Alle 10 ero puntuale, con la busta in un borsello a tracolla, nel luogo indicatomi dal Signor Janos, dopo una notte trascorsa a ripensare alle cose fatte insieme, pensieri che mi avevano procurato un’eccitazione difficile da spegnere, per cui mi ero masturbato a lungo, raggiungendo due orgasmi fortissimi. Ero un po’ teso davanti a quella casa, situata in un campiello tranquillo, lontano dai circuiti turistici e dove in quel momento non si aggiravano se non poche anziane signore di ritorno dalla spesa. Mi decisi e suonai al campanello dove stava scritto il nome Xyz, che mi era stato indicato. Passarono due minuti senza che giungesse risposta, e cominciai ad agitarmi un po’. Dovevo tornare più tardi? Il Signor Janos aveva detto “fra le 10 e le 11”: era forse troppo presto? Suonai una seconda volta, e attesi. Passati tre minuti mi decisi ad andarmene, per tornare più tardi. Ero su punto di scendere le scale quando sentii muovere il catenaccio della porta, che lentamente si aprì. “Chi è?” mi disse una voce maschile dall’interno. Risposi: “vengo da parte del Signor Janos”. La porta si aprì e intravidi due occhi grandi e un po’ assonnati, sotto una testa di folti capelli spettinati. “Entra”, mi disse. “Ma io… devo solo consegnare questa busta”, feci. “Entra”, insistette. Lo osservai: era uno splendido ragazzo sui venticinque anni, in accappatoio celeste, che si muoveva pigramente con l’aria di chi si era svegliato da poco. Lo seguii fino in cucina. “Io…” ripresi timidamente, ma lui mi fermò. “Zitto”, disse, “dammi il tempo di svegliarmi”. E prese dal frigorifero un grande cartone di succo di frutta, se lo versò e bevve. Si sedette e cominciò a guardarmi con aria insistente quasi di sfida. “Quanti anni hai?”, mi fece “Ventotto”, risposi. “Allora, cos’hai da dirmi?”, disse poi. “Nulla”, risposi, “devo consegnare questa da parte del Signor Janos”. “Ah sì eh?”, insistette guardandomi con sufficienza, “e che cosa contiene?”. “Questo non lo so proprio”, dissi io. “E allora perché te ne occupi?”, mi chiese. Arrossii e abbassai gli occhi, poi gli feci “Senti, io credo che tu sappia cosa riguarda; non mettermi in difficoltà, ti prego”. Lui rise beffardo, poi mi disse: “ma lo sai che sei caruccia? Vieni più vicino”. “Ti prego, io non…” “Vieni qua, ti dico”, uscì con voce perentoria. Mi avvicinai “Lasciami andare, ti prego”, gli dissi. “No”, fece sorridendo; poi, nel muoversi, fece sì che l’accappatoio si aprisse, e così intravvidi il suo cazzo, lungo una quindicina di centimetri a riposo, e grosso come pochi ne avevo visti, sentii le gambe tremare di emozione, guardai un po’ troppo a lungo quella meraviglia, sentii lui che rideva. “Ti piace eh?”, mi fece. Feci forza a me stesso, lasciai la busta sul tavolo, mi voltai e mi incamminai verso l’uscita. Sentii che il ragazzo si alzava. Giunto alla porta aprii ma me lo sentii alle spalle. Richiuse la porta, mi cinse la vita e cominciò a leccarmi il collo. Cercai di resistere. “Noo”, dissi, “non posso”. Ma il ragazzo era forte e carico di voglia. Mi girò con forza verso di lui, cominciammo a lottare, mi fece cadere a terra e mi fu addosso. Standomi sopra mi guardava da vicino sorridendo sicuro, sconfiggendo le mie resistenze, bloccandomi i movimenti, sentivo il suo odore ancora caldo di letto. Mi girò su me stesso mettendomi a pancia in giù, e col suo corpo fu sopra alla mia schiena, al mio culo, al mio collo, mentre mi dimenavo per terra gemendo. Quando capì di avermi stancato abbastanza, si rizzò sulle ginocchia, afferrò i bordo dei miei pantaloni e me li calò di colpo. Sotto avevo un perizoma di pizzo. “Che frocio”, mi disse ridacchiando, “l’avevo capito subito, sai?”. Con un colpo mi strappò via il perizoma, poi avvicinò la punta del cazzo al mio culo e spinse e, senza trovare grandi resistenze, penetrò lentamente facendomelo sentire centimetro dopo centimetro, fino in fondo. Poi lo ritrasse lentamente e me lo ricacciò dentro di colpo. Urlai. Lui cominciò a stantuffare su e giù tenendomi per i fianchi. Mi inculava con affondi in profondità… lentamente, senza fermarsi. Io mi ero abbandonato, avevo allargato le natiche al massimo e me lo godevo come una puttana. Lo sentivo caldo e duro, affondare nella mia carne morbida e aperta come burro. Cominciai a gemere di piacere, da troia, sempre più, sempre più forte, mentre anche lui accelerava e aumentava la forza, urlandomi parole oscene e insulti. Alla fine mi sborrò nel culo, sentii il liquido caldo su su nelle viscere. Poi lo sfilò, si alzò e andò in bagno. Io stavo alzandomi per ricompormi quando vidi davanti a me due stival! i. Tremai, Era lui, Janos, il mio Padrone. Alzai lo sguardo e vidi la sua faccia severa. Mi guardava stando a braccia conserte, con occhi freddi e duri che promettevano una punizione certa. Avevo contravvenuto al suo ordine, mi aveva detto di fermarmi solo il tempo necessario, di non indugiare, di non dare confidenza ad alcuno. E io mi ero comportato da troia, mi ero lasciato inculare da uno mai visto prima. Gli dissi: “Padrone io ho provato a dirgli che…”. Lui si chinò verso di me e mi sputò in faccia. “Zitto frocio”, mi rispose. Restai fermo e gli sussurrai: “perdono, Padrone”. La sua saliva colava lungo il mio viso, mentre un altro liquido colava fuori dal buchetto che mi ero appena lasciato usare, da puttana quale ero. “Sarai punito per questo”, fece Janos. Intanto il ragazzo era uscito dal bagno ed era andato a vestirsi. “Arrivederci signor Janos”, disse; “arrivederci Piero”, disse Janos. Piero uscì, e rimanemmo soli io e Janos. Capii che erano d’accordo, che ero stato messo alla prova e avevo fallito miseramente. “In ginocchio su quel divano, con la faccia verso il muro!”, ordinò Janos. Obbedii prontamente. Mi venne alle spalle e mi sfiorò il sedere con una cosa fredda e sottile, che mi chiesi che cos’era. Dopo un attimo la sentii forte e tagliente sulle natiche, e urlai. Passarono dieci secondi e un altro colpo mi morse la carne facendomi urlare ancora. Continuò calmo e spietato, fino a trenta colpi e oltre. Subii la mia punizione piangendo in silenzio per il bruciore lancinante, sentendomi schiavo e sottomesso più che mai, con il mio culo nudo e proteso verso il meritato castigo. Alla fine il Padrone mi mise davanti al viso lo strumento col quale mi aveva appena punito: era un frustino da cavallo. Me lo fece baciare a lungo. Sentii suonare il campanello. Il Padrone andò a aprire e salutò cordialmente due persone. Poi, mentre ero ancora inginocchiato sul divano con il viso verso il muro, lo sentii entrare nella stanza e dirmi: “ehi puttanella, questi sono due campioni di ping pong, hanno portato le loro racchette e vogliono allenarsi, tu non hai nulla in contrario vero?”. Capii che la punizione non era finita. Risposi debolmente “no, Padrone”, sentii che i due ragazzi si toglievano le giacche e ridacchiavano. Si misero dietro di me e ognuno di loro cominciò a dedicarsi a una delle mie natiche. Mi sculacciarono con colpi secchi e decisi, centrando le mie natiche nella parte centrale, quella più carnosa, che il frustino aveva risparmiato dedicandosi alla parte più alta. Insistettero colpendo sempre sulla stessa zona, che bruciava da impazzire. Il Padrone mi ordinò di contare i loro colpi, ed io lo feci obbediente, con la voce sempre più rotta e tremante. Ne contai quaranta: quaranta racchettate dure che i due affiatati giocatori regalarono all’unisono alle mie due natiche. Alla fine mi contorcevo, e portai le mani alle natiche per massaggiarle, ma il mio Padrone me lo impedì comandandomi di toglierle e tenerle lontane. Poi mi disse “ti farò alcune foto, frocio, perché tu possa ricordare la punizione di oggi”, e fotografò più volte il mio culo, che doveva essere rosso fuoco. Poi disse ai due ragazzi: “potete divertirvi, ora. Fate i vostri comodi”. Uno dei due mi fece mettere di traverso sul divano, mi venne alle spalle e mi penetrò con forza, poi iniziò a incularmi brutalmente. Il secondo venne dall’altra parte, me lo sbatté fino in gola e prese a scoparmi tenendomi ferma la testa. In meno di cinque minuti vennero entrambi, una nella mia bocca e l’altro nel mio culo, lasciandomi sfinito sul divano, a pancia in su, con le natiche ancora doloranti, e dolorante anche dentro per la sodomizzazione violentissima appena ricevuta. Uscirono, e restai solo col mio Padrone, che si sedette su una poltrona. D’istinto mi alzai, mi inginocchiai ai suoi piedi, gli tolsi le scarpe e i calzini, glieli massaggiai, glieli leccai a lungo chiedendogli perdono. “Fai un altro errore e sarai fuori dal gioco”, mi disse. Sapeva bene che la punizione vera, per me, sarebbe stata quella di ripudiarmi, di privarmi di lui.
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