Passarono tre giorni in cui soffrii chiedendomi con ansia perché il Padrone non mi richiamasse. Poi ricevetti finalmente una telefonata. Una voce maschile anomina mi disse di trovarmi nel palazzo settecentesco alle 18.30 del giorno stesso, ovvero due ore dopo. Mi preparai con cura, lavai e lubrificai la mia parte intima, mi profumai, vestii sobrio ma attillato come sempre, e misi un leggerissimo rimmel sugli occhi. In farmacia avevo chiesto, non senza imbarazzo e improvvisando spiegazioni strane, pomate che dessero sollievo e cura alle mie natiche martoriate, che infatti si erano pian piano riprese ma mostravano ancora alcuni segni e mi bruciavano a star seduto in certe posizioni. Sapevo che la probabilità di ricevere altre sculacciate e frustate era assai alta, e quindi volevo abituarmi sia a subirle che a curarne gli effetti. Quei bruciori mi davano una profonda gioia: mi ricordavano che ero sottomesso, che avevo un padrone, che il mio corpo era nelle mani di un uomo che lo usava e che lo faceva usare a suo piacimento. Vivevo in una eccitazione costante, e anche il mio lavoro e le altre attività cui mi dedicavo normalmente ne subivano le conseguenze. Alle 18.30 suonai al campanello, mi aprì l’uomo anziano come la volta precedente, ma stavolta mi disse semplicemente: “il Signor Janos ti aspetta nella stanza della disciplina”. Mi colpì quel tu, che significava sia la mia condizione di sottomesso, sia il fatto che tale condizione era di dominio pubblico. Mi colpì anche il nome, “stanza della disciplina”: anche quello dunque era un elemento di dominio pubblico, aveva un ruolo funzionale all’organizzazione. Da solo ripercorsi il corridoio e, con qualche esitazione, ritrovai la stanza. Bussai, sentii dire “avanti”, era la voce di Janos. Entrai lentamente, con fare timido, chiusi la porta e dissi “buonasera, mio Padrone”. Non rispose al saluto, ma mi disse semplicemente “spogliati completamente”. Mi tolsi gli aviti di dosso e li appoggiai a una sedia, tenni il perizoma e mi avvicinai a lui. “Togli anche il perizoma”, ordinò. Me lo sfilai lentamente e rimasi in piedi a due metri dal Padrone, con gli occhi rivolti verso il basso. “Voltati”, mi ordinò. Lo feci, e offrii alla sua vista le mie natiche, tenendole rilassate e morbide, assumendo una posizione eretta che le rendeva sporgenti e disponibili. Volevo apparire invitante e desiderabile al mio Padrone, volevo sedurlo, ma sapevo che non dovevo valicare i limiti che sono propri di un servo. Sentii che si alzava. Mi si avvicinò, sentii le sue mani grandi e calde che accarezzavano le mie natiche morbide. Gemetti con un mmmhhh di piacere, lo desideravo da impazzire, avrei voluto essere penetrato da lui, percorso su e giù con dolcezza, con violenza, per un tempo infinito. Continuò a accarezzarmi le natiche per tre-quattro minuti che mi mandarono nell’estasi più completa, poi con il dito medio mi toccò l’entrata del buchetto, spinse e penetrò per qualche centimetro. Mi uscì di bocca un aaahhh ma lui uscì subito, lasciandomi nella mia voglia pazza, frustrando e umiliando il mio desiderio. Mi venne accanto: con il braccio sinistro mi cinse i fianchi, nella mano destra teneva cinque fotografie, che ritraevano il mio culo, rosso e segnato in modo impressionante. Erano le foto dell’ultima volta, erano venute bene, guardarle mi eccitava e mi dava un certo orgoglio. Le osservai a lungo dalla prima all’ultima, poi di nuovo le ripassai in esame. Janos disse: “voglio che tu ne scelga una e che la porti sempre con te”. Risposi “grazie, Padrone”, e scelsi quella che mostrava in modo più chiaro i segni della mia punizione. Poi la misi subito dentro al mio borsello. Poi il Padrone andò a prendere un pacchetto e me lo porse. “Stavolta non devi sbagliare, frocetto”, mi disse dolcemente. “consegnalo al molo n. 15 alle otto precise di domani sera.” “A chi, Padrone?”, domandai. “A lui”, rispose, e mi fece vedere una foto. “Lui sarà vestito esattamente così. Devi imparare a memoria il suo volto, perché la foto non te la posso lasciare” . Feci una faccia preoccupata, “Padrone io…”, balbettai. “Tu ce la farai”, rispose “ce la devi fare, capito? Non deludermi, è la tua seconda occasione e se sbagli non ce ne sono altre”. Guardavo e riguardavo quella foto cercando di tenere impressa l’immagine. “Quest’uomo,” aggiunse il Padrone, “sa che domani sera alle otto una donna gli consegnerà questo pacchetto” “Una donna, mio Padrone?” “Sì… tu!” “Io? Ma…” “Dovrai vestirti da donna, Andrea. E farlo anche in modo convincente. Quest’uomo non deve accorgersi di avere a che fare con un travestito. Dovrai essere molto bravo… Del resto, beh.. non dirmi che la cosa non ti attira.” “Ma… come mi vestirò?” “A questo abbiamo provveduto noi. Andrai nella stanza qui accanto, dove c’è un intero guardaroba.” Restai a bocca aperta, la cosa aveva un aspetto piacevole. Tornai a guardare la foto. Era un uomo sui cinquant’anni con la barba grigia incolta e un cappello nero in testa. “Un’ultima cosa”, disse Janos, “non solo dovrai fingerti donna, dovrai fingerti la sua donna. Mi capisci? Dovrà sembrare la scena di un saluto al molo, tu che saluti il marinaio che parte… Lui lo sa naturalmente… magari ne approfitterà per qualche bacio, al massimo qualche toccatina”. Sorrise. Sospirai preoccupato… “Che c’è? Non ti piace come tipo?”, chiese. “Non è quello, mio Padrone…”, risposi, “è che… non so, sono così confuso…”. “Andrà benissimo. E adesso sfilami le scarpe e i calzini e leccami i piedi in silenzio per dieci minuti, poi rivestiti, torna a guardare la foto l’ultima volta e quindi vai di là a scegliere i vestiti. Potrai scegliere gli abiti che vuoi. Divertente, no?” Mi inginocchiai davanti al mio Padrone e, sempre completamente nudo, gli sfilai lentamente le scarpe e i calzini e gli leccai i piedi dappertutto, lentamente e dolcemente, mentre il tempo per me aveva smesso di scorrere e io avrei continuato per sempre. Fu lui a dirmi “basta così, ti aspetto qui dopodomani a mezzogiorno. Non fallire il tuo compito”. Mi alzai. “Prima però…”, disse. Lo guardai aspettando che terminasse la frase. “Prima avrai la tua razione di disciplina, Andrea. Non rivestirti quindi. Non sarò io, io assisterò soltanto… Verrà qualcuno che già conosci”. E schiacciò un pulsante. Dopo un po’ si senti bussare, ed entrò il bellissimo ragazzo di ieri, Piero, oggi ancor più bello in camicia bianchissima, giacca e cravatta scure. Salutò il Signor Janos e quindi si tolse con calma la giacca e l’appoggiò a una sedia, guardandomi con un sorriso di sfida. Si rimboccò la camicia e poi andò dal Signor Janos che gli disse “questa”, e gli porse una paletta con i buchi, un paddle, del tipo flessibile. Un oggetto che conoscevo solo per averlo visto in certi film e in certi siti web. Fabio mi si avvicinò e mi toccò il culo, facendomi vibrare di desiderio. La mia mente riandò a quel cazzo grande e duro che ieri mi aveva usato e mi aveva goduto dentro. Mi condusse a una sedia fatta apposta per starvi appoggiati tenendo il sedere ben sporgente. Mi ci fece sistemare. Mi sentivo offerto e aperto, per via della posizione che costringeva le natiche ad aprirsi per bene. Ma quel giorno non sarei stato penetrato… Piero fece passare qualche secondo e poi mi schiaffeggiò la prima volta col paddle. Continuò in modo leggero, alternando una natica all’altra. Era un supplizio piacevolissimo, e la mia eccitazione lo dimostrava. Mi dette venti colpi leggeri, di qua e di là, mentre io stavo immobile a godermeli. Poi aumentò la forza piano piano, e le sculacciate si fecero dure, ritmate a tempo regolare. Il paddle flessibile mi avvolgeva le natiche con la sua forte ondata di caldo vibrante. Sentivo la pelle dei glutei che bruciava. Piero andò avanti aumentando ancora e poi si fermò qualche secondo e continuò quindi con colpi meno frequenti e leggeri, che mi accarezzavano le natiche e di nuovo mi davano piacere, nonostante infierissero sulla mia pelle già infuocata. “Bene, può bastare”, disse Janos. Piero si rimise la giacca e uscì; io mi rivestii provando dolore al contatto degli abiti sulle parti appena sculacciate, poi salutai dicendo “buonasera, mio Padrone”. Lui disse “ringraziami per la punizione che hai ricevuto”. Io abbassai gli occhi e dissi “grazie, mio Padrone”. “E ora vai”, concluse. Andai nella stanza a fianco ed esaminai i vestiti. Ce ne saranno stati una sessantina, tutti da donna. Non resistetti e scelsi quelli che mi parvero i più sexy: una gonna nera di tessuto sottilissimo, una maglietta rosa, una pelliccia di lince, e poi mutande di pizzo, reggiseno nero che avrei sapientemente imbottito (non era la prima volta che mi capitava questa situazione), calze con reggicalze. A casa presi appuntamento dal mio estetista per domattina, per un ripasso accurato alla depilazione. Dovevo farcela, passare a tutti i costi la seconda occasione che mi veniva data dal Padrone.
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