Aveva subito desiderato incontrare studenti e docenti, ordinari, associati, ricercatori, volontari, personale amministrativo e ausiliario, tutti, in un’affollata riunione, nell’Aula Magna. Aveva chiesto collaborazione, e auspicava una critica serrata ma propositiva e costruttiva. Lui, come per il passato, non avrebbe disertato una sola lezione e conservava gli orari di colloquio con gli studenti. “Desidero brindare con tutti l’inizio di questo che spero poter definire un nuovo modo di presiedere la Facoltà, e per una maggiore confidenza vorrei incontrarvi in gruppi non troppo numerosi. Comincerò domani con gli studenti del mio corso, della mia materia, in questa stessa aula, il giorno successivo con gli altri studenti, in seguito con lo staff amministrativo, per ultimare con docenti e ricercatori, Buon lavoro e buono studio!” Conoscendo l’uomo, lo applaudirono calorosamente. Il decano degli ordinari, sondò, con discrezione, le preferenze di Cesare Savio, il Preside, in vista del dono che i colleghi avevano deciso di consegnargli, in occasione del brindisi al quale erano invitati unitamente alle famiglie. Il neo Preside gli sorrise cordialmente, lo ringraziò, e disse che sarebbe stato sincero, come sempre. “Carissimo amico, brindare con voi é già un dono inestimabile, ma visto che lo volete ancora impreziosire, non mi opporrò ipocritamente. Mi sarebbe molto caro avere una cartella con la firma di tutti gli intervenuti. Non potrei desiderare di meglio. E prego tutti di contentarmi in tal senso, se é un dono che volete consegnarmi.” La cartella di pelle rossa, bordata in oro, e con dedica a Cesare Savio, Preside della Facoltà di Lettere, gli fu consegnata con un brevissimo indirizzo, che ebbe una risposta ancora più stringata. Poi si formò una lunga fila per strette di mano e, da parte dei più intimi, affettuosi abbracci. “Congratulazioni e auguri, Signor Preside.” “Grazie, ma la prego di ricordarmi il suo nome.” “Sono Diana Diso, ricercatrice, collaboro col professor Molino.” “E’ da molto con noi?” “Ho cominciato quest’anno.” “Allora, congratulazioni e auguri anche a lei. Ecco Molino. Ciao Augusto, non mi avevi detto che ti circondi di ricercatrici così giovani e graziose.” Molino gli strinse la mano. “Caro Preside, quando s’invecchia bisogna suggere la gioventù dagli altri, ed io devo profittare di quest’ultimo anno per farne una certa scorta. Diana, oltre ad essere brava, testimonia, come la dea, l’aspetto femminile del principio divino: è luce, ma non é cacciatrice. Diciamo che, piuttosto, é lei ad essere ricercata. Peccato che io non abbia più frecce all’arco.” Savi si rivolse a Diana. “Mi venga a trovare, se il professor Molino non la tiene confinata nella sua riserva e le concede il permesso.” Gli intervenuti erano suddivisi in piccoli gruppi dove, soprattutto, si parlava di problemi universitari e di politica. I più giovani, quasi tutti ricercatori, erano in un angolo, guardavano in giro e parlottavano tra loro. “Ecco la divina Diana.” “Non puoi negare che é uno schianto.” “Quando arriva lei al mare, la bonaccia, s’afflosciano le vele. E si rizza il bompresso.” Ridevano di gusto, sommessamente. “Hai visto la maglietta che portava ieri?” “No, che aveva di speciale?” “A parte il contenuto, c’era scritto dulcis in fundo.” “Quella é fissata con le frasi latine.” “Anche greche.” “Non per niente docet in questa facoltà. E non dimentichiamo che docere vuol dire anche mostrare!” “Io gliene devo regalare un paio, ma premetto che di latino ne so veramente poco.” “Che ci scriveresti?” “Su una, ci scriverei coito ergo sum.” “Sull’altra?” “Ci devo pensare.” “E quando gliela daresti?” “L’inviterei in camera caricatis.” Giorgio Lolli, si finse disgustato. “Siete grevi, ragazzi.” “Senti chi parla, quello che voleva tatuarle su una chiappa consummatum ovest.” “Tu che dici, é raccomandata? Io credo di si, altrimenti quando superava il concorso.” “Ma che raccomandazione! Con quel culo!” “Zitti, eccola.” Diana si avvicinò sorridendo. “Salve, come mai appartati in un angoletto?” “Per sparlare dei cattivi.” “Anche di me?” “E mica sei cattiva, Dia’, tu sei bona.” “Piantatela!” “Diana, che t’ha detto Cesare?” “Di stare lontana da voi.” “Forse ha paura che ti sciupiamo.” “Non credo, perché non si sgualcisce nulla.” “Anzi, si stira.” “Non siete neppure spiritosi.” “Diana, il boss ti ha invitato nel naos?” “Certo.” “Ci andrai?” “Appena possibile. Ma voi siete matti, ragazzi.” Giorgio, chiamato Diabolic per il suo aspetto, era quello che la puntava con maggior insistenza. “E tu privilegi un savio!” “Mi ricredo, siete diabolicamente spiritosi.” “Per certe cose, si deve fare assegnamento sull’aiuto di Lucifero.” Diana si segnò. “Vade retro!” “Magari, Diana.” La segretaria le aveva comunicato che il signor Preside l’avrebbe ricevuta alle tredici e trenta. Cinque minuti prima dell’ora stabilita, Diana, in un semplice ed elegante tailleur avana, entrò in segreteria e sedette, in attesa di essere introdotta alla presenza di Cesare, come scherzavano i giovani colleghi. L’attesa fu molto breve. Il Preside era dietro la sua imponente scrivania, ingombra di carte. Si alzò e le tese la mano. “Ha fatto bene a venire a trovarmi, cara Diana -mi permetto di chiamarla confidenzialmente così, abusando del fatto che per età potrei esserle padre- perché ho bisogno di conoscere il pensiero dei giovani ricercatori, primo passo nella carriera accademica, che sono materialmente e per generazione più vicini agli allievi di quanto possa io o gli altri barbogi.” Diana sorrise. “Signor Preside, non per adulazione, ma se fossi sua figlia sarei nata prima della sua adolescenza. Per quanto si riferisce al pensiero dei giovani ricercatori, bisogna separare le idee positive dalle eventuali mormorazioni velleitarie, dettate da insuccessi spesso meritati, anche se non si possono negare avanzamenti professionali piovuti dal cielo grazie a nepotismi, imposizioni politiche, od altro. Sarò lieta di riferirle le nostre considerazioni costruttive e suscettibili di possibili realizzazioni.” Estrasse dalla capace borsa marrone due libri, di non molte pagine. “Mi sono permessa portarle due mie pubblicazioni, che la prego di accettare, pur sapendo che non avrà neppure il tempo di sfogliarle.” Gli porse i volumi. Il Preside li prese e lesse i titoli. “Questo mi riguarda personalmente, Aut Caesar aut nihil, e spero che non mi si accomuni a Cesare Borgia, al quale si attribuisce l’affermazione che per raggiungere il potere ogni mezzo é lecito. Su quest’altro concordo pienamente con Plinio, Nulla dies sine linea, e tutti dovrebbero attuarlo, che non trascorra giorno senza aver fatto, scritto o appreso qualcosa.” Aprì i libri, guardò Diana. “La prego, almeno il suo autografo. Le prometto che li leggerò, e sarò un critico molto severo, ostentando tutta la mia vis esaminatoria. Come mai titoli in latino?” Diana riprese i volumi, aprì le copertine e scrisse qualcosa con la penna levata dalla borsa, li restituì al Preside. “Il Latino é la mia materia e la mia idea fissa.” Cesare lesse quanto Diana aveva scritto. “Grazie, non é per modestia, ma non merito tanto. Conserverò questi volumi nella mia biblioteca personale perché sono sicuro che lei farà molta strada. Stia vicina al professor Molino, c’é molto da imparare da lui, é un valente cultore della materia.” “Sono lusingata per come il professor Molino mi tratta, e cerco di apprendere il più possibile, lui é l’autore al quale mi riferisco il più delle volte. Certo che gli starò vicino, é nel mio interesse culturale e professionale.” “Cara Diana, mi telefoni, perché desidero invitarla a trascorrere un week end nella nostra casetta di Guadagnolo, tra il verde dei Prenestini, poco lungi dal Santuario della Mentorella. Mia moglie ed io saremo lieti di ospitarla, e anche Nora, mia figlia. Se vuole, conduca con sé il suo fidanzato.” “Questo non é possibile, signor Preside.” “E’ molto occupato?” “No, é solo che non esiste.” “Come può essere… una ragazza come lei… Bene, grazie per essere venuta, e mi telefoni domani, a questa stessa ora.” La salutò cordialmente, e l’accompagnò alla porta. ^^^ La giornata era splendida, malgrado fosse la fine di novembre, e il cielo limpido. Faceva abbastanza freddo. La piccola utilitaria era ferma in Piazza Santa Maria degli Angeli, Diana, al bar, sorbiva un cappuccino ben caldo. L’antica Preneste, la Civitas Praenestina dei secoli successivi, le era sempre piaciuta, e vi aveva condotto anche delle ricerche, sul Tempio della Fortuna Primigenia. Il Preside aveva spiegato come raggiungere facilmente quella che chiamava la sua casetta. Poco prima del piccolo paese, subito dopo la stradina per il Santuario, a sinistra, c’era un cancello sostenuto da due pilastri in mattoni scuri, su uno dei quali era affissa una lastra di travertino con la scritta Beata Solitudo. Il cancello era quasi sempre aperto. Un vialetto con basse siepi l’avrebbe condotta, dopo alcuni metri, allo spiazzo dinanzi l’edificio, dov’era la tettoia sotto la quale poteva parcheggiare l’auto. In mezz’ora vi sarebbe giunta comodamente. Mancava poco alle undici. Nell’auto, fiori per la signora, deliziosi cioccolatini per la ragazza, una riproduzione della statua criselefantina di Artemide Lafria per il Preside. Fu accolta con molta cordialità. Giulia Savio era una bella donna, sui trentacinque anni, molto curata nella persona, alquanto ricercata nel parlare, e s’appoggiava al marito con aria di possesso e di sfida. Così la vide Diana. Nora era simpaticissima, molto alta per i suoi poco più di dieci anni e, come disse nel ringraziarla, golosissima. Lo sport, comunque, specie le partite a tennis col padre, le poche volte che poteva, pensava a farle smaltire le calorie superflue. Il Preside disse che erano tutto il suo tesoro, quelle due donne, e si dichiarò orgoglioso del rendimento scolastico della figlia. “Non dimentico mai d’essere un professore.” Entrarono nella bella e calda villa -altro che casetta- e Nora accompagnò Diana nella sua camera, mentre dalla cucina veniva uno stuzzicante buon odore. Quando tornò nell’ampio locale, che aveva funzioni di ingresso e pranzo, Giulia la ringraziò per i magnifici fiori, che intanto aveva disposto in un scintillante vaso di cristallo. “Mio marito l’attende nello studio, speriamo che non voglia parlare di scuola anche oggi.” Diana bussò leggermente, entrò in un grande ambiente, arredato in stile Rinascimento, con un monumentale caminetto di pietra nel quale crepitava un grosso ciocco. “Venga, venga, Diana. Questa statuina é bellissima, ben fatta, e delle stesse preziose materie dell’originale, oro e avorio. Deve esserle costata una fortuna. Non avrebbe dovuto disturbarsi tanto. La considero un gentile, anzi affettuoso, memento, un myosotis. La statua della dea di cui lei porta il nome, per rammentare l’oro dei suoi capelli e l’avorio della sua pelle. Lei sa farsi ricordare, ma non ha bisogno di statue o d’altro, per farlo. Come é andato il suo viaggio da Roma a qui? Ha trovato subito la strada giusta?” “Tutto a posto, signor Preside. Del resto già conoscevo Palestrina ed anche Capranica e la Mentorella. E’ un posto delizioso, serenamente solitario, ed io oggi sono venuta a turbarne l’intimità.” “Ad allietarla, cara, ad allietarla. Le riesce difficile chiamarmi Cesare?” Diana lo guardò fisso, senza rispondere. Giunse il festoso richiamo di Nora. “Fra due minuti a tavola!” “Andiamo, Diana, spero che gradirà la nostra cucina casalinga, semplice e genuina.” “E’ la mia preferita, grazie.” Intorno al grosso tavolo rotondo, Cesare sedette tra Giulia e Diana, di fronte a Nora. Franceschina, la rubiconda cameriera, sprizzante salute e giovialità da tutti i pori, iniziò a servire. “Giulia” -disse Cesare- “ho pregato Diana di chiamarci per nome, per non creare fittizie distanze. Credo tu sia d’accordo.” “Non vedo perché non dovrei esserlo, caro, non é questo il privilegio che intendo monopolizzare, e sono certa che non debba preoccuparmi di nulla, dato il posto che occupo nella tua vita.” Si rivolse a Diana “Lieta per la sua presenza, Diana. Nora guardò il padre. “Papà, anch’io posso chiamarla Diana?” Diana le sorrise. “Certo, e se mi darai del tu ne sarò felice. Non mi farai sentire troppo vecchia.” Il pranzo fu ottimo, e Giulia ricevé il plauso di tutti come dovutole e atteso. Poggiò la sua mano su quella di Cesare. “Io so bene cosa fa piacere a mio marito, e lo accontento in tutto, precedendo i suoi desideri. Sono certa di non fargli mancare nulla. Vero,caro?” Il Preside annuì sorridendo. La baldanza di quella donna irritava Diana. Una sicurezza ostentata, associata a un atteggiamento di sfida, come a significare che quell’uomo era unicamente suo e nessuno avrebbe potuto insidiarle l’esclusiva. Diana la guardò con uno strano sorriso sulle labbra. Andarono nella veranda riscaldata, a prendere il caffè. Nora disse che voleva vedere la televisione, e si allontanò. ^^^ Gli incontri tra Cesare Savio e Diana Diso si fecero sempre più frequenti, fino a divenire quotidiani. L’indaffarato Preside trovava sempre tempo per fare quattro chiacchiere con la giovane ricercatrice, divenuta una delle persone che più spesso consultava e ascoltava. Diana sostituiva in quasi tutte le lezioni il vecchio Molino, che preferiva dedicarsi ai suoi studi e alle sue pubblicazioni. Dopo un certo mormorio iniziale, accompagnato da non tanto sommesse allusioni che attribuivano la rapida affermazione di Diana alla pelosa dimestichezza col Preside abbarbagliato dalla callipigiosità della ragazza, la giovane e avvenente docente andava sempre più acquistando la stima degli studenti, sorpresi dalla sua preparazione, capacità didattica e amichevole disponibilità. Per tutti un sorriso, un chiarimento, una parola d’incoraggiamento. Studenti che potevano essere anche meno giovani di lei, per i quali, in ogni caso, era Artemide Belculo, per non parlar del resto, aggiungevano. Verso le ragazze, Diana, era ancora più cordiale, addirittura affettuosa, e si rivolgeva a loro col tu, chiedendo, a sua volta, di essere trattata con la stessa confidenza. Questo le costava un enorme lavoro, che andava aggravandosi perché Molino era largo di manica nell’accogliere le richieste di tesi da parte dei laureandi. Richieste che rifilava normalmente a Diana. Le visite in casa Savio erano assidue, e Giulia, sempre cortese e distaccata, montava regolarmente di sentinella, ora mostrando di leggere ed ora sferruzzando, quando Cesare e Diana andavano nello studio a parlare di problemi universitari. Per la giovane era divenuto una specie di incubo, oppressivo come l’ombra di Banco. Quella donna le era odiosa, doveva colpirla in qualche modo, doveva demolirne la sicumera. ^^^ Entrò nella Segreteria della Presidenza, fresca e luminosa come sempre, andò alla porta di Cesare ed entrò, senza attendere risposta. La segretaria le aveva fatto cenno che il Preside era libero. “Salve, Diana, qual buon vento? Non ha lezione oggi, vero? Si accomodi.” “Sono venuta per una proposta un po’ monella. Domani, sabato, e domenica, c’é un convegno a Firenze, al quale lei non intende partecipare.” “Allora?” “Sabato e domenica vorrei andare a sciare al Terminillo. Perché non viene anche lei?” “A Giulia non piace la neve.” “Ecco la monelleria. Dica a Giulia che deve andare necessariamente a Firenze, anche per accompagnare il Ministro e il Rettore, e il gioco é fatto.” “Si, ma quando mi vede in tenuta di sci?” “Non la potrà vedere, perché partirà vestito come se effettivamente dovesse andare al convegno.” “Invece vado a sciare in abito scuro.” “Invece, al Terminillo, indosserà quanto é possibile noleggiare. Tenute perfette, in confezioni di plastica che ne garantiscono l’igiene.” “Non sono un abile sciatore.” “Ottima ragione per prendere qualche lezione.” “E se cado e mi rompo una gamba?” “Preside, coi se e coi ma non si conclude nulla.” “Quando vorrebbe partire?” “Nel pomeriggio.” “Con la sua utilitaria?” “Col fuori strada di mio fratello.” “Si troverà posto in Albergo?” “Ho prenotato due camere a mio nome.” “Lei non mi lascia alternativa, a pena di essere profondamente scortese.” “Allora? Questa volta sono io a chiederglielo.” “Alea jacta est. Sia per il Terminillo.” “Da qui alle tre del pomeriggio?” “Perché ho altra scelta?” “No.” “Lo sapevo. Va bene, alle tre. E… forse e meglio che telefoni alla segreteria del Convegno per dire che la considerino presente ad ogni effetto.” “Imbrogliona.” “Previdente. Arrivederci, sarò qui puntuale. Avverta la sua segretaria che ha deciso di andare a Firenze e che io l’accompagnerò, date alcune relazioni che interessano la mia materia.” Nella sua camera d’Albergo, al Terminillo, Cesare trovò quanto gli serviva per sciare, della sua misura, tutto nuovissimo, ancora nelle confezioni originali. Diana, che aveva guidato con molta perizia, acquisita, a suo dire, sulla Sila, era scesa subito, alla ricerca di un telefono pubblico. Mise un fazzoletto sul microfono e chiamò l’abitazione di Cesare, a Giulia che venne a rispondere, chiese, con voce contraffatta, di parlare col Preside. La donna le rispose che il Preside era andato ad un convegno, a Firenze. “Scusi, l’avevo dimenticato. E’ vero, l’aveva detto, il Preside, che ci sarebbe andato. Con la Diso.” “Con chi?.. Pronto… Pronto…” Diana riagganciò. Tornò in Albergo, andò al banco del portiere. “Per favore, vuol scrivere su un vostro biglietto intestato il numero della camera del professor Savio?” Il portiere le consegnò quanto aveva chiesto. Tornò nella sua camera, si cambiò, fece la doccia, indossò il costume sportivo, si truccò leggermente, scese nella hall. Fuori era buio, cominciava a nevicare, piccoli fiocchi, molto fitti, portati qua e là dal vento che andava aumentando e che formavano piccoli turbini intorno ai lampioni accesi. Dopo un quarto d’ora, circa, Cesare la raggiunse. Indossava l’abito col quale era partito, molto elegante, classico, quasi austero. Andò a sedere a fianco di Diana, sul divano del bar. “Ho visto che nevicava, non credo che dovremo uscire a quest’ora. E’ già buio, e s’avvicina l’ora di cena. Più tardi chiamerò casa, lascio passare il tempo necessario per raggiungere Firenze e sistemarmi in albergo. Mi sento a disagio, perché non é mio costume complicare le cose semplici, dire delle fandonie.” “Pentito, Preside? Se vuole prendiamo l’auto e torniamo a Roma o, se preferisce, la porto a Firenze.” “Nessun pentimento, cara, solo un po’ seccato…” “Per essere con me?” “Non mi attribuisca quello che non penso. Come può credere che sia infastidito per essere qui, con lei. E’ il sotterfugio che in un certo senso mi irrita, anche se comprendo che per certe cose bisogna sempre pagare un prezzo.” “Quali cose?” “Tutto sommato, lei stessa, ricorda, ha detto che mi avrebbe fatto una proposta un po’ monella. Questa, dunque, é una monelleria che faccio. Una marachella.” “Marachella, forse, è il termine semanticamente più adatto. In ebraico, marragel, é l’esploratore. Questa potremmo considerarla una esplorazione.” “In che senso?” “Esplorazione, ricognizione attenta e meditata di qualcosa sconosciuta. Nel nostro caso, di un aspetto della vita, gelosamente intimo, mai vissuto.” “Forse é come dice lei.” “Che ne dice di un aperitivo, in attesa della cena?” “Buona idea, siamo in montagna e bisogna bere. Lei cosa gradisce?” “Poiché siamo in montagna, una grappa.” “Benissimo, affidiamoci al forte, e speriamo che non ci vada alla testa.” “A volte, Preside, credo che un po’ d’euforia non faccia male.” “Est modus in rebus, direbbe lei. O, meglio, dice Orazio.” “E’ vero, ma si devono ben valutare le rebus, per stabilirne i confini. Credo che sia possibile porre limite ad una azione, ma mi riesce difficile ipotizzare limiti per un sentimento spontaneo e del tutto naturale.” “Sono considerazioni che ci porterebbero lontano, che potremmo, forse, fare nella grigia severità di un’aula, ma che mal s’addicono al luogo, al tempo, alla ragazza.” “Allora, grappa?” Cesare chiamò il cameriere e gli ordinò le due grappe. “Sa, Diana, che mi ha parlato pochissimo di lei?” “Non c’é molto da sapere. Nata a Lecce, genitori insegnanti di lettere al liceo locale, due fratelli medici, a Roma, vacanze al mare, a San Cataldo, e in montagna a Camigliatello, Università a Roma, cresciuta con la fissa per il latino, laureata con la votazione che lei conosce, vincitrice del concorso per ricercatrice, ambiziosa, aspirante alla carriera accademica. Single per non so bene quale ragione. Aridità, misantropia. Chissà.” “Io non la definirei arida o misantropa. Lei é una gran bella figliola, simpatica, socievole, e forse ci sono decine di giovani che sarebbero lieti di riscuotere la sua attenzione. Solo che non ha trovata la persona giusta.” “O la persona giusta non si é accorta di me.” “Ma é giusta?” Erano arrivati i grappini. Cesare le raccontò di sé, delle sue ricerche sulla storia moderna, delle sue pubblicazioni, anche delle sue ambizioni. Sembrò dimenticare di avere una famiglia. “Non mi dice nulla della sua bella famiglia, Cesare.” “Nora é una bambina deliziosa, buona, sensibile, dotata di un’intelligenza vivida, che favorisce vari interessi che lei coltiva con metodo. Credo che sia anche un modo per vivere un suo mondo spirituale e culturale. E’ attratta dalle religioni, dalla filosofia. Ha una maturità superiore alla sua età. Scherzando, ma non tanto, dice che la prima media le va stretta. Ma questo lo diceva anche delle elementari. Vorrebbe fare la giornalista, la scrittrice. Altre volte si disegna un ruolo del tutto speciale, essere consolatrice delle genti.” Sorseggiò la grappa, con un lieve sorriso sulle labbra, lo sguardo distratto, vagante nel vuoto. “Non mi ha detto nulla di Giulia.” “E’ mia moglie da dodici anni, non posso che parlarne bene.” “Se non ha nulla in contrario, salirei a cambiarmi, non mi piace venire a cena vestita da sciatrice, anche perché il riscaldamento é molto generoso.” “Faccia pure. Berrò un altro grappino e sfoglierò una rivista. Ma non mi lasci troppo solo, anche perché non vorrei che qualcuno volesse attaccare bottone.” “Pochissimi minuti.” Quando riapparve, Diana indossava una elegante gonna di leggera lana plissettata, blu elettrico, e una blusa, pure di lana che sembrava esserle stata applicata con lo spray. Un foulard, dello stesso colore della gonna e della borsetta, era poggiato sulla spalla, con studiata noncuranza. Un sapiente trucco rendeva ancor più incantevole il bellissimo volto. Quando fu vicina al tavolo, Cesare si alzò. Le prese la mano e la guardò ammirato.”Diana relega nell’ombra Venere. Diana, la cui perfezione della bellezza, l’armonia e la grazia delle forme, non sarebbe riuscito a rappresentare neppure Prassitele in tutta la loro venustà che, come dice Foscolo, un moto, un atto, un vezzo, mandano agli occhi. A lei basta solo l’incedere, per ammaliare, anche perché nulla lascia all’immaginazione.” “Non la facevo così galante, Preside.” “Non puoi contar del Paradiso se non il vedi. Non ricordo chi lo ha detto, ma non mentiva.” “Galante e lirico, grazie.” “Sediamo, Diana.” Tornarono a sedere. “Vedo che ha ripetuto il drink. Non vorrei che i suoi apprezzamenti, peraltro graditi, fossero generati…” “Non sono complimenti, non é vieta galanteria, é obiettiva constatazione di una realtà accertata de visu. In ogni caso, in vino veritas, e la grappa mi ha solo offerto l’ardimento per superare la mia timidezza.” “Lo sa che é molto carino quello che mi dice, Cesare? Grazie.” Gli prese la mano, con tenerezza. “Ho fatto proprio bene a darle ascolto, Diana. Mi sento come quando sono entrato all’Università, da studente, il primo giorno. Solo che allora, come, del resto, anche in seguito, non avevo il sfacciataggine di parlare così.” “Sfacciataggine? Ma é sensibilità, delicatezza.” “E’ delicato dire a una ragazza che ha un corpo più bello di Venere?” “Se lo si dice senza volgarità, é gentile.” “Ma non si può escludere che per la mente gli passino certe idee.” “Sono naturali, e ciò che é naturale non é mai volgare.” “Lei mi tranquillizza, Diana, stavo sentendomi fuori della norma.” “Scusi, Cesare, ma se le dicessi che lei é un bell’uomo e attraente, come in effetti é, mi considererebbe volgare?” “No, la riterrei un po’ bugiarda e sfacciatamente adulatrice.” “Le assicuro che non sono né l’una né l’altra. Constatazione obiettiva, de visu, come dice lei.” “Che ne dice se accantonassimo questo tema?” “Perfettamente d’accordo.” “Anche se non é facile, dati gli argomenti contenuti nella sua blusa.” Lo guardò maliziosamente. “La devo togliere?” Le sorrise, scrollando il capo. “Se continuerà a nevicare, e non smetterà, non credo che domani potremo sciare. Lei che pensa, Diana?” “E’ possibile, e mi spiace averla confinata qui, in un albergo.” “No, é piacevolissimo, una cosa diversa dal solito, comincio a provarci gusto.” “E cosa si farà se nevicherà, domani?” “Faremo delle corse nella neve, andremo a rintanarci in qualche bottega, possibilmente strana, compreremo cose inutili, berremo forte, ci racconteremo barzellette.” “Ottima prospettiva, meglio che sciare.” “Vedo che qualcuno s’avvia alla cena, io direi di andarci. M’é venuta fame. La grappa é stato un ottimo aperitivo.” Andarono al ristorante, si fecero assegnare un tavolo un po’ in disparte, non lontano dalla pista da ballo, dove, in sordina, un’orchestrina suonava canzoni melodiche sussurrate da un occhialuto e dinoccolato cantante. Cena di montagna, robusta ed energetica, innaffiata con vino generoso. Al termine, i camerieri sparecchiarono sollecitamente, le luci si abbassarono, e i camerieri chiesero se i signori desiderassero qualcosa da bere. “Si” -disse Cesare- “champagne, e del migliore.” “Ma Cesare…” “E voglio anche ballare.” “Reazione alla noia?” “Ribellione al perbenismo ipocrita e conformista. Balliamo?” “Con piacere.” “Anzi no, aspettiamo lo champagne.” Arrivava in quel momento. Il sommelier mostrò la bottiglia a Cesare e, al suo cenno d’approvazione, s’apprestò a sturare la bottiglia. Brindarono allegramente. Andarono sulla pista, accolti da un vecchio tango degli anni venti, Plegaria. Cesare avvinse Diana con energia, e ne intese la florida solidità del seno. Lei gli si lasciò guidare docilmente in figure sempre più audaci, seguite con compiacimento dalle persone rimaste sedute ai propri tavoli. Ancora un ballo liscio. Diana sentì la mano dell’uomo carezzarle la schiena, dal collo alla cintola, come a cercare qualcosa. Accostò la bocca all’orecchio di lui. “Ha trovato qualche smagliatura nella blusa?” “No… no… Non sento… come dire…” “Cosa ?” “Scusi… non percepisco l’elastico, l’abbottonatura… non so spiegarmi.” “Di che?” “Del reggiseno.” “Non ci voleva tanto a comprenderlo. Non lo indosso.” Cesare si formò, l’allontanò un po’ da sé, e le guardò il petto. “Come fa a reggersi da sola tutta quella grazia di Dio. Scusi… m’é proprio scappato… scusi.” “Non c’é nulla da scusarsi. Una curiosità comprensibile, e, tutto sommato, un complimento, essendosi riferito alla grazia di Dio che mi é stata donata dalla generosità della natura. Fino a questo momento, le mie tette sono autoreggenti. Si tengono su da sole, saldamente sorrette da una muscolatura ancora valida, che poco concede alla legge di gravità.” Cesare aveva ripreso a ballare, cingendo la vita della ragazza. “Mai vista cose simili, Diana.” “Infatti, non le ha viste, le ha solo immaginate, forse anche un po’ sentite.” “Solide e aguzze.” “Paura di pungersi?” “Perché timore?” “Perché in certe cose lei é proprio imbranato, come un’educanda del secolo scorso.” “La definizione é un po’ forte, ma risponde al vero.” “Torniamo al tavolo, Preside, vuole?” “Infastidita?” “Divertita.” Lui l’accompagnò al tavolo, chiese scusa se doveva allontanarsi per qualche minuto. Andò nell’atrio, vicino alla grossa vetrata che affacciava sulla strada, prese dalla tasca il telefonino, formò il numero della sua abitazione. “Ciao, Giulia, come stai?” “Io bene, e tu?” “Benissimo, grazie.” “Dove sei?” “Come dove sono. A Firenze.” “Si, ma dove.” “Ad una cena di gruppo.” “Ho telefonato alla segreteria del convegno e non mi hanno saputo dare il nome del tuo albergo.” “La cena é in un locale poco distante dall’albergo.” “Quale?” “Un locale molto elegante, con tanta gente. Noi siamo in una sala riservata, dove c’é un forte brusio, per cui io mi sono spostato in luogo tranquillo.” “Diana Diso é con te?” “No.” “Come, non é anche lei al convegno?” “Si, é al convegno, ma non qui, credo che stia col gruppo dei giovani.” “Tu come sei andato a Firenze?” “Con un collega di Napoli, che é passato per Roma, a prendermi, e fare, così, una lunga chiacchierata durante il viaggio.” “Chi é?” “Non lo conosci, é da poco a Napoli, viene da Cagliari. Ti saluto, cara, stanno chiamandomi. Ciao, un bacione a te e Nora. A domani.” “Senti, Cesare…” Ma lui aveva spento il cellulare. Tornò dov’era Diana. “Telefonato a casa, Preside?” “Si, ho telefonato. Ma perché, ogni tanto, mi chiama Preside, per mantenersi a distanza?” “Non mi sembra che poco fa volessi mantenere una distanza, tra lei e me. Io ho sempre sperato di essere vicina al sole.” “La pianti, non prenda in giro, che c’entrano il sole e la speranza.” “Per me, tutto ciò che mi dà calore é sole, e la speranza é la mia ragione d’essere.” “Lei é speranzosa ?” “La mia speranza non é l’attesa generica, l’elpìs dei Greci, ma l’aspettare, ottimista e vigilante, che si realizzi quanto si desidera, un po’ il bth degli Ebrei, avere fiducia che accadrà. Speranza come desiderio di felicità, secondo l’impulso naturale. Ho sottolineato questo pensiero di Kant, e lo condivido senza riserve.” “E se non si realizzasse il suo desiderio, se tutto si dimostrasse solo l’illusione di un futuro, ne sarebbe delusa?” “No, disperata, infelice.” “Potrebbe compilare un piccolo enchiridion de spe.” “La speranza non necessita di manuali o guide, se in essa non si trova la forza di procedere, nessun insegnamento può venire in aiuto.” “Più la conosco, Diana, e più l’ammiro.” Diana lo guardò con insistenza. “Scusi, Cesare, ma c’é come un moscerino sul suo colletto.” “Un moscerino al freddo della montagna?” “Al caldo di una sala d’albergo.” Si alzò e si avvicinò a lui, col seno sulla sua spalla, le labbra vicinissime al colletto della camicia, fino a lasciargli un leggero sbaffo del nuovo rossetto che aveva usato quella sera. Batté piano la mano sul risvolto della giacca, introducendo nel taschino il foglietto che s’era fatto dare dal portiere. Tornò a sedere. “Ecco, ora tutto é a posto.” “Non credo per il povero moscerino.” “Certi esseri sono destinati alla disfatta.” “Diana cacciatrice.” “E’ ancora presto, Cesare, che ne direbbe di andare a vedere cosa trasmette la televisione?” “Dove?” “Ho visto che ce n’é una nel salottino qui accanto.” “Per questo, anche in ogni camera. Potremmo andare in una delle nostre, portando quello che resta dello champagne.” “Ottima idea. Dove?” “Da me c’è un angoletto accogliente, con un comodo divano. Il pericolo é che mi addormenti, come spesso mi capita a casa.” “Mi auguro di non farle un effetto soporifero.” “Non lei, mi scusi, é la televisione in sé che mi fa dormire.” “Se accadrà, la metterò a letto, rimboccherò le coperte e prima di andarmene spegnerò la luce.” “Senza il bacio della buonanotte?” “Tanto lei non lo sentirebbe.” “Andiamo.” Cesare prese il secchiello col ghiaccio e lo champagne, dette a Diana i calici vuoti, e sottobraccio a lei andò all’ascensore. Com’era caldo quel delizioso ricettacolo, tra il braccio e il seno. Il divano era veramente confortevole, Diana sedette accanto a Cesare, con le gambe raccolte sotto le natiche, poggiata sulla spalla di lui che, intanto, aveva riempito i bicchieri. Girando tra i vari canali, trovarono un discreto spettacolo di varietà. Il viaggio, la tensione, le emozioni, vinsero Diana che si sistemò più comodamente, con la testa sulle ginocchia di Cesare, e s’appisolò. Se non altro così mostrò di essere. Lui la guardava teneramente, azzardò qualche lieve carezza sui capelli. La chiamò a bassa voce. “Diana… Diana… é stanca?” Lei sobbalzò, quasi spontaneamente, si mise a sedere di scatto, lo guardò con aria confusa. “Mi scusi, Preside, sto facendo proprio una figura penosa. Mi scusi.” “Era più adorabile che mai, mentre dormiva, coi capelli dorati sparsi delicatamente sul volto angelico. Oro e avorio, come la statua che ho sempre sul mio tavolo da lavoro.” Diana si alzò. “Vado via, mi scusi ancora.” Lui l’accompagnò alla porta. Sull’uscio, Diana si voltò, e lo baciò sulla guancia. “Buona notte, Cesare.” L’auto percorreva la Salaria a moderata velocità. Non s’erano scambiati una parola da quando erano partiti. Cesare cercava di ricapitolare le sensazioni di quelle quarantotto ore. Una realtà solitamente molto lontana da lui. Il tempo inclemente non aveva consentito di sciare, e lui era rimasto col suo austero abito scuro. Diana aveva rimesso nella sacca il completo da sci, e riposto il tutto nel portabagagli dell’auto. Era stato bene, benissimo. La fresca, prorompente e provocante giovinezza di Diana gli aveva tolto da dosso mille anni, gli aveva fatto comprendere che il suo atteggiamento quotidiano era più imposto che spontaneo. Gli aveva anche riacceso desideri che riteneva, ormai, di poter controllare e sopire nella ripetitività della vita coniugale. Era riandato con la mente a un titolo, non ricordava se di un film o di un libro, la vita comincia a quarant’anni. Era attratto da Diana, sentiva il desiderio di stringerla tra le braccia, di goderne la straordinaria e rigogliosa carnosità, di consumarsi in lei. Diana guardava la strada con eccessiva attenzione. Il busto eretto, la gonna con l’orlo a metà delle provocanti cosce che mostrava generosamente. Sulle labbra un sorriso tenue, impalpabile, sottilmente ironico, interiormente compiaciuto. L’aspirante Magnifico Rettore, il più giovane d’Italia, come lui sperava, si era mostrato nella sua vera essenza, smettendo il costume di scena, abbandonando, almeno in quei momenti, il personaggio che s’era imposto di apparire. Ne balzava fuori un bel quarantenne, colto, distinto, degno di stima, con ottima reputazione, ma umanamente vulnerabile. Venerdì sera era stato attirato dal seno, che gli era stato sbattuto sotto gli occhi, ammaliato dai capelli d’oro d’una finta dormiente col capo sulle sue ginocchia, s’era eccitato per le labbra che gli avevano sfiorato la gota. Sabato non aveva saputo resistere alla tentazione di palpeggiarle la natiche durante la singolare interpretazione d’un ballo afro-cubano. Ora le sbirciava le cosce. E bravo il Preside, un po’ guardone e alquanto pomicione, smanioso di brucare erba più fresca di quella del suo solito pascolo, ma timoroso di farlo. Giulia era sconfitta. Fu lei a rompere il silenzio. “Un soldo per i suoi pensieri, Preside.” Cesare distolse lo sguardo che le gambe di Diana avevano calamitato, e sembrò uscire da un’estasi. “In effetti, stavo pensando alla differenza di comportamento tra la sua e la mia generazione nella medesima situazione.” “Perché, apparteniamo a diverse generazioni?” “Senza dubbio, in lei prevale la vivacità dell’età giovanile, in me quello che definirei il timore conseguenziale.” “Mai sentito parlare del carpe diem?” “Ecco, lei ha nettamente chiarita la differenza: da una parte carpe diem, dall’altra festina lente. Trangugiare o sorseggiare.” “Se non cogli il frutto quando é maturo, o lo prenderà un altro o marcirà.” “Siamo in vena di proverbi.” “Diciamo che sono di un particolare stato d’animo.” “Di che colore?” “Rosa, che va schiarendosi in bianco.” “Torneremo al Terminillo?” Si voltò di scatto, a guardarlo. “Lo dice davvero?” “Vorrei poterci tornare subito, adesso.” “Cosa dirà, a Giulia, la prossima volta. Se ci sarà.” “Non lo so, ma quando si é conosciuta la libertà dal guinzaglio si trova sempre come non farselo rimettere.” “Il padrone, comunque, rimane sempre tale.” “Non é detto, se gli mostri che puoi mordere cambierà atteggiamento.” “O ti abbatte.” “O ti cede ad altri.” “Lei non tiene conto dell’orgoglio.” “Lei non pensa che si può anche fuggire.” “Ci siamo abbandonati a sciocche e inconcludenti metafore. Sto andando piano, ha fretta di arrivare?” “Tutt’altro. Senta, Diana, lei avrà l’incarico per la cattedra di Molino, ma si prepari per le prossime prove d’esame per associato. Mi faccia leggere qualche altra sua pubblicazione, perché se riesco a imbastire una buona prefazione non sarà male.” Diana sentì avvamparsi. Giovane Preside sponsorizza giovanissima docente. A Giulia verrà sicuramente un infarto. ^^^ Un durissimo colpo Giulia lo ricevette l’indomani, quando, vuotando la valigia del marito, notò il rossetto sul collo della camicia. Comunque, non era quello di Diana. Ancora peggio fu quando trovò, nel taschino della giacca, il biglietto dell’albergo del Terminillo. Dovette prendere un tranquillante. Per tutto il giorno rimuginò sul da farsi. Tacere o aggredirlo? Cesare la trovò che stava in poltrona, fingendo di leggere. Aveva mandato Nora a casa di una sua amichetta e la colf a fare degli acquisti. Cercò d’apparire serena, fu solo un po’ più fredda del solito nel ricambiare il bacio di saluto. “Cesare, scusa, vorrei parlarti.” “Subito?” “Ti prego.” Cesare sedette sulla poltrona di fronte alla donna. Lo guardò negli occhi. “Faceva freddo al Terminillo?” Lui assunse un’aria sbalordita. “Al Terminillo?” “Si, ho trovato questo nel taschino della tua giacca.” Gli porse il biglietto dell’albergo. Lui lo prese, lo guardò attentamente, stupito. C’era il suo nome, il numero della camera. Non altro. “Giulia, deve essere nel taschino dall’anno scorso, quando partecipai alla cena in onore del Rettore di Heidelberg.” Giulia mise la mano dietro la schiena e tirò fuori la camicia incriminata. “Anche questa é dell’anno scorso?” “No, l’indossavo al convegno, la prima sera.” “E questo segno di rossetto?” Gli mise sotto il naso la camicia. “Che ne so, dev’essere stato durante il ballo, con una delle solite vecchie cariatidi che non puoi disgustarti. Se é tutto qui, cara, stiamo trasformando una mosca in un elefante. Posso andare a cambiarmi?” “Va pure, ma non sono convinta del tutto.” Cesare si alzò e s’avvio verso la camera da letto. In quel momento squillò il telefono, con tempismo degno di una pochade. Giulia rispose subito, per precedere Cesare. Le giunse una voce poco aggraziata, con forte influsso dialettale. “Pronto, qui é l’albergo Sabino del Terminillo, volevamo comunicare al professor Savio che nella sua camera non abbiamo trovato nessun accendino, e che da domenica che lui é partito non l’abbiamo affittata, quindi lo deve aver perduto altrove. Buona sera.” Giulia si sentì come ubriaca. Tra l’altro, Cesare non fumava, e non aveva mai posseduto un accendino. Riprese il telefono, chiese alla centralinista il numero dell’albergo Sabino, lo chiamò, disse della comunicazione ricevuta, dell’accendino, e pregò di passarle la signorina con la quale aveva parlato. Le fu risposto che nessuno aveva telefonato a casa Savio, che non sapevano nulla dell’accendino. “Scusi” -insisté Giulia- “mi sa dire se il Preside Savio era solo o con la signorina Diana Diso?” “Signora, non sappiamo neppure se la persona che lei ha nominato sia stato o meno nostro ospite. In ogni caso non diamo informazioni del genere. Buona sera.” La confusione aumentò nella sua testa. Nessuna certezza, ma non riusciva a scacciare il dubbio. Diana aveva saputo ben introdurle nella mente il tarlo del sospetto. Pensò che avrebbe dovuto invitare a cena Diana, al più presto, dal come si sarebbero comportati avrebbe avuto la conferma o meno del suo timore. Non stette a pensarci su. Le telefonò. Dopo alcuni squilli sentì la voce di Diana. “Qui é Diana Diso, per almeno un mese sarò molto occupata per un lavoro molto impegnativo. Solo se inderogabile e urgente lasciate un messaggio.” Giulia riattaccò, senza parlare. Rimase a meditare sul da farsi. Le venne alla mente un proverbio che la nonna le ripeteva spesso: gallo che non becca ha già beccato. Forse era quella la strada da percorrere. Non sarebbe stata la prova risolutiva, ma avrebbe costituito un importante elemento per la valutazione della verità. Cesare era andato nel suo studio. Lo raggiunse, gli disse, con dolcezza carezzevole, che la cena era pronta, stava a lui dire quando desiderava essere servito. Cesare la guardò incuriosito. Dopo la discussione di prima non s’attendeva tanta mitezza. Giulia gli sorrideva, accattivante, con qualcosa di particolare negli occhi. Era una bella donna, desiderabile. Con la fantasia la rivestì delle forme seducenti di Diana. “Sono pronto, cara, possiamo andare.” Abitualmente, Giulia si cambiava nel bagno e ricompariva, in tenuta da notte, quando il marito era già a letto leggiucchiando il giornale o qualche rivista. Quella sera cominciò a spogliarsi in camera, lentamente, indugiando pigramente tra un capo e l’altro di quanto andava togliendo, fino a restare completamente nuda. Cesare abbassò il giornale e tolse gli occhiali, e si attardò ad ammirarla, compiaciuto. Lei, senza nulla addosso, andò al comò, aprì un cassetto, si chinò per prendere una camicia, offrendo l’incantevole vista del suo rotondeggiante ed eccitante fondo schiena, scelse la più vaporosa, e la portò sul letto, dispiegandola. Le sue movenze avevano un qualcosa di sensuale, di provocante, di impudico. Guardò il marito sorridendo maliziosa. Gli strizzò l’occhio. Diritta, col seno eretto, e lo scuro del pube lievemente ondeggiante come l’erba carezzata dallo zefiro, s’apprestò a indossare quel velo che avrebbe esaltato, più che celato, le sue attraenti grazie. “Non metterla.” Cesare aveva poggiato giornale e occhiali sul comodino, e guardava la donna con particolare intensità. “Come dici, caro?” “Non metterla, vieni.” Lei scostò il lenzuolo e andò a rifugiarsi tra le braccia del marito. La baciò con passione, la fece distendere, supina, e prese a carezzarle il seno, lentamente, palpandolo voluttuosamente, soffermandosi intorno ai capezzoli, in un approfondimento comparativo, fantasticando sull’altro termine di paragone. Scese con la mano, sempre accarezzando, e frugò nel vello che sentì arricciarglisi tra le dita. Stese il braccio fuori dalle coperte, e spense la luce. Le bisbigliò all’orecchio. “Vieni su di me, Giulia.” Lei gli si stese sopra. “Si, così.” Le passò le palme aperte sui glutei, stringendola a sé, e ne sentì l’incontenibile pressione del grembo che andava dischiudendosi lentamente, accogliendolo in sé, freneticamente, sempre più convulsamente. Giulia si levò sulle ginocchia e portò a compimento la sua inebriante cavalcata, rovesciandosi, spossata e scarmigliata, sul petto del marito. Giacque così, col fiato affannoso, che andò pian piano quietandosi fino a trasformarsi nel profondo respiro del sonno. Cesare, con gli occhi aperti nel buio, le carezzava la schiena, pensando a quella di Diana. ^^^ Quella notte, la più bella della sua vita, nella quale aveva goduto sensazioni impensate, l’avrebbe rassicurata se non ci fossero state numerose inspiegabili telefonate. Una voce di donna, sempre la stessa, cercava Cesare, e, non trovandolo, chiedeva di essere richiamata da lui. “Chi deve richiamare, mio marito?” “Lui sa bene chi.” E troncava la comunicazione. I nervi di Giulia cominciavano a cedere. Ne aveva parlato con Cesare, ma lui era calmo, sereno, aveva imputato le telefonate a qualcuna in vena di scherzi di cattivo gusto. Lei aveva deciso di chiedere l’intervento della polizia, di far mettere il telefono sotto controllo. Il marito si strinse nelle spalle, dicendo che forse non era il caso ma, se proprio ci teneva, agisse pure. ^^^ Diana ascoltò in silenzio lo sfogo di Cesare, che le raccontò quanto stava accadendo, sottacendo qualche particolare. “Preside, se la sua signora crede di trovare la pace nel controllo telefonico, é bene che lo faccia. Ma, scusi, é sicuro lei di non dar motivo di sospetti, a Giulia? Il rossetto sulla camicia posso capirlo, anche se mi dispiace che non fosse del colore di quello che solitamente adopero, ma come si trovava nel taschino della giacca il biglietto dell’albergo?” Cesare la guardò perplesso, un po’ irritato. “Se il rossetto non era suo, finito li durante il ballo, proprio non riesco a comprendere di chi sia e come ci sia capitato. Per il biglietto, posso solo pensare che me lo abbiano dato all’arrivo, alla récéption, e che io lo abbia messo distrattamente nel taschino. Ma quello che mi sconcerta sono le telefonate. Prima l’albergo, poi le voci di donna. Comincio a chiedermi se esistano veramente. Giulia é sempre più turbata, sta cadendo in un vero e proprio esaurimento.” “Mi spiace, forse dovrebbe distrarsi un po’. Una settimana bianca, un viaggio, una crociera.” Quando Cesare accennò alla moglie l’opportunità d’una distrazione, lei fu subito d’accordo. “Dove andiamo? Quando partiamo?” “Giulia cara, io non posso muovermi. Pensavo a te e Nora.” Lei impallidì, le labbra divennero ceree e sottili. “Tutto architettato per restare solo con le tue puttanelle?” Era la prima volta che lo aggrediva in quel modo. Non rispose neppure, si alzò e andò nel suo studio. Chiamò Diana dal suo cellulare e, sottovoce, le disse l’esito della sua proposta. Due giorni dopo Giulia ricevette una telefonata, che poi fu identificata come proveniente da un posto pubblico. “Sei sicura che tuo marito non abbia preso una malattia venerea, o forse l’Aids? Ti sei vista allo specchio? Sei diventata l’ombra di te stessa. Come pretendi che si accontenti di te?” Malgrado il dottore consigliasse la massima cautela, Giulia stava sempre più abusando di tranquillanti e sonniferi. Era divenuta trascurata, trasandata. Anche Diana, che era andata a trovarla portandole un gran fascio di fiori, glielo aveva detto. “La vedo un po’ giù. Posso fare qualcosa per lei?” E aveva fatto già tanto. Giulia, un tempo altezzosa e alquanto boriosa, aveva perso la sua sicurezza, la sua baldanza, e stava anche aggrappandosi anche a Diana, in un primo tempo sospettata di essere la causa di ogni suo male. Sembrava subire gli eventi senza neppure reagire. Rifiutò di accompagnare il marito al Congresso internazionale di Monaco. Sorridendo acida, gli raccomandò di essere prudente, cauto, di usare il profilattico. Cesare, irritato per quel tono, disgustato per come s’era ridotta in breve tempo quella donna, ancora giovane e piacente fino a poco tempo prima, pensò che avrebbe vinto ogni esitazione, superato dubbio, e dormito con Diana, di cui continuamente sognava le tette e il resto. Sarebbero stati tre giorni, anzi tre notti, da non dimenticare. In aereo le aveva messo, con finta naturalezza, una mano sulla gamba, le aveva confessato di sentirsi giovane e prestante, di essere più volte tornato con la mente al Terminillo, che considerava quel Congresso un momento importante per la sua vita. Era allegro, quasi euforico. Diana lo guardava, inespressiva. All’uscita dall’aeroporto furono accolti da un freddo abbastanza pungente. Il taxi li portò rapidamente in albergo, Munchen Hilton. I soliti adempimenti, e poi nelle camere, con l’intesa che si sarebbero incontrati nella shopping gallery, dopo mezz’ora, per andare a cena. Diana, contrariamente al solito, tardò qualche minuto. Si scusò, senza alcuna spiegazione. Era cortese, la ragazza, attenta come sempre, ma non dimostrava la cordialità che le era propria. Non parlò molto, durante la cena, mangiò poco, cose leggere, non assaggiò neppure il Rubino del Reno, il pregiato vino che aveva scelto Cesare. Al bar ordinò una camomilla. Poco dopo disse di non stare molto bene e che preferiva ritirarsi in camera. “Niente di grave, spero.” Gli sorrise mesta. “Le solite cose delle donne guastafeste, Preside.” “Mi sembra più esatto parlare di guastafeste delle cose. Posso esserle utile?” “No, grazie, prenderò un calmante e andrò a letto. Buonanotte.” “Le auguro che domattina stia benissimo. Buona notte.” “Lo spero.” “Vuole che l’accompagni?” “Grazie, non si disturbi. A domattina.” S’avviò lentamente all’ascensore. Giunta in camera, tirò fuori dalla borsa alcune bozze e sedette al tavolino, a rileggerle, con un whisky che aveva preso dal mobile bar. L’indomani, alle otto, gli telefonò in camera, chiese ancora scusa, ma sarebbe scesa un po’ più tardi, lo avrebbe raggiunto nel salone dei congressi. Scese, salì su un taxi, si fece portare nella Marienplatz, entrò nella biblioteca della chiesa, per consultare alcuni antichi volumi. Tornò dopo le undici, e andò a sedere accanto a Cesare, che le aveva conservato il posto. “Come va, Diana?” “Potrebbe andare meglio. Forse é il freddo al quale non sono abituata a peggiorare le cose. Ma passeranno presto. Grazie.” Cesare rimise l’auricolare e sembrò che seguisse la traduzione della relazione in corso. Pensava, invece, che le premesse e promesse del Terminillo stavano svanendo, o meglio erano sfumate, a causa d’un imprevisto antipatico contrattempo. Donne complicate. Loro e le loro cose. Proprio adesso che aveva tratto il dado. Cesare aveva fatto un giro di telefonate, a quasi tutti i componenti della commissione esaminatrice. Professori che lui conosceva bene, ai quali non aveva mai negato un favore. Aveva segnalato, soltanto segnalato si badi bene, una giovane e promettente ricercatrice, già incaricata temporanea nella Facoltà di cui era Preside, suggerendo di dare uno sguardo alle interessanti pubblicazioni che lei aveva inviato a ciascuno, a qualcuna delle quali lui, Cesare, aveva scritto una calorosa prefazione. Non soffermatevi sull’età. I giovani, quando valgono, devono andare avanti. Contro ogni consuetudine burocratica, la commissione portò a termine in poco tempo i lavori di lettura delle pubblicazioni, valutazione della preparazione e didattica dei candidati, e Diana Diso divenne Professore Associato. Giulia Savio, intanto, era ricoverata in una clinica per superare quello che le era stato detto essere un forte esaurimento nervoso. Cesare gongolava. Diana ce l’aveva fatta. Adesso, era certo, non ci sarebbe stato nessun ostacolo al coronamento del suo desiderio, covato a lungo, come un timido adolescente. Quella donna sarebbe stata sua, com’era destino. Diana andò a trovare Giulia, doveva constatare se il suo lento e inesorabile lavoro avesse raggiunto il fine di far scendere dal piedistallo quella tronfia palla gonfiata. La Giulia che si guardava in giro, sdegnosa, ostentando il marito come una intangibile proprietà privata, gridando al mondo: Il marito é mio e lo gestisco io, ora era una donnetta curva, con scomposti cernecchi, e un sorriso ebete sulle labbra cascanti. “Ho saputo che é andata a trovare Giulia, in clinica, grazie.” “Si, Preside, ho voluto salutarla, prima di partire.” “Partire? E dove va?” “Scusi, é vero, ancora non glielo ho detto. Ho accettato la cattedra che m’ha offerto l’Università di Bari. Certo, é meno prestigiosa di Roma, ma li insegna anche il mio fidanzato. L’ho conosciuto da pochissimo, ma abbiamo deciso che tra un mese ci sposiamo. Mi auguro che vorrà essere il mio testimone alle nozze. Dopo tutto quello che ha fatto per me.” Cesare la guardava allibito, deglutiva cercando di rimuovere l’intoppo che gli serrava la gola. Con voce incerta, roca, affannata riuscì a farfugliare qualcosa. “Certo, certo, non mancherò.” Gli tese la mano. “Allora, arrivederci, Preside, e grazie ancora.” S’alzò e si diresse alla porta, lentamente, ancheggiando. Cesare guardava il sedere di Diana allontanarsi, forse per sempre.
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