo andarmene. Ma non sapevo come fare. Spensi la sigaretta, in un posacenere appoggiato sulla scrivania. Mentre lui, ancora, mi osservava. Piccole gocce di sudore, impelavano la mia pelle. Faceva caldo, nonostante vi fosse un ventilatore acceso, poco distante dalla scrivania. Mi chiese se avevo caldo. Non risposi. La situazione iniziava a spaventarmi. Continuavo a rimproverarmi di essere entrata, di aver accettato di sedermi, di aver acceso la sigaretta… di non essermene andata. Alzai lo sguardo, imbarazzata. Mi stava osservando in silenzio, con uno sguardo che poco mi convinceva. Si alzò e fece per avvicinarsi. Avevo paura. Venne alle mie spalle e, poggiandomi le mani sulle braccia, lasciate nude dal vestito estivo… si chinò, sussurrandomi all’orecchio: “Non sarebbe meglio se ti spogliassi?” Rimasi bloccata, in silenzio, senza nemmeno fiatare. Volevo scappare ma non riuscivo a muovermi. Avvicinò le labbra al mio collo e prese a bacialo. Ero terrorizzata. Sentii le labbra socchiudersi e la lingua scorrere sul mio collo, leccandolo. L’ufficio aveva le finestre e si affacciava sull’entrata. Così, tenendomi per le braccia, mi fece alzare. Mi rifiutai. Ero immobile e volevo fuggire. Ridacchiò un istante e poi prese a piegarmi le braccia verso la schiena. Non mi mossi. Insistette ma non davo segni di cedimento. Alla fine, però, il dolore divenne tale che, non riuscendo a sopportalo, mi alzai. Allora, mi condusse in un ufficio più piccolo, a fianco di quello in cui eravamo. La mobilia era ancora più ridotta. C’era solo un vecchio tavolo e qualche sedia di legno ed un armadio di metallo, appoggiato ad una parete. Mi fece sedere su una seggiola. E ricominciò a baciarmi, a leccarmi..mentre mi faceva scivolare le spalline del vestito, che finì con l’arrotolarsi in vita, lasciando scoperto il mio seno. Iniziò a torturarlo, a massaggiarlo e i capezzoli, mio malgrado, s’inturgidirono. Mi sussurrò allora: Ahhhh, troietta ti piace allora! Non mi piaceva ma… ormai mi ero arresa. La paura mi bloccava.
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