Io, Maray, dal canto mio, prima di finire al bordello fui una signora, ma di quelle con pochissime soddisfazioni e scarsissime prospettive di vita migliore… .Prima ancora mi credevo pazza. A quattordici anni apparve il mio primo sangue. Tutta la famiglia mi si fece intorno, annusando indecentemente il mio odore… chè attraverso il mestruo credevano io diventassi dei loro. E già le coppe sono pronte, nettare prelibato per la bocca di un padre, il primo sangue di sua figlia.Quando me li vidi intorno, che col pretesto di darmi consigli si preparavano al banchetto – e mia madre colava la sua voglia di sangue giovane, porgendomi i panni come una preziosa umiliazione – afferrai le forbici e la ferii.Fu allora che si parlò per la prima volta di manicomio. Passai la giovinezza nella minaccia d’essere rinchiusa. Questo mi rendeva furiosa. In paese avevano cominciato a chiamarmi la pazza del macellaio.A 18 anni precisi incontrai Jean-Pierre, di dieci anni più grande, e rimasi stupefatta davanti al suo volto pieno d’amore. Cominciammo a vederci di nascosto. Nel bosco dove nessuno veniva mai, tra le rovine della cappella diroccata. La passione ci prendeva inesorabilmente: con lui ebbi il mio primo rapporto sessuale completo; fu a lui che diedi per la prima volta il mio stretto ma ormai voglioso sfintere. Era sempre lui a preoccuparsi di trovare qualcosa che potesse lubrificare, qualcosa di efficiente: non è affatto vero che la saliva, contrariamente a quando si racconta, riesca a sostituire un buon lubrificante, non con risultati soddisfacenti, almeno. Ero io, invece, che rinunciavo a questi utili, ma complicati preliminari (essendo in posti assolutamente non attrezzati, certi olii avremmo dovuto portarceli da casa) pur di ricevere la mia parte di cazzo anche nel posto più stretto che possiedo. Le prime volte furono torture: non mi piaceva per niente, provavo sempre dolore. Soprattutto la prima volta in assoluto: quella si, che fu un vero tormento. La testa che mi girava, io che credevo di svenire. Quando capii che lui stava per venire, io ormai non potevo sentire niente. Il dolore mi aveva resa a tal punto insensibile che non riuscivo a sentire altro. Poi rimase immobile, sopra di me, ancora dentro di me, mi morse la punta di un orecchio e pronunciò il mio nome. Ed io piangevo, in silenzio. Sentii che mi abbandonava, lentamente, ma allo stesso tempo mi rimase dentro, perchè il buco che aveva aperto tardava a richiudersi. Per fortuna le volte successive furono diverse, sempre meno dolore e sempre più piacere.Anche a lui piaceva, e tanto: me ne accorgevo dai gemiti, e soprattutto dalla velocità con cui raggiungeva l’orgasmo e scaricava dentro il mio retto tutto il suo liquido seminale. Era per questo che lo facevamo spesso, lo facevo soprattutto per farlo contento. Jean-Pierre era per me tutto! Non volevo perderlo, e per questo io gli davo tutto, anche il culo. Sebbene non raggiungessi mai quei picchi di piacere che provavo con un buon e salutare rapporto vaginale.Ricordo come fosse ieri il primo amplesso vaginale. Ricordo anche la sua autorità, la sua importanza.Eravamo entrambi sul prato, accanto alle rovine della cappella. Mi obbligò a girarmi, le ginocchia per terra, la guancia appoggiata su un tronco, le mani per terra. Non potevo vederlo, ma ascoltavo le sue parole.”Accarezzati finchè non cominci a sentire che vieni”, disse, ed io obbedii immediatamente. Seguii i suoi ordini e cominciai a sentire una valanga di sensazioni fino a poco fa sconosciute, chiedendomi fino a quando avrei dovuto continuare, finchè il mio corpo cominciò a dividersi in due. Fu allora che, istintivamente, dissi “Vengo”.In quel momento mi penetrò, lentamente ma con decisione.Mi stava rompendo, la figa mi bruciava terribilmente. Tremavo e sudavo, provavo molto dolore. Prima che potessi rendermene conto gli stavo chiedendo di smettere, di lasciarmi stare almeno un momento, per riposare, perchè non ce la facevo più a sopportare.Ma non mi rispose, e rimase immobile dentro di me.Quando iniziò a muoversi, il dolore era ormai terrificante. Lui imprimeva un ritmo notevole, da dietro. Aggrappato ai miei finachi, entrava ed usciva da me ad intervalli regolari, attirandomi e respingendomi lungo quella specie di sbarra incandescente di cui era dotato.Il dolore non svaniva, ma, senza smettere di essere dolore, acquisiva tratti diversi. All’entrata cominciava ad essere insopportabile, in quel punto mi sembrava veramente di dividermi in due, ma dentro era diverso. Il dolore si diluiva in note più sottili, ma non svaniva, rimaneva lì a pulsare per tutto il tempo, finchè alla fine, il piacere non se ne staccò, crebbe e, finalmente, ebbe la meglio. E mentre sentivo ormai gli ultimi spasmi, e le mie gambe smettevano di tremare, Jean-Pierre crollò sopra di me, emettendo un grido affogato, acuto e roco al tempo stesso, ed il mio corpo si riempì di calore. Rimanemmo così per un bel pezzo, senza muoverci. Ed io ero felicissima.A lui ho fatto anche i miei primi pompini. I primi, lo ammetto erano goffi, impacciati, ma dopo un po’ di allenamento, grazie anche ai suoi precisi consigli, diventavo una maestra, una “dea dei pompini”, come mi chiamava lui, con affetto. Ero bravissima nel succhiare tutto il suo seme, senza far andar perduta una sola goccia. Perchè sapevo che questo lo faceva impazzire. Ed anche a me, quel sapore amarognolo non dispiaceva affatto.Ecco perchè avevo un solo pensiero: correre da lui, nel nostro nascondiglio, quando gli altri dormivano. Mi calavo giù dalla finestra, come una gatta… finchè una notte mio padre mi scoprì. Mi prese a calci, e furono tutti d’accordo: era arrivato il momento fatidico, quello di farmi rinchiudere, perchè portavo disonore alla casa. E volevano sapere chi era lui. Ma io feci intendere che andavo con chiunque, che la davo a tutti, temendo per Jean-Pierre l’ira di mio padre. Lui non mi credeva. Prese la frusta, dicendo calmo: “Lo sputerai, quel nome”. Fu allora che Jean-Pierre bussò alla porta. Con due testimoni, veniva a chiedermi in sposa.Ma io, pur nella mia immensa felicità, mi sentivo sempre in debito con lui: era lui ad avermi salvato dalla mia famiglia di pazzi. Fu per questo che lo convinsi, e solo per il suo bene, ad accettare un patto: “Staremo insieme solo finchè sarà per te perfetto”, ” Ma anche se un giorno dovessimo lasciarci”, disse Jean-Pierre, “Io ti difenderò sempre dalla casa dei pazzi”.Facemmo due bambini, Caterine e Marcel.Morì il padre di Jean-Pierre, di una malattia costosa. Ancora affranta dalle spese, la suocera venne a stare da noi. Riuscimmo comunque a portare avanti un matrimonio che era vicino alla fine. Eravamo vicini ai 10 anni di matrimonio, ma qualcosa si era incrinato.Jean-Pierre diede una grande festa in giardino, per l’anniversario delle nozze. Venne anche la figlia del fiorista, ad aiutare il padre ad addobbare il giardino, e restò anche per la sera, per la festa. Samadhi, una ragazza bella, diciotto anni appena compiuti (tanti quanti ne avevo io quando conobbi e mi innamorai di Jean-Pierre) ed ancora senza fidanzato, perchè era troppo carina, ed intimidiva i giovanotti.Jean-Pierre la guardò tutta la sera di nascosto, io me ne accorsi. Bevve molto quella sera. Quando lei andò via, lui le corse dietro, malfermo, gridando “Ha perduto il suo mazzetto! Mi aspetti”. Si incontrarono sul cancello. Fin da lontano mi sembrava di sentire i loro respiri, ammalati dalla voglia di baciarsi. Ma non lo fecero, e mentre Jean-Pierre tornava indietro, io avevo orrore di me. Quel bacio mancato mi straziò per giorni. Non ero più la sposa, ma l’odiosa guardiana.Come potevo ormai gioire di una fedeltà dovuta al timore?Lo pregai di andare da lei. Ma lui negava, ed una sera mi disse: “Sei pazza!”.Per la prima volta.Fu allora che decisi di recarmi in città, da zia Rocca, per un periodo di riflessione. Dopo le nozze, era la prima volta che mi allontanavo da casa.Dopo quindici giorni senza Jean-Pierre mi trovai una sera da sola (la zia era uscita). Era buio, ed avevo paura. In quel momento, le mie mani, che sono sempre le più sapienti, cercarono il sesso. Per la prima volta senza Jean-Pierre.Mi ricongiunsi a me stessa. Non avevo più paura, ora non erano più nemiche le potenze del buio, non a chi ascolta il corpo e segue le sue mani. Scoppiai in un orgasmo potente, liberatorio, che riuscì a farmi ritornare, seppur per poco, il sorriso.Il giorno dopo ritornai a casa, con una giocosità diversa.Il patto con Jean-Pierre era infranto per sempre. Entrambi avevamo un segreto: il mio riguardava il rapporto con me stessa, il suo il rapporto con Samadhi, che vedeva ogni giorno.Non volli più unirmi a lui.Jean-Pierre allora mi abbandonò poco a poco nelle mani della suocera. Cominciò un calvario di piccoli intrighi domestici, di meste umiliazioni. Ero diventata estranea alla famiglia. Cominciai con l’hashish, e continuai con l’oppio.Ritornai ad essere la pazza che non pensavo di essere e che tutti credevano che fossi.Decisi allora che la migliore famiglia per i miei bambini, Caterine e Marcel, dovesse essere quella composta da Jean-Pierre e Samadhi. Così fu. Me ne andai, e per sempre. Ero impazzita dal dolore. Volevo stare sola, ed andare in un posto tranquillo; magari sarei andata su quel casolare in montagna, dove vivono solo donne: una specie di clausura.Avevo preso con me un po’ di denaro, non tanto.Il minimo indispensabile per poter ricominciare, si, perchè volevo ancora ricominciare, non volevo mollare! Non sapevo nulla del mio futuro, ma avevo deciso che ne avrei avuto ancora uno.Salii sulla carrozza e dissi “Alla casa sulla collina” all’uomo a cassetta.Quello, stupefatto, rimase con la frusta a metà…Poi si avviò senza fiatare, ma quando credeva che non lo guardassi, si girava ad osservarmi.Non gli chiesi il perchè del suo imbarazzo. Nè sapere cosa troverò in quella casa mi dà alcuna inquietudine. Avevo appena affrontato, con l’addio ai figli, il maggiore ostacolo che la vita potesse mettermi di fronte.Ero però, in effetti molto curiosa.Traversammo la gola selvaggia, il ponte del Condor, che trema perennemente sul torrente turbinoso. La cosa portava via la mia vecchia vita: finta signora…Addio.Intanto mi appisolai. Il cocchiere mi svegliò. Aprendo gli occhi, mi trovai davanti la casa.Sulla porta c’era già Madame Guyere, col bastone e l’occhialino, in grande allarme, che m’aveva scambiato per una delle solite mogli che venivano di nascosto a farle scenate, a piangere, a offrire denaro perchè i loro mariti fossero sbattuti fuori.Scene rare ma oltremodo seccanti, in cui l’unica arma della vecchia era darsi un gran tono. Mi affrontò con fermezza: “Questo è un bordello onorato, signora”. Fu solo allora che appresi d’essere al bordello.Sentii un buon odore di panni puliti, ed un buon odore di cose sporche.”Voglio rimanere”, le dissi. E Madame Guyere svenne. Lei, che aveva sempre sognato di vedere una donna elegante, con tanto di cappello, chiederle lavoro. Ma, si sa, i sogni son cosa diversa dalla realtà: eh no, la povera Madame questa proprio non se l’aspettava!Pagai il cocchiere, ed entrai, e, facendomi aiutare, portai dentro anche Madame.Brusca fu il risveglio di Madame Guyere, che mi disse “Poche arie, cocca, adesso ci racconti perchè sei venuta qui”, pensando che io fossi una di quelle donne, mandate dal marito, per fare e portare a casa i soldi.Ma Virginie, una delle puttane più giovani, ma non per questo cattiva, tra sè e sè, mormorava “l’avranno cacciata di casa, chissà che ha combinato… s’è venuta a nascondere, sennò, una che ha il marito, mica è matta”.Ma Donna Lena disse a tutte “Zitte, sceme, quella è venuta per chiavare, che le mogli chiavano pochissimo, alcune solo a Pasqua e ai Morti, prova ne sia che i loro marti stanno sempre a farsela con noi”. Questa spiegazione le acquietò. Meno male, perchè io, cosa c’ero andata a fare, lo sapevo meno di tutte.Ecco quindi che iniziai ad affezionarmi a Donna Lena.
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