Probabilmente sarà così un po’ per tutti, ma io ricordo il periodo dei miei quindici/sedici anni come quello del massimo e costante arrapamento. Non sapevo ancora che si trattava di una normale reazione allo sviluppo sessuale, tipica di ogni adolescente. Ad essere anormale temevo invece di essere io, non capacitandomi che nella sovrabbondanza di ormoni che mi circolavano nel sangue risiedesse la causa di quel continuo stato di eccitazione sessuale che durante il giorno non mi lasciava mai, da quando aprivo gli occhi il mattino a quando li chiudevo (per non parlare di quel che accadeva durante la notte, di cui le lenzuola macchiate recavano spesso tracce tanto evidenti quanto per me misteriose!). Già allora intuivo tuttavia che l’umanità si dividesse fondamentalmente in due categorie, quelli che il sesso lo fanno e quelli che ce l’hanno solo in testa, e io cominciavo preoccupantemente ad appartenere alla seconda. Ero il re dei pippaioli: il mio aggeggio pericolosamente incline a viver di vita propria e ad irrigidirsi senza apparente motivo (di solito nei momenti più imbarazzanti) trovava sollievo nelle numerosissime seghe che mi sparavo nel corso della giornata, seghe invariabilmente accompagnate da fantasie ad occhi aperti di scopate irrimediabilmente virtuali. Tanto nella mia vita reale le donne erano un miraggio lontano, quanto il mio cervello era abile sceneggiatore di una sterminata varietà di pornofilm mentali, che mi facevo scorrere dietro gli occhi chiusi mentre con la mano stretta a pugno mi menavo l’uccello. Come “regista” ero generoso: praticamente ciascun essere femminile capitasse nel raggio d’azione dei miei occhi poteva aspirare a un ruolo da protagonista. Non saprei dire come, né perchè, ma ben presto finii con lo specializzarmi su un genere preciso: anziché per le ragazze della mia età, sviluppai infatti una morbosa predilezione per le donne più grandi di me d’età, sebbene allora considerassi adulta qualunque donna avesse più di una venticinquina d’anni. Per quanto anche in questo caso non sono stato il primo né sarò l’ultimo, il fascino che esercitavano su di me le donne mature, che fossero le madri dei miei amici, le colleghe di mia madre o anche solo quelle che incrociavo per strada, mi faceva sentire “particolare” e mi induceva a tenere per me quelle sensazioni evitando di partecipare perciò alle discussioni con i coetanei. Uno psicoanalista potrebbe a questo punto spiegare che fissare il mio desiderio sessuale su obiettivi irraggiungibili, quali ai miei occhi erano tali donne, rappresentava nient’altro che una fuga dalla responsabilità di prendere l’iniziativa per concretizzare le prime esperienze sessuali. E, in effetti, nella mia fantasia favorita era sempre la protagonista di turno a iniziarmi al sesso insegnandomi a fare l’amore. Accanto all’età, un altro elemento solleticava la mia attenzione sessuale: le gambe delle donne. Più delle tette, argomento delle interminabili disquisizioni dei miei compagni, erano le gambe a intrigarmi e esaltarmi. Un paio di gambe inguainate in calze velate e magari slanciate da tacchi alti avevano il potere di farmi impazzire e di indurmi a cercare con urgenza un angolo appartato dove intrattenermi con il mio pisellone. Quando le due caratteristiche si congiungevano nello stesso essere, cominciavo a sbavare. Due dee, su tutte le altre, incarnavano l’idea stessa del sesso e le onoravo con le mie masturbazioni. La mia professoressa di matematica al liceo era una. Quarantenne, alta e formosa, con una gran chioma di capelli rossi, seno prepotente e un gran sedere. Piaceva a tutta la classe e ciò le permetteva di registrare ineguagliabili picchi d’attenzione nella sue lezioni. Io andavo pazzo per le sue gambe che sporgevano da sotto i bordi degli attillati tailleur al ginocchio che portava, sempre valorizzate da trasparenti collant colorati. Un giorno toccai il cielo con un dito: passando a fianco della cattedra mentre tornavo al mio posto la scorsi, evidentemente ignara che io fossi proprio lì in quel momento, mentre si aggiustava le calze, le mani che accarezzavano la gamba, la gonna un po’ arricciata sulla coscia. A quell’immagine tributai orgasmi solitari indimenticabili e ricordo bene le ore di lezione da allora trascorse nella speranza di cogliere nuove visioni altrimenti celate dalla gonna. L’altra regina delle mie sedute solitarie era la migliore amica di mia madre, la signora Ludovica. Più o meno quarantenne anche lei, aveva gambe super sexy sempre inguainate da lucidissime calze nere e sempre abbondantemente scoperte da gonne corte o con spacchi. Conoscendomi praticamente da sempre, mi trattava come un ragazzino, ignara della mazza di ferro in cui la sua sola vicinanza aveva il potere di trasformare il cazzo nei miei pantaloni. Una volta la sola vista delle sue calze con la riga (una cosa che credevo esistesse solo nelle riviste che nascondevo in camera mia!) mi costrinse a fuggire in bagno per menarmelo, nello sconcerto tanto di mia madre che della stessa signora Ludovica. (per giorni io invece fantasticai immaginando che le avesse indossate per provocarmi sapendo l’effetto che mi avrebbero fatto). Così, dunque, ero io, più o meno all’età di sedici anni. Le abitudini mie e della mia famiglia furono quell’anno improvvisamente scombussolate dalla notizia della morte di mio zio Umberto, fratello di mia madre. Era il mese di giugno. Mio zio viveva in un’altra città, così preparammo in fretta i bagagli e partimmo, io mia madre, mio padre e mia sorella, per partecipare ai funerali e stare vicino alla zia Viola, la vedova. Ci installammo nella casa dei miei zii, adattandoci per qualche giorno. Come potete immaginare l’atmosfera non era allegra e ciò coinvolse anche me: bighellonavo per quella casa, cercando di schivare singhiozzi e sospiri che rompevano di colpo il silenzio e per questo accettavo di buon grado piccole commissioni e incarichi che cercavo di svolgere al meglio. L’aria intorno a me e la scarsa privacy che la situazione offriva mi fecero allentare la frenesia masturbatoria. Ma, e con grande senso di colpa da parte mia, l’arrapamento si fece sentire di nuovo e prepotente proprio il giorno del funerale a causa soprattutto del fatto che ovunque volgessi gli occhi vedevo donne in gramaglie e con le calze nere. Tornati a casa mi chiusi subito in bagno per sfogare come al solito i miei sensi sovreccitati. Ne ero appena uscito dopo aver allentato la tensione quando mia madre e mio padre mi chiamarono in disparte. Fu mia madre a parlare: in sintesi, mi disse che avevano pensato di lasciarmi lì ancora qualche giorno per tenere compagnia a zia Viola. “E’ molto provata, e sicuramente avere qualcuno che le tenga compagnia e l’aiuti in questi primi giorni le sarebbe di conforto,” disse mia madre. “Resterei io, ovviamente, ma devo rientrare in ufficio. Scadenze urgenti. D’altra parte l’anno scolastico è quasi finito. Sicuramente se perdi gli ultimi giorni non ci saranno problemi. Spiegheremo noi la cosa ai professori. Ti scoccia fare questo piacere a me e a tua zia?” Non mi venne in mente nulla da obiettare e quindi, se pur riluttante, mi dissi d’accordo: in fondo si trattava di una settimana. Così, il resto della famiglia ripartì il pomeriggio stesso, e io rimasi solo con la zia. Io non avevo molta confidenza con zia Viola. Il fatto che lei e zio Umberto vivessero in un’altra città, assai distante dalla nostra, aveva fatto sì che nel tempo ci si vedesse raramente, qualche volta per le feste e nemmeno tutti gli anni. Doveva avere circa cinquant’anni. Era alta più o meno quanto me, quindi circa un metro e settanta. Aveva forme abbastanza rotonde senza essere però proprio grassa. Portava i capelli piuttosto corti e riccioluti, biondo cenere, in mezzo ai quali si vedevano alcune radici bianche. Rimasti soli, lei cominciò subito a trattarmi con grande gentilezza, anche per vincere quel po’ d’imbarazzo che c’era fra due persone che, per quanto fossero zia e nipote, si conoscevano appena. Mi ringraziò più volte per essere stato così carino ad aver accettato di fermarmi con lei e mi disse che anche se l’idea non era stata sua e se aveva tentato di dissuadere mia madre, era molto contenta che si fosse imposta quest’ultima. Cominciò così quella nostra breve convivenza. Io, in realtà non avevo molto da fare se non guardare la tv e leggere fumetti. Scoprii subito, e con mio grande piacere, che era un’ottima cuoca. Zia Viola aveva sempre fatto la casalinga e si vedeva con quale velocità ed efficienza sbrigava faccende di casa, rifiutando gentilmente le mie offerte d’aiuto. Io cercavo di distrarla un po’ e qualche volta riuscii perfino a farla sorridere, anche se, dopo, capitava le venissero delle improvvise crisi di pianto. In quei casi prese ad abbracciarmi e a singhiozzare, piano, sulla mia spalla. Questo suo gesto mi imbarazzava però, sia perché non sapevo cosa dire per consolarla, sia perché sentivo quanto morbido fosse il suo seno contro il mio petto e mi preoccupavo di sciogliermi dall’abbraccio prima che avvenisse l’irreparabile. Già perché con mio grande orrore stavo sentendo risvegliarsi incontrollabile la voglia di seghe e stavo cominciando a guardare zia Viola con occhi diversi. Il fatto è che avevo cominciato a realizzare che mia zia era una donna matura che si portava anche piuttosto bene la sua età e che io e lei eravamo soli in quella casa! Presi a osservarla di sottecchi, quando pensavo che lei non facesse caso a me, e mi accorsi che – a parte le zampe di gallina in viso e la pelle delle mani e delle braccia un po’ macchiata – zia Viola aveva oltre che un seno bello gonfio, un sedere ampio e rotondo e, soprattutto, belle gambe, dalle caviglie sottili e dalle ginocchia polpose. Non mi aiutava ad essere indifferente il fatto che lei, con il lutto, portasse vestiti scuri e calze color visone o nero-fumo, velate, con scarpe o pantofole con il tacco. Quella settimana si rivelava elettrizzante! Non ero mai stato in tanta intimità con una donna e l’immagine delle gambe o del seno di zia Viola soppiantarono immediatamente ogni ricordo della professoressa di matematica o della signora Ludovica. Una sera, zia Viola mi raccontò della vita con zio Umberto. “Che ne sarà di me senza di lui, adesso?” concluse con un profondo sospiro. Seduto sul divano accanto a lei tentavo di impedire che sequenze erotiche con protagonista mia zia mi riempissero il cervello. “Zia, vedrai che ti farai un’altra vita. Sei ancora giovane, attraente…” Lo dissi così, praticamente senza rendermene conto. “Ma Riccardo, cosa dici?” squittì lei in risposta. Mi scompigliò i capelli fingendo di volermi schiaffeggiare. “Giovane? ma se ho 51 anni, più di tua madre. Attraente? perché, mi trovi attraente tu?” queste ultime parole erano state però pronunciate con un tono di voce più serio e fissandomi. “Sei una bella donna…” balbettai mentre sentivo che il mio viso si imporporava. “E’ arrivato il casanova delle vecchie galline…” fu il commento finale di mia zia che, per fortuna, si alzò e andò nell’altra stanza a preparare la cena. Dopo questo episodio feci attenzione a non tradire i miei pensieri, ma la prudenza mal si conciliava con il mio arrapamento. Cercavo anzi di conquistare visioni che potessero alimentare le mie fantasie segaiole, andando ogni volta che potevo a sbirciare sotto le gonne di mia zia. Ne ottenni fugaci immagini di cosce e, una volta, un gioco d’ombre che mi fece sospettare che mia zia portasse le autoreggenti. La sola idea mi fece impazzire e monopolizzò i miei pensieri e azioni: dovevo assolutamente scoprirlo. Finchè una mattina, recandomi in bagno, che era adiacente la camera da letto di zia, non mi accorsi che la porta di quest’ultima era leggermente accostata. Lo spiraglio non era maggiore di un dito ma ciò non mi scoraggiò dall’accostare l’occhio per cercare di scorgere attraverso. Intravidi così un lato del letto e, seduta, mia zia che si stava vestendo. Non riuscivo a inquadrare tutta la figura, ma, alternativamente, il busto o le gambe. Vedevo che era in reggiseno e che le gambe erano nude. Il cuore prese a battere forte. A quel punto la vidi sollevare una gamba e cominciare a infilarsi le calze. Vidi il nylon scuro scivolare sulla pelle bianca ricoprendola poco a poco, man mano che le mani risalivano sulla coscia. La vidi assicurarsi che la calza fosse tirata bene e poi le sua dita che agganciavano il bordo al bottone di un reggicalze. La vidi ripetere l’operazione con l’altra gamba e la vidi anche chinarsi, forse a controllare che la calza non fosse smagliata. Ero impietrito dallo spettacolo cui assistevo, fortuna che nemmeno nei miei sogni più morbosi osavo sperare di avere. Di pietra era anche la mia nerchia che stava facendo esplodere la patta dei pantaloni. Inconsciamente la mia mano partì per accarezzarmela. Uno scricchiolio prodottosi chissà perché alle mie spalle fece sobbalzare sia me che zia Viola. Lei sollevò lo sguardo verso la porta e chiese a voce alta: “Riccardo, sei tu?” ma a quel punto io ero già entrato nel bagno con un balzo e, richiusami la porta alle spalle, mi appoggiavo ad essa, il respiro affannoso e le mani che già sbottonavano frenetiche i pantaloni. La visione di zia Viola in calze e reggicalze non mi abbandonò più. Non riuscivo più a rivolgerle la parola senza che le immagini rubate attraverso la porta socchiusa non scorressero nella mia testa. Sentivo che o avrei fatto una sciocchezza di cui mi sarei pentito o sarei impazzito. Si verificò la prima delle due possibilità. Avevamo appena finito di mangiare, zia stava sistemando la cucina. Mi stavo recando al bagno e passai quindi davanti la camera da letto. La porta era aperta, la stanza, ovviamente, vuota. Spinto dall’impulso vi entrai. Non sapevo cosa cercavo. Forse solo entrare nella sua intimità. La stanza era satura del suo profumo, un odore di donna che aveva il potere di stordirmi. Mi guardai intorno: cercavo qualcosa di suo, un capo d’abbigliamento, magari, da rubare. Per terra, accanto al letto, erano le sue pantofole, le avevo già notate in precedenza, non le solite ciabatte basse, ma di raso, con il tacco. Fu un attimo: caddi in ginocchio, presi le pantofole e le avvicinai al volto. In piena trance erotica le annusai, mi riempii le narici dell’odore un po’ pungente che emanavano e socchiusi gli occhi, immaginando di avere tra le mani i piedi calzati di nylon di zia Viola. Non ci fu nessun rumore, non una parola, nemmeno un colpo di tosse, ma all’istante percepii di essere osservato. Mi voltai e lei era in piedi sulla soglia che mi osservava. Non so da quanto tempo, ma non c’erano dubbi su cosa stessi facendo con le sue pantofole ancora in mano. Non riuscii a dir nulla, nemmeno una patetica giustificazione, sotto uno sguardo che mi inceneriva. Chinai il capo e riposi per terra le pantofole e quando mi alzai in piedi lei non c’era più. A quel punto non mi restava che pregare perché una voragine inghiottisse me e il ricordo stesso della mia esistenza. Mi chiusi in camera mia attendendo solo che la porta si aprisse e che mia zia mi annunciasse di aver informato mia madre che quel pervertito di suo figlio era stato cacciato via. Non poteva che accader questo, continuai a ripetermi. Invece non accadde. Solo dopo alcune ore, mia zia venne ad avvertirmi che la cena era pronta. Me lo disse da dietro la porta, con un tono di voce assolutamente normale. “Cosa fai lì dentro?” anzi mi chiese. “Tutto bene?” si informò. Il terrore di affrontarla era inferiore solo alla vergogna di dichiararmi colpevole. Così alla fine uscii dalla camera, nello stato d’animo di un condannato al patibolo che sa che lo aspetteranno le pene dell’Inferno. Zia Viola aveva un’aria severa e fu di pochissime parole. Io dal canto mio non andai oltre i monosillabi. Ma nulla fu detto di quello che era successo nella camera da letto. Non mi venne annunciata la partenza anticipata. Non venne pronunciata la formula di condanna: “Tua madre è stata informata …” Nei giorni successivi l’episodio sembrava dimenticato. Di più: come fosse mai avvenuto. E io nella mia ingenuità cominciavo a credere che zia Viola non avesse dato peso a quanto aveva visto. Mentirei però se dicessi che nulla era cambiato nei nostri rapporti. Mentre io, per la coda di paglia, ero assai più guardingo e silenzioso, zia Viola sembrava più vivace e spigliata di prima e pareva anche curarsi di più, impressione cui contribuiva un trucco leggero che le sottolineava gli occhi azzurri e le labbra sottili. Ma, soprattutto, prese a girare per casa in vestaglia: una vestaglia di seta, di colore blu scuro, lunga fino ai piedi e chiusa da una fascia-cintura piuttosto alta. Io mi resi rapidamente conto che quel nuovo abbigliamento poteva offrirmi occasioni insperate per ammirarne il corpo, tanto più che zia Viola non era sempre attenta, quando di chinava o si sedeva, a richiudere i lembi della vestaglia, che ondeggiando scoprivano ora l’incavo del seno ora le ginocchia e le gambe. Avevo adesso molte più possibilità di occhieggiare le sue gambe, che continuavano a essere inguainate in calze scure trasparenti che mandavano riflessi lucenti dai punti in cui più piena era la carne. Una sera eravamo seduti insieme sul divano a guardare la televisione. Era stata lei stessa, con quel fare disinvolto che aveva assunto nei miei confronti e che io attribuivo al fatto che si fosse abituata alla mia presenza, a invitarmi a raggiungerla e a sedermi accanto a lei. A un certo punto mi resi conto che si era addormentata. Un movimento inconsulto fece aprire la vestaglia. Sotto i miei occhi si svelarono le ginocchia di mia zia, rotonde e carnose, scintillanti avvolte com’erano di nylon nero-fumo. Il battito del mio cuore accelerò, direttamente in gola. Mi voltai ad osservare mia zia. Pareva sprofondata in un sonno abbastanza profondo, il seno che si alzava ed abbassava dolcemente, il suo profumo leggero ma intenso che mi solleticava le narici. Con le ultime due dita della mano destra afferrai l’orlo della vestaglia e lo tirai leggermente. Il movimento fu impercettibile (o così io speravo) ma la seta scivolò velocemente giù dalle gambe. Adesso a essere scoperte erano tutte le cosce, fino al bordo più scuro delle calze e si intravedeva perfino una striscia di carne bianca nuda e il punto in cui il reggicalze tendeva il nylon. Nei pantaloni mi era cresciuto un obelisco. Fissai rapito quello spettacolo straordinario. Le cosce di zia Viola erano sode e rotonde e le calze le facevano apparire levigate e morbide. Combattei con il desiderio di sfiorarle. Persi. Zia dormiva, mi accertai con un altro sguardo. Non se ne sarebbe accorta, non avrebbe sentito…. Allungai il braccio. Le mie dita erano ancora a un paio di centimetri da quella superficie eccitante quando sentii la mano di zia afferrare la mia. “Cosa stai facendo?” Sorpreso! Chiusi gli occhi aspettando lo schiaffo. Non arrivò. Li riaprii e zia Viola mi stava fissando e le sue labbra erano increspate in un sottile sorriso. Zia mi teneva ancora la mano e l’aveva spinta verso il basso fino a posarla sulla coscia, proprio dove l’orlo della calza finiva. Me la tenne ferma con la sua di sopra e le mie dita sentivano il contrasto tra il tepore della pelle nuda, il contatto serico del nylon e perfino il freddo metallo del gancetto. “Stavi forse controllando che il reggicalze non fosse slacciato?” Non risposi. Gocce di sudore cominciarono a scivolarmi lungo il collo. “Bè, è tardi!” esclamò zia Viola liberando di colpo la mia mano, richiudendo la vestaglia e alzandosi di scatto, tutto quasi in un unico movimento. “Vai in bagno a lavarti i denti che è ora di andare a dormire.” Rimasi alcuni minuti in bagno, maledicendomi e chiedendomi se sarei riuscito a scamparla anche stavolta. Uscito la incontrai in corridoio, davanti la porta della mia stanza. Le diedi la buonanotte sussurrando in modo appena intelligibile e senza avere il coraggio di sollevare lo sguardo. Una volta in camera, mi spogliai, indossai il pigiama e mi infilai sotto le lenzuola. Sfiorai qualcosa che era sotto il cuscino. Riaccesa la luce e sollevato il guanciale vidi un paio di calze da donna arrotolate. In preda all’agitazione le sollevai davanti ai miei occhi. Erano un paio di collant scuri. Ne cadde un biglietto: “Mi sono accorta che sbavi dietro le mie calze. Eccotene un paio. Fanne buon uso. Zia.” Rimasi di sasso. Zia Viola si era accorta dei miei maneggi, ma anzicchè infuriarsi e cacciarsi mi regalava un paio delle sue calze. Le presi in mano e le portai al naso. Emanavano il suo profumo, lo stesso odore che avevo sentito in camera da letto. Non stetti molto a pensarci. Mi tirai giù le braghe del pigiama e arrotolate quelle calze intorno al mio cazzo presi a masturbarmi come un pazzo. Ci misi poco a venire e un abbondante getto di sperma riempì le lenzuola. Con i collant di mia zia ancora avvolte sul mio uccello ormai moscio mi addormentai. L’indomani non sapevo cosa dire. Ringraziarla? Chiederle perdono? Immaginavo che avrebbe riso di me e delle mie ossessioni da ragazzino sporcaccione. In un sussulto di dignità restituirle le calze? Questa idea non mi passava nemmeno dalla mente e comunque visto lo stato in cui le avevo ridotte era fuori discussione. Anzi per tutto il giorno non feci che pensare a quando avrei potuto giocarci di nuovo. Nemmeno zia Viola disse nulla. Non si fece sfuggire nemmeno un accenno a quello che era successo la sera prima e a quanto mi aveva fatto trovare. Mi ricordò che la settimana di permanenza era giunta al termine. “Domani parti. Contento? Sarai stufo di tenere compagnia alla tua zia vedova.” “No, zia, assolutamente, sono stato molto bene con te. Resterei anche volentieri.” Il pensiero che quelle parole potessero apparire un doppio senso mi fece arrossire. Lei mi rivolse un sorrisetto che mi parve malizioso ma non aggiunse altro. Quella notte la passai a masturbarmi selvaggiamente pensando a zia Viola e mi addormentai, esausto, quasi all’alba. Il giorno dopo ero decisamente di malumore. Partire e abbandonare quella situazione così eccitante mi dispiaceva davvero. Ma non potevo farci niente. Quella mattina, poi, neanche a farlo apposta, zia Viola era più carina del solito. Anziché in vestaglia, si era presentata con una gonna piuttosto stretta e corta e una camicetta bianca. Durante la colazione poi, chinatomi a raccogliere un cucchiaino che mi era caduto ero riuscito a sbirciarle le gambe accavallate accertandomi con un brivido di piacere che anche quel giorno aveva indossato un reggicalze. Avevo già cominciato a fare i bagagli quando zia mi chiamò in salone. “Voglio presentarti alla mia amica Luisa, che è venuta a farmi le condoglianze. Luisa, questo è mio nipote Riccardo che è stato così carino a tenermi compagnia in questi giorni.” Questa Luisa era una donna più o meno dell’età di mia zia. Era alta e formosa, con capelli dai riflessi ramati pettinati all’indietro e corti alle spalle. Era molto truccata e profumata. Portava un tailleur grigio scuro con una gonna stretta e sopra le ginocchia. Ci sedemmo per prendere il caffè e lei si tolse la giacca rimanendo con un top di seta avorio, molto scollato, sotto il quale si vedeva benissimo la linea dei seni. Ma, essendo seduto proprio di fronte a lei, la mia attenzione fu subito attirato dalle gambe inguainate in calze nerissime e velate, slanciate da un paio di scarpe con tacchi a spillo altissimi. Appena seduta incrociò le gambe, scoprendole fino al bordo delle calze. Sentii subito il cazzo indurirsi e cominciai a sudare. Ma capitavano tutte a me quelle che andavano in giro in questo modo? Non volevo farmi scoprire ma non riuscivo a distogliere gli occhi da quel paio di gambe. La signora Luisa invece mi notò perché, pur restando assorta in conversazione con mia zia, prese a lanciarmi delle occhiatine oblique e dei mezzi sorrisi. Ma, soprattutto, prese ad accavallare e scavallare le sue magnifiche gambe, ogni volta incrociandole un po’ più in alto e “dimenticando” di abbassare la gonna. Dovetti accavallare anch’io le gambe per non far vedere il bozzo che mi si stava formando. Ero totalmente ipnotizzato da quello spettacolo e completamente ignaro del rischio di rendermi ridicolo. Quando zia si alzò per andare a prendere il caffè in cucina, quella donna si voltò a guardarmi e sorridendo tirò su la gonna e con le mani sistemò l’allacciatura del reggicalze. Io, come un babbeo, me ne rimasi zitto e fermo. Esauriti gli argomenti di conversazione, la zia e l’amica si alzarono per accomiatarsi. Dovetti alzarmi anch’io e mi ficcai una mano in tasca sperando di mascherare l’erezione che mi gonfiava i pantaloni. Strinsi la mano alla signora Luisa biascicando parole di saluto come un ebete. Ma le sorprese dovevano ancora cominciare! Si era appena chiusa la porta alle spalle dell’ospite che mia zia si voltò verso di me con un’espressione carica di rabbia. “Porco! Maiale! Schifoso!”, cominciò ad apostrofarmi, contemporaneamente avanzando verso di me. “Cosa credi? che non mi sia accorta di come le guardavi le gambe a quella là?” Prese a darmi piccoli colpi sul petto e le spalle facendomi indietreggiare. “Fai schifo! Sei stato tutto il tempo a fissarla. Te la spogliavi con gli occhi. Avevi la bava alla bocca!” “Zia, non è vero”, cercai di difendermi. Ottenni l’effetto opposto: “Come non è vero? Credi sia scema? Mi prendi in giro?” Si buttò a sedere sul divano. “Sparisci! Non ti voglio più vedere!” aggiunse, senza nemmeno guardarmi negli occhi. “Zia, ti prego, perdonami. Non è colpa mia. Era lei … era lei che … mi mostrava.” Lo sguardo di zia Viola mi fiammeggiò addosso: “Certo! Era lei che continuava a farti vedere le cosce e tu, fesso, con gli occhi puntati là in mezzo! Non mi sono mai sentita più umiliata in vita mia. Meno male che oggi stesso te ne vai.” “Zia, ma cosa ho fatto di male?” esclamai lamentoso. “… e io che ero divertita a vedere le tue manovre per sbirciarmi le gambe. Mi faceva tenerezza. Credevo che ti piacessero le gambe della tua vecchia zia. Ero lusingata dalle tue attenzioni. Ti ho anche regalato un paio delle mie calze per farti sfogare. E lui che fa? appena una qualsiasi gli fa vedere le cosce perde la testa!” Capivo finalmente quanto male mi fossi comportato con lei. Caddi in ginocchio ai suoi piedi, sentii sgorgarmi le lacrime agli occhi. “Zia, ti prego perdonami se ti ho offesa. E’ vero, ho sempre ammirato le tue gambe. Hai gambe bellissime. Ti assicuro che sono molto più belle di quelle di quell’altra signora.” Zia Viola a questo punto mi guardò diritto negli occhi. Poi disse solo: “Dimostramelo!” Restai interdetto. Che dovevo fare? Rivelare i miei pensieri segreti o perdere per sempre l’affetto di mia zia. “Zia, tu mi piaci moltissimo. Non hai nulla da invidiare a nessuna altra donna. Zia, io mi sono… mi sono … toccato pensando a te, toccando le tue calze e pensando alle tue gambe!” Sopraffatto dall’emozione di ciò che avevo confessato chinai il capo, le afferrai i piedi e cominciai a dare baci sulle caviglie. Continuai a coprirle le gambe di piccoli baci, risalendo pian piano. Arrivato alle ginocchia, le ricoprii di baci mentre le avvinghiavo le gambe. Il sapore del nylon combinato con il suo odore di femmina mi fecero perdere definitivamente la testa. Piangendo, e alternando le parole con baci sulle sue cosce, le raccontai come l’avevo spiata mentre si vestiva, le spiegai quanto fossi eccitato dalle gambe delle donne, le confessai la mia attrazione per le donne adulte, le dissi come fossi stregato dalla mia insegnante e dall’amica di mia madre. Quando finii di parlare mi resi conto di averle tirato su la gonna e che i miei baci erano ormai arrivati alla parte alta delle cosce dove il bordo scuro delle calze marcava il confine con la pelle nuda. Mi fermai, impaurito io stesso. Zia Viola mi aveva lasciato fare senza dire nulla. A quel punto però mi prese il viso tra le mani e con tono severo mi disse parole che non ho mai dimenticato: “Idiota! Credi di essere l’unico ad essere eccitato da un paio di gambe in calze nere? Le donne lo sanno perfettamente quando un uomo le guarda. E si lasciano guardare perché lo vogliono. La tua professoressa e l’altra, la signora Ludovica, lo fanno apposta a provocarti, e magari poi ridono di te che credi di non farti scoprire. E anch’io: mi sono accorta benissimo che mi osservavi le gambe e ti ho lasciato fare, anzi ti ho mostrato di più, perché mi lusingava che tu me le ammirassi.” Rimase zitta per qualche secondo, poi sbottò: “Si è fatto tardi, è ora di pranzare.” Mangiammo in silenzio. Io rimuginavo su quel che aveva detto mia zia e quali scenari nuovi e impensabili fino a qualche ora prima quelle parole avevano aperto davanti ai miei occhi. Sparecchiammo, poi zia Viola, riprendendo il suo solito tono di voce disinvolto, mi rivolse la parola: “Andiamo di là a fare un sonnellino? Se stasera dovrai viaggiare in treno è bene che riposi un po’.” Restai perplesso a quell’invito anche perché era la prima volta che proponeva una cosa del genere. La seguii nella sua camera da letto. Le imposte erano semichiuse e filtravano la luce del sole. Nella stanza faceva caldo. Senza dire una parola, zia Viola si voltò verso di me e cominciò a spogliarsi. Sbottonò prima la camicetta. Poi abbassò la zip della gonna e se la fece scivolare lungo i fianchi. Zia indossava un bustino di pizzo nero, con degli inserti in raso rosso, senza spalline, e mutandine nere e di pizzo anch’esse, molto sgambate. Dal bustino uscivano bretelline che tenevano su le calze nere. Rimase così per un istante guardandomi e facendosi guardare. Si sfilò le scarpe, poi, con movimenti sensuali si distese sopra il letto e allungò e poi ripiegò le gambe, facendo frusciare le calze nel movimento. “E tu resti vestito?” La sua voce mi risvegliò dal sogno a occhi aperti che stavo vivendo. Mi accorsi di essere rimasto con la mascella spalancata per tutto il tempo nel quale lei mi si era spogliata davanti. Con mani tremanti cominciai a sbottonarmi anch’io i vestiti.Zia mi teneva addosso gli occhi socchiusi. Tolsi scarpe, calze e camicia, poi ebbi un esitazione: “Devo togliermi anche i pantaloni?” Lei sorrise soltanto e la risposta mi parve inequivocabile. Rimasi con i boxer, in piedi, incerto cosa fare. Zia, battendo con la mano lo spazio accanto a sé, mi fece capire che voleva che mi sdraiassi accanto a lei. Obbedii. Passò qualche istante, poi, zia si girò su un fianco e il suo viso fu a pochi centimetri dal mio. Mi accarezzò la guancia. “Mi dispiace. Mi son fatta prendere dalla gelosia senza motivo. Da come mi guardi capisco che ti piaccio. Vero?” Risposi di sì oscillando piano il capo. “Visto che ti attirano tanto le mie gambe perché non ne approfitti per accarezzarle?”, continuò. Mi prese la mano e se la portò sulla gamba. Quindi prese a strofinarmela delicatamente su e giù, su e giù. Quando mi lasciò la mano io continuai ad accarezzarle la superficie serica della coscia, lasciando che i polpastrelli scivolassero sulla microtessitura del nylon. Lei invece cominciò a passarmi la mano sulla pelle nuda, giù per il collo, poi le spalle, quindi il petto, facnedomi sentire la punta delle unghie, sfiorandomi i capezzoli. Brividi di piacere si irradiavano per tutto il corpo. Quando con la mano mi sfiorò attraverso i boxer il pene diritto e duro come una mazza, sentii che i brividi si addensavano tutti in quel punto. “Sento che ce l’hai grosso e duro.” Un’altra carezza. “Proprio bello grosso e duro. E’ difficile per una donna avere un giovane uomo con il cazzo duro accanto a sé a letto e non approfittarne, sai? Io temo di non riuscire a resistere a questa tentazione, sai Riki?” Così dicendo mise la mano dietro la mia nuca e attirò il mio viso al suo. Mi baciò: sentii le sue labbra schiacciare le mie e la sua lingua entrare a forza nella mia bocca e poi esplorarla dentro. “Sei proprio carino. A te piace la vecchia zia, ma anche a zietta piace questo bel nipotino, anche se è un po’ guardone,” concluse ridendo e baciandomi di nuovo. Poi infilò due dita dentro l’elastico dei boxer e cominciò a sfilarmeli. Me li fece scivolare lungo le gambe finché non rimasi con il cazzo nudo, che oscenamente puntava verso di lei. Sentii la sua mano che me lo accarezzava con tocco leggerissimo e sensuale. “Hai usato le mie calze per menarti questo bel pisellone, vero?” Feci di nuovo di sì con la testa. La mia mano manteneva lo stesso ritmo lento nell’accarezzarle le cosce. “Lo sapevo che mi spiavi e ti toccavi. Sai che sono stata sul punto di venire a trovarti nella tua cameretta?” “Oh zia!”, fu ciò che fui capace di dire, “farò tutto quello che tu vorrai.” Lei sorrise maliziosamente poi tornò a girarsi sulla schiena e mi fece cenno di piazzarmi davanti a lei. Allargò le cosce e “Toglimi le mutandine!” mi ordinò. “Delicatamente” mi richiamò quando vide che procedevo in modo troppo sbrigativo. Quando gliele sfilai mi si spalancò davanti gli occhi la sua intimità, incorniciata da un boschetto di peli scuri tra cui ne spiccava qualcuno grigio e, al centro, una fessura di carne viva rossa e pulsante. Zia con le dita ne allargò le labbra facendomi vedere quanto profonda e bagnata essa fosse. “E’ la prima volta che vedi una fica di donna, vero? Come ti sembra” “E’ bellissima, zia,” “Allora vieni a vederla più da vicino.” Un odore fortissimo di terra umida mi colpì non appena avvicinai il viso. Istintivamente mi ritrassi ma zia aiutandosi con le mani e le gambe mi avvinghiò e mi spinse a poggiare la mia bocca sulle labbra della vagina. Un sapore salato mi invase la bocca. Non sapevo cosa fare, avevo anche un po’ paura, ma zia mi teneva imprigionato il capo contro di sé. Presi a baciarle la fica, incoraggiato dalle parole di lei. A un certo punto serrò le cosce intorno alla mia testa e mi gridò di leccare. Mi mancava l’aria e non potevo che fare quel che mi chiedeva. Sotto la mia bocca lei cominciò a ruotare il bacino e spingerlo verso l’alto assecondando la mia lingua. Da come gemeva e stringeva le cosce capii che dovevo concentrarmi su una specie di bottoncino sporgente al tocco del quale reagiva con maggior piacere. Presi così a succhiarlo sentendo che si ingrossava di più tra le mie labbra. La bocca mi si riempì di liquido vischioso e salato e sentii zia Viola gemere più forte. Lei mi liberò finalmente allargando le cosce e mi raddrizzai respirando l’aria che stava per mancarmi. Vidi lo sguardo di zia Viola: era la mia prima volta ma capii subito che era quello lo sguardo di una donna che vuole fare l’amore. Sentii le sue gambe che mi stringevano i fianchi e poi fui scaraventato di nuovo sul letto di schiena. Zia mi fu sopra. Si mise a cavalcioni sul mio basso ventre e mi afferrò la nerchia con una mano. “Non ho mai violentato un uomo finora. Vediamo cosa si prova!” Mi puntò il cazzo verso l’alto, si sollevò sulle ginocchia in modo che la fica fosse sopra la punta e poi si abbassò di colpo. Provai un pò di dolore mentre mi sentivo risucchiare il cazzo. Lei cominciò ad impalarcisi sopra muovendosi su e giù con movimenti bruschi e violenti. Non ci misi molto a venire, gridando e inondandola di sperma. Restai ansimante sotto di lei. Zia Viola non si mosse dalla sua posizione ma si chinò su di me e, liberati i seni dalle coppe del bustino, me li strofinò sul viso finchè non mi ritrovai un capezzolo in bocca e presi a succhiarlo. Dopo qualche minuto lei ricominciò a muoversi lentamente su di me, roteando il bacino e strofinando la mia verga contro le pareti della vagina. Con questo trattamento non ci mise molto a farmelo tornar duro e quindi a riprendere a cavalcarmi. Anch’io presi ad agitarmi sotto di lei. La seconda volta durai di più prima di esploderle di nuovo dentro emettendo versi strozzati. Ma zia Viola non era ancora sazia. Si raddrizzò offrendomi la vista del suo corpo che torreggiava su di me. Mi fissò senza dire parola ma leccandosi le labbra con la lingua. Poi senza cambiar posizione prese a risalire lungo il mio corpo. Le sue cosce si fermarono all’altezza delle mie orecchie e mi bloccarono il volto. Quindi mi si accovacciò sopra piazzandomi la fica sul viso! . Prese a strusciarsi costringendomi a riprendere a leccarla forsennatamente per quella che mi sembrò un’eternità! A un certo punto caddi in una specie di trance. Quando tornai cosciente mi resi conto di essere solo e nudo nel letto. Non sapevo dove fosse andata. Mi alzai e cercai di riprendere i vestiti rimasti per terra. Avevo appena infilato boxer e pantaloni quando lei riapparve ancora mezza nuda sotto la vestaglia negligentemente indossata. “Ero al telefono con tua madre,” furono le sue prime parole alle quali mi sentii mancare terrorizzato. Lei se ne rese conto, rise e proseguì: “Le ho detto che mi sarebbe stato davvero utile tenerti qui ancora una settimana.” Poi mi squadrò e allungando le mani verso i pantaloni aggiunse: “Ma cosa fai? Ti rivesti? Per quello che ho in testa una settimana passa presto. Non posso mica perdere tempo a toglierti i vestiti quando mi viene voglia di fare l’amore!” In quella settimana scoprii che zia Viola era una vera ninfomane. Mi tenne praticamente segregato in casa. Effettivamente pretese che restassi nudo o al massimo in boxer mentre lei girava per l’appartamento in calze e reggicalze, o sfoggiando guepiere e completi intimi minuscoli o trasparenti, per provocarmi ed eccitarmi. Prendeva sempre lei l’iniziativa abbrancandomi all’improvviso per poi spingermi sul letto o, anche più spesso, sul divano e perfino sul pavimento. Tra una scopata e l’altra passavo il tempo con il viso tra le sue cosce intento a farla godere o mentre lei mi masturbava accarezzandomi l’uccello con i suoi piedi calzati di sottilissimo nylon. La realtà aveva superato tutte le mie fantasie!
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