Lo vidi entrare all’Harry’s Bar, dove mi trovavo seduto a tavolino a consumare un succo di albicocca, in una Venezia triste di pioggia e vento. Era alto e imponente, aveva lo sguardo di chi è abituato a farsi obbedire, indossava un cappotto con il collo di pelo e stivali di cuoio marrone, aveva capelli brizzolati fluenti. Lo guardai rimanendo visibilmente impressionato dalla sua eleganza, dalla sua autorità, dall’aria decisa che emanava, dall’aspetto maschio che aveva ben marcato nei suoi gesti e nei suoi sguardi. I nostri sguardi si incontrarono, mi lanciò un’occhiata che non riuscii a sostenere. Sentii il mio cuore battere forte. Poi vidi che gli si avvicinavano altri uomini con l’aria di seguirlo, forse proteggerlo. Si sedettero tutti a un tavolino non lontano dal mio. Passò un quarto d’ora, in cui non mi decidevo ad andarmene: lo osservavo di frequente e ogni tanto una sua occhiata mi faceva capire che lui si era accorto del mio interesse. D’improvviso lui e i quattro che aveva con sé si alzarono, per uscire mi passarono accanto, e lui mi fece scivolare in mano un biglietto. Sentii per un attimo il contatto con la sua mano calda, e poi lo vidi allontanarsi e uscire. Sul biglietto c’era scritto “stasera alle 22 a Palazzo Xyz”. Rimasi sconvolto, con la bocca che mi si prosciugava dall’emozione, incredulo e quasi in estasi. A casa mi preparai accuratamente per rendere visibili in me (ma senza esagerare) i segni della femminilità, della dolcezza e della disponibilità. Pantaloni neri molto attillati, camicia rosa pure attillata, e una giacca color bianco che avrebbe potuto benissimo essere indossata da una donna. Mi misi un profumo leggero dal gusto dolce. Presi, emozionato, il vaporetto, scesi e imboccai una calle scura che percorsi tutta, e in fondo alla quale c’era un palazzo settecentesco di antica eleganza, dove si notava il secondo piano illuminato. Suonai all’unico campanello, dove stava scritto un nome straniero. Passò più di un minuto, poi mi venne ad aprire un anziano signore con la giacca e la farfalla, mi fece salire e mi aprì la porta di un salone enorme dove, a gruppi di tre-quattro, stavano una quarantina di persone, tutti uomini. Restai immobile per qualche secondo e poi lo vidi avvicinarsi. Era lui, sì, in elegantissimo abbigliamento sportivo, con gli stivali che erano gli stessi di stamattina. Gli feci un debole sorriso, balbettai un buonasera… Mi fece segno di uscire dal salone, mi fece percorrere un lunghissimo corridoio, aprì una porta e mi fece entrare in una stanza. Accese la luce, che era debole, ma abbastanza forte per far notare alcuni attrezzi inconfondibili per i giochi sadomaso. Ebbi un brivido di emozione e di desiderio, mentre le gambe mi si piegavano e il sangue iniziava a irrorare le mie parti sensibili… Richiuse la porta, si tolse la giacca e lentamente mi venne di fronte. Mi guardò in viso con sguardo serio e composto, mi mise una mano sulla testa, che poi fece scendere sulla spalla, il braccio, poi sul seno e sul fianco, dove restò un attimo. Poi appoggiò l’altra sua mano sull’altro mio fianco e mi attirò a sé. Uscì con una voce sicura e calda e mi chiese “come ti chiami?”. Mi parlò a meno di dieci centimetri dal mio viso, e sentii così l’odore della sua bocca, il suo alito caldo che sapeva di fumo, un odore amaro, maschio. “Andrea”, gli risposi con un filo di voce tremante. “Andrea, inginocchiati qui davanti a me”, disse. Piegai le gambe lentamente e mi misi davanti a lui in ginocchio, come mi aveva ordinato. Restammo così fermi per molto tempo, sicuramente tre-quattro minuti, nel silenzio di quella stanza in cui echeggiavano lontano le voci del salone. Il pavimento era di granito duro. Tenevo il capo rivolto verso il basso, verso i suoi bei stivali color marrone. Sentivo che ero in suo completo potere, e che per lui ero pronto a qualsiasi cosa, anche se mi chiedevo che cosa stesse “dietro” a quello strano ambiente, e in che strano giro, dall’aria molto segreta, mi fossi cacciato. Con una voce bassa e calma mi disse: “Andrea, ho bisogno di te”. Restai muto e aspettai che continuasse. “Mi sarai fedele?”, proseguì, “mi obbedirai?”. Feci sì col capo, e poi emisi un debole “Sì”. Passò ancora un lungo minuto, e infine parlò di nuovo. “Ti piacciono i miei stivali?”. “Sì”, risposi. “Sì, mio Padrone devi rispondermi”, mi disse. “Sì, mio Padrone”, mi corressi subito. Iniziò ad accarezzarmi la testa e disse: “Sono un po’ impolverati i miei stivali, vedi?… Li ho addosso da stamattina, ricordi?… Hanno bisogno di essere lucidati”. Restai fermo senza rispondere. “Leccameli, Andrea”. Deglutii dall’emozione, il cuore mi batteva impazzito. “Leccami gli stivali, su”. Mi feci un po’ indietro restando inginocchiato, mi abbassai e mi appoggiai con le mani per terra. Mi trovai a un centimetro dalla punta del suo stivale sinistro, ne avvertii l’odore. Tirai fuori la lingua e leccai per un breve attimo, poi di nuovo leccai, stavolta più a lungo. Quindi cominciai con ampie leccate, dappertutto, con cui gli inumidii prima lo stivale sinistro e poi il destro. Per dieci minuti continuai così, a leccargli gli stivali, ero come in estasi, la mia eccitazione saliva sempre più. “Portami uno sgabello”, ordinò. Mi guardai intorno, ne vidi uno a circa tre metri, feci per alzarmi, ma lui mi bloccò spingendomi giù la spalla. “Devi andarci in ginocchio”, ordinò. “Mi scusi, mio Padrone”, riuscii a dire. Percorsi in ginocchio la distanza, afferrai lo sgabello e tornai da lui. Glielo misi davanti. Lui appoggiò lo stivale destro sullo sgabello e mi ordinò “Leccami la suola”. Ebbi un momento di esitazione, la cosa non mi piaceva tanto. Lui se ne accorse e alzò la voce per la prima volta “Lecca!”. Obbedii, e per cinque minuti gli lucidai la suola destra, poi fu la volta della sinistra. Alla fine tolse il piede dallo sgabello e andò a mettersi a sedere su una poltrona, entra io ero rimasto inginocchiato fermo con la testa china. Non osavo muovermi. Mi lasciò lì per un tempo lungo, sicuramente dieci minuti. Poi sentii la sua voce ordinarmi “alzati, vieni qua.” Mi alzai e andai davanti a lui, mi fermai. Lui mi guardava stando seduto in poltrona. “Girati”, ordinò. Lo feci, offrendogli le spalle. “Calati i pantaloni”, ordinò. Adagio feci calare i miei pantaloni neri attillati fin sotto le natiche, esibendo le mie mutande nere piccole e aderenti. Dopo altri tre-quattro minuti sentii che mi disse “vieni qua”, mi prese per una mano e mi attirò deciso a pancia in giù sulle sue ginocchia, mi puntellai con le mani al pavimento e mi assestai in quella posizione. Sentii le sue mani afferrare la parte inferiore delle mie mutande e farle risalire a mo’ di perizoma, infilandole nella fessura tra i miei glutei, in modo che le natiche fossero scoperte il più possibile. “Sei mai stato sculacciato da adulto, Andrea?” “No, mio Padrone.” “Bene, ora lo sarai. Che ne pensi?” “Io… non lo so, mio Padrone.” “Non lo sai eh?”. Appoggiò dolcemente la mano destra alle mie natiche e cominciò a massaggiarle. “Non vuoi dirmi che cosa ne pensi?” insistette. “Io… non lo so… sono molto emozionato, mio Padrone”. “Bene… molto bene. Devi tenere i muscoli completamente rilassati, sai?” “Sì, okay” gi risposi. Mi mollò una prima sculacciata piano. “Sì cosa?” “Perdoni… sì mio Padrone” Insistette sculacciandomi piano, poi più forte, e poi più forte ancora, mentre quel rumore acuto e inconfondibile si diffondeva per la stanza. E quindi iniziò sul serio, sculacciandomi forte, ogni due secondi circa, la natica destra; poi cominciò con la sinistra, in tutto dieci sculacciate forti per parte. Sentivo le natiche scaldarsi per il contatto forte di quella mano grande e calda. La mia eccitazione saliva. Insistette alternando destra e sinistra, e mi diede altre dieci sculacciate forti per ogni natica. Poi si fermò e me le massaggiò. “Ti piace essere sculacciato, Andrea?” “Sì, mio Padrone”. E avrei voluto aggiungere da impazzire, ma mi trattenni. Mi afferrò le mutande e me le abbassò del tutto. Poi riprese, forte e deciso. Cominciai a gemere di dolore. Andò avanti per molto tempo, me ne dette molte, moltissime. Sentivo bruciare… alla fine dissi “la prego, basta, mio Padrone”. Lui insistette, continuò senza attenuare la forza dei colpi, il bruciore si fece insopportabile.. iniziai a piangere. Lui insistette ancora, finché non mi sentì singhiozzare per bene. Allora riprese a massaggiarmi le natiche ottenendo l’effetto di torturare il mio bruciore. Pian piano i mio pianto si calmò. Mi ordinò di alzarmi. Vai a prendere lo specchio in quell’armadio, mi disse. Obbedii e glielo portai. “Voglio che tu veda com’è bello il tuo sedere, Andrea”. Mi porse lo specchio e mi guardai le natiche martoriate, color rosso fuoco e percorse da piccoli segni. Le guardai a lungo, non senza compiacimento; mi sentivo nella parte, sentivo di avere fatto un salto importante verso quel ruolo di sottomesso che da sempre sapevo di amare. “Sei stato abbastanza bravo, meriti un premio”, mi disse. “Inginocchiati, frocio”. Lo feci. Mi col quella parola forte che aveva usato, mi piacque. Si alzò in piedi davanti a me, si sbottonò i pantaloni, si abbassò i boxer e vidi così il suo cazzo, che era in semierezione, stupendo, una mazza forte e grande, di colore scuro, percorsa da vene. “Non meriti ancora di toccarlo, e tanto meno di farmi i pompini, ma riceverai il suo miele e dopo ti acconsentirò di pulirlo. Resta qui davanti a me con la bocca aperta”. Obbedii. Iniziò a masturbarsi. Sentivo l’odore del pene che avevo davanti, che si gonfiava e si allungava e che in un paio di minuti raggiunse l’erezione completa. Il mio Padrone continuò a masturbarsi tenendo il suo stupendo membro a pochi centimetri dalla mia bocca, mentre io, tenendo la bocca aperta pronta, annusavo e guardavo il glande scoperto e lucido con la voglia pazza di leccarlo. A un certo momento sentii il mio Padrone emettere un rantolo e un attimo dopo uno schizzo caldo entrarmi in bocca; poi un secondo, un terzo, un quarto, un quinto. Ricevevo tutto gemendo anch’io di piacere, sentivo la mia bocca riempirsi, sentivo quel sapore amaro, lo gustavo con gioia. Poi il mio Padrone mi sbatté in bocca il suo cazzo, e io cominciai a succhiare, a bere, folle di libidine e di devozione. Lo ripulii, bevvi fino all’ultima goccia. Alla fine lo sfilò, si rivestì e mi ordinò di rivestirmi. Mi diede in mano una grande busta e mi parlò serio. “Devi consegnarla fra le 10 e le 11 di domattina al signor Xyz, digli che è da parte del Signor Janos”; e mi dette l’indirizzo dove dovevo recarmi, ordinandomi di impararlo a memoria e di non scriverlo mai da nessuna parte. Mi disse anche: “Fermati solo il tempo necessario nel posto dove ti mando, non indugiare, parla il meno possibile, non dare confidenza ad alcuno”. “Mio Padrone”, ebbi il coraggio di domandare balbettando, “è… è lei il Signor Janos?” “Sì”, rispose calmo guardandomi negli occhi. Uscii dalla casa ebbro e ansioso di obbedire l’indomani al mio Padrone: al Signor Janos… Janos, sì… sapevo il suo nome.
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