Capitolo 3 – Il SegnoOrmai erano quindici giorni che Elfrida lavorava alla Maribor, e non si erano verificate grandi novità. Aveva comprato una segreteria telefonica che regolarmente registrava messaggi di Filippo, a volte imploranti a volte imperiosi. La sua vita era radicalmente cambiata, così come il suo guardaroba, sexy ma raffinato, proprio come da disposizioni.La cosa più misteriosa era stato il regalo aziendale. Sulla scrivania da segretaria aveva trovato un pacchetto accompagnato da un biglietto anonimo, sul quale c’era semplicemente scritto, a mano ma in stampatello: “indossalo sempre”. Sorpresa, aveva aperto il pacchetto: la carta copriva un piccolo porta gioie. Dentro c’era una collanina con un ciondolo, un triangolo d’oro con al centro una… come dire… una gemma, a forma d’ovale. Una gemma piuttosto strana, scura ma lucida. Una gemma che, ad uno sguardo attento, sembrava quasi un… ma no, che sciocca a pensarlo!Il suo ufficio era confinante con quello di Perrone. Una porta rendeva comunicanti le due stanze.Si era quindi affacciata alla stanza del dirigente, con il ciondolo in mano. “Dottore” aveva detto, mostrando il gioiello. In cuor suo sperava che fosse proprio Perrone il generoso donatore. Si stava invaghendo di quell’uomo, forse se ne stava innamorando, anche se il suo orgoglio di donna era infastidito dall’apparente indifferenza di lui.”Ah!” aveva esclamato Perrone. “Il regalo aziendale.”Ogni tanto, aveva spiegato, i dipendenti particolarmente meritevoli ricevevano un regalo aziendale. No, non sempre la stessa cosa. Quel ciondolo, poi, non lo aveva mai visto.”Ti consiglio comunque di seguire le istruzioni” aveva concluso: “indossalo sempre.”Cosa che Elfrida aveva fatto.Le avevano poi insegnato l’uso del computer e della posta elettronica.Per il resto, il lavoro era tipico di una segretaria: tenere nota degli impegni, fare da filtro telefonico, battere lettere a macchina. Si riteneva efficiente, Perrone non si era mai lamentato e quindi tutto sembrava andare per il meglio.Ogni tanto si soffermava a ragionare su se stessa e su ciò che le stava capitando.Innanzitutto, la sue inclinazioni sessuali: lesbica e masochista. Un casino. Non aveva più visto nè sentito Elisabetta, ma al solo pensiero delle umiliazioni subite nel sotterraneo della boutique si sentiva mancare il respiro e saliva a fior di pelle un’irresistibile eccitazione.Poi, l’osservatore. Sapersi osservata aveva aumentato a dismisura il piacere. Doveva trattarsi di una componente esibizionistica della sua sessualità. Puttana! Cosa stai facendo? Ti sei dimenticata di me, della tua padrona? Dobbiamo assolutamente vederci, troia. Telefonami ORA. E. E come Elisabetta. Appena scaricata la email e lettone il contenuto, si sentì quasi mancare. Quelle parole, incredibile a dirsi, le avevano provocato un brivido lungo la schiena ed aveva sentito la fica quasi sciogliersi ed aprirsi.Dopo uno sguardo alla porta chiusa dell’ufficio di Perrone, compose il numero del Fleurs du Mal.”Pronto?” La voce non era quella della sua padrona.”Buongiorno” disse quindi. “Cercavo la signora Elisabetta.””Elisabetta? Gliela passo subito.”Seguì la solita musichetta tipo carillon.”Elfrida!” esclamò la voce di Elisabetta. Parlava sottovoce, come per non farsi sentire da altri. “Troia. Questa sera devo vederti, ho delle cose in mente.”Elfrida si immaginò Elisabetta che, autoritaria e con i capelli cortissimi, parlava all’interno del negozio tenendo la cornetta del telefono in mano. E provò suo malgrado fortissimo il desiderio di stare tra le sue mani.”Signora” balbettò, “ho già un appuntamento, purtroppo.”Era vero. Avrebbe voluto non aver acconsentito a rivedere Filippo, suo marito. Ma era stato così insistente, e le era parso così disperato, che aveva ceduto e gli aveva dato un appuntamento presso un locale che si chiamava “Da Burt”, un misto tra un pub all’inglese ed una discoteca.”Cosa cosa?” commentò Elisabetta. “Senti, cocca. Obbedisci e basta.””Ma signora, io…”Suo timore era anche quello di scontentare, eventualmente, l’osservatore. “Taci, zoccoletta!” Elisabetta sembrava arrabbiata e la voce suonava stizzosa. “Sai che non hai facoltà di disobbedire, con me.”Le venne quasi da piangere. “Signora, io…”Il telefono rimase muto: Elisabetta aveva riattaccato.Senza sapere neanche perchè, estrasse da sotto la camicetta scollata che indossava il ciondolo triangolare con quel simbolo ovale al centro.”Elfrida” gracchiò il citofono, facendola sobbalzare. “Può venire?””Arrivo, dottore.” Rimise il ciondolo al suo posto. Si alzò ed entrò, dopo aver bussato, nell’ufficio di Perrone. “Dica.”Perrone la guardò assorto. “I vestiti vanno benissimo” disse. “Ma non dimentichi mai il ciondolo, sotto. Sicuramente ha un significato.” Appena entrata nel locale ed abituati gli occhi all’oscurità, individuò il tavolino al quale era seduto Filippo. Sorseggiava un alcolico ed appariva curato nell’aspetto.”Ciao” disse semplicemente, sedendosi.”Ciao” rispose lui, sforzandosi di sorridere. “Cosa ti posso offrire, Elfrida.””Una birra” rispose.”Come sei cambiata” disse lui, dopo un po’. “Non ti riconosco più, quasi, sai? E che vestiti di lusso.”Elfrida annuì. “Mi pagano bene” spiegò. “Per i vestiti ho delle facilitazioni.””Ancora non ho capito bene che lavoro fai” chiese senza dar mostra di domandare.”Segretaria.””E te la fai con i froci?”Non riuscì subito a realizzare il contenuto della domanda. “Cosa vuoi dire, Filippo!””Quell’uomo in macchina, con te. Lo sanno tutti che è frocio.”Fece per alzarsi, quasi offesa dalla insinuazione. Ma Filippo sorrise e la convinse, in quel modo, a restare.”Be’, dopo averti visto in quel modo, dentro quell’auto di lusso, con quel signore distinto, tu senza le mutande, così… posso dirtelo, Elfrida? Così perduta.” Bevve un sorso dal bicchiere. “Ho fatto le mie indagini. È un noto omosessuale… insomma, si dice che lo sia.”Questo spiegava, pensò Elfrida, il disinteresse nei suoi confronti.”E se fosse?” domandò, fingendo noncuranza. “E’ solo il mio capoufficio.””Per questo volevo chiederti che lavoro fai” spiegò lui. “Non tutte le segretarie vanno in giro senza mutande nelle auto dei loro capiufficio amoreggiando al chiaro di luna.” Aggiunse: “Omosessuali, per giunta.””Ascolta, Filippo. Se avessi immaginato che volevi interferire con la mia vita privata, non sarei venuta.””Ma no ma no, ho finito” la rassicurò. “Poi anch’io ho qualcosina da farmi perdonare, giusto?””Ti ho già perdonato” disse Elfrida, prontamente. “Ma non voglio ricucire lo strappo, per così dire. Sto vivendo una vita nuova, diversa, bella o brutta che sia voglio percorrerla da sola.”Filippo allargò le braccia. “D’accordo. Non parliamone più. Gustiamoci questa serata, ti va?”Elfrida sorrise: erano le parole che aveva sperato di udire. “Vado un attimo al bagno” disse alzandosi.All’interno della toilette, mentre osservava allo specchio lo stato del suo trucco, estrasse nuovamente fuori dalla scollatura il ciondolo, come per un presentimento. Rimase sbalordita: l’aspetto era cambiato. La gemma al centro del triangolo d’oro non era più uniformemente nera come l’aveva sempre vista: ora l’ovale era bianco con al centro un cerchio nero. Il tutto sembrava… cazzo, ma allora la prima volta aveva visto giusto! La gemma, insomma quella cosa che aveva chiamato gemma, doveva essere in realtà un qualcosa di tecnologico, come lo schermo di alcuni orologi a cristalli liquidi od il display di alcune calcolatrici. Un impulso ne aveva mutato l’aspetto, o forse un orologio interno. Il tutto sembrava come… Elfrida guardò se stessa allo specchio, come per essere certa di essere veramente lì in quel posto in quel momento e di non stare sognando.Un occhio che si era aperto dopo essere stato chiuso. Ecco cosa rappresentava l’ovale. Ed il fatto che fosse stato messo all’interno di un triangolo, sembrava voler riecheggiare uno dei simboli della religione, l’occhio di Dio. C’era un intento derisorio? Non se lo chiese neanche, in un primo momento. Ma le venne in mente l’osservatore, subito. L’occhio aperto e quello chiuso potevano significare rispettivamente: “ci sono, ti sto guardando” e “non ti sto guardando.”L’osservatore voleva che lei sapesse di essere osservata.L’osservatore doveva essere nel locale, quella sera. Con un telecomando, accendi spegni ovvero apri chiudi l’occhio sul ciondolo.”Ciao, troia!” Elisabetta le apparve a fianco dentro lo specchio. Si voltò di scatto come per sincerarsi della sua effettiva presenza fisica. Era lì.”Allora era vero, dovevi venire qui in questo posto schifoso.” Si guardò intorno. “Un posto adatto ad una merda come te.” Era vestita con una lunga gonna rossa attillata ed aveva tinto di rosso anche i capelli, cortissimi come sempre. A vederla Elfrida ebbe la sensazione di boccheggiare e le sembrò che le viscere all’interno del suo corpo desiderassero ancora una volta la sofferenza. Forse era stato proprio il desiderio inconscio di incontrarla a farle raccontare per telefono di quell’appuntamento con Filippo.”Bene bene” disse Elisabetta, guardandosi attorno. “Sei stata proprio cattiva, con me. Capisci che devi essere punita, vero?”Umida tra le cosce come non era mai stata, “Sì, signora” rispose Elfrida, a testa bassa e rossa in volto.L’ambiente in cui si trovavano era angusto e rischiava di diventare troppo frequentato, di lì a poco. Ma c’era un locale più ampio, la toilette per persone disabili. “Entra lì” ordinò Elfrida.Elfrida obbedì spingendo la porta. Elisabetta la spinse dentro e chiuse a chiave. Forse c’era una telecamera nascosta da qualche parte, e l’osservatore si stava gustando la scena.Dopo pochi istanti bussarono alla porta. “Occupato” disse Elisabetta.”Cerco occupazione” rispose una voce. Doveva trattarsi di una risposta convenzionale; infatti Elisabetta aprì la porta e fece entrare un uomo, muscoloso e di pelle scura.”Elfrida, ti presento Lotar” disse. “Lotar, questa è quella troia di Elfrida.””Sei una grande zoccola, mi hanno detto.””Sì, signore.”Lotar sorrise. “Brava, come sei obbediente.” Aprì la pattuella dei calzoni e portò alla luce il proprio cazzo. “Succhialo” ordinò Elisabetta.”Sì, signora.” Vergognandosene, Elfrida si inebriò di godimento al pensiero di Filippo che se ne stava, ignaro, seduto al tavolino poco distante in linea d’aria. Si inginocchiò ed impugnò il membro di Lotar. Ammirò le unghie smaltate di rosso della propria mano risaltare volgari contro quella pelle nera. Massaggiò il cazzo e poi posò le labbra proprio in cima alla cappella. Succhiò come avrebbe potuto fare con un ghiacciolo alla menta. Il cazzo immediatamente si irrigidì ed allora con la lingua si mise ad esplorare tutta la pelle tesa. Lotar mugolò di piacere e strinse i glutei. “Davvero, sei una gran troia” commentò.”Lotar, tirati giù i pantaloni” ordinò Elisabetta con il solito cipiglio autoritario. Dopo che Lotar ebbe eseguito, si rivolse ad Elfrida. “Senti, puttana. Leccagli bene i coglioni, ma proprio per bene. Devi lucidarli con la tua saliva, capito?”Elfrida si abbassò con la testa e sempre tenendo il pene in mano, lo scansò verso l’alto e cominciò a leccare la pelle molto più morbida dello scroto. Gli ordini erano stati di lucidare: un po’ di saliva scendeva a gocce verso il pavimento.”Il culo Elfrida, leccagli il culo.”Elfrida si inginocchiò e mise la testa fra le gambe di Lotar, che si allargarono un po’.”Che zoccola che sei, che zoccola che sei!” disse eccitato il negro.Elisabetta osservò che il cazzo di Lotar era ormai pronto per sborrare.”Ascoltami troietta. Prendilo in bocca e fatti sborrare dentro. Devi bere tutto, capito, tutto! Sarai punita se ne farai cadere anche una sola goccia.””Sì, signora.”Prendendolo nuovamente in bocca, Elfrida si rese conto di quanto il cazzo si fosse ingrossato. Lo sentì muoversi a stantuffo dentro la bocca in modo da gonfiare dall’interno le sue guance. Lo sentì poi esplodere e si sentì inondare di sperma, che come una marea si allargò sulla lingua, si raggrumò ai denti, schizzò in parte fino in fondo alla gola facendole venire quasi un conato di vomito, ma deglutì, deglutì e deglutì ancora. Gli ordini erano stati di non farne sprecare neanche una goccia e raggiunse quasi l’orgasmo dicendosi che era una grandissima porca a comportarsi in quel modo. La sua fica divenne viscida quando pensò all’occhio sul ciondolo triangolare e quindi all’osservatore che, ne era certa, o comunque aveva piacere di immaginare, la stava osservando pensando tra sè e sè che una donna così troia non l’aveva mai incontrata.”Mmmm…” gemette, ed Elisabetta si accorse del vortice di piacere in cui Frida era precipitata.”Puttana!” la sgridò. “Guarda quanto ne hai fatto cadere.”In realtà per terra c’era finita solo della saliva.”Sì, signora” disse Elfrida. Lotar ridacchiava, ma era eccitatissimo anche lui.”La tua punizione consiste nel toglierti mutande e reggiseno” sentenziò Elisabetta. “poi torna pure da tuo marito. Io e Lotar ti osserveremo.””Come da copione” pensò. Oltre all’osservatore, anche Elisabetta ed il negro l’avrebbero osservata. Tutti a vedere quanto era capace di essere puttana.Era vestita con uno degli abiti del “Fleurs du mal” quindi piuttosto succintamente. Privarsi degli slip e del reggiseno avrebbe significato mostrare molto di sè in parecchie circostanze. Nel togliersi il reggiseno, diede un ulteriore sguardo al ciondolo: l’occhio era aperto.Uscendo dalla toilette, si accorse che erano passati in tutto quindici minuti, non di più. Si era sciacquata abbondantemente la bocca. Elisabetta e Lotar erano usciti prima di lei e sembravano avventori qualunque. In più, si disse Elfrida, da qualche parte stava rintanato l’osservatore. “Eccomi” disse sedendosi di nuovo al tavolino di Filippo. Sperò di non apparire stravolta ed al contrario cercò di apparire disinvolta. Le luci si abbassarono ed una musica lenta si diffuse. Nella pista da ballo alcune coppie si abbracciarono.”Ti senti bene?” chiese Filippo.”Certo, benissimo.””Sei stata a lungo al bagno.””Un quarto d’ora” disse con noncuranza.”Scusi, potrei invitarla a ballare?” s’intromise una voce.Elfrida guardò il giovane. Pur nella penombra del locale, lo riconobbe. Guardò Filippo, che non le diede il tempo di parlare.”Ma certo” disse. “Elfrida, se vuoi vai a farti un giro in pista. Io ti aspetto qui.””Veramente…” iniziò a dire Elfrida. Ma il giovane: “La prego…””Vai, se vuoi” disse ancora Filippo.Elfrida si alzò e si diresse verso la pista da ballo, il giovane dietro. Una volta in posizione, gli gettò le braccia al collo e lui le cinse con le mani la vita.”Mi hai riconosciuto” le sussurrò lui all’orecchio. Non si capiva bene se era una domanda od un’affermazione.”Sì” rispose semplicemente.”Ho sempre sognato di incontrarti di nuovo. Non mi sembra vero, ti ho ritrovata.” Visto che Elfrida non diceva nulla, il giovane proseguì: “Mi chiamo Ugo. Tu?””Un nome strano: Elfrida.””Vai sempre vestita a quel modo, Elfrida? Intendo dire… come al ristorante.”L’enormità della situazione apparve subito chiara ad Elfrida. Pensò che il fato certe volte faceva sentire la sua voce anche troppo forte. Stava ballando con il cameriere del ristorante che le aveva raccolto il tovagliolo e che nel farlo aveva visto che non portava le mutande. Lei per giunta aveva dischiuso le gambe e si ricordava perfettamente la sensazione provata ed il desiderio di sdoppiarsi in modo da poter assistere anche lei alla visione, in modo da provare piacere del piacere altrui. Fatalità, anche in quella occasione era senza mutande e senza reggiseno. Suo marito la osservava ballare. Alle spalle, per così dire, di Filippo, le sue mosse erano osservate dalla dominatrice Elisabetta e da Lotar di cui aveva appena ingoiato lo sperma nei cessi del locale. Dietro a tutti, l’osservatore. “Da quel giorno, ti desidero” stava dicendo il cameriere. Elfrida sentì una mano appoggiarsi appena sulla natica. Cercò di immaginare se l’uomo potesse accorgersi della mancanza degli slip. Di nuovo avvertì la tentazione fortissima di comportarsi da puttana: ne avrebbe ricavato, ancora una volta, quell’umiliazione intellettuale capace di farle raggiungere vette altissime di godimento. Non si oppose alla mano di Ugo che frugava, prima cautamente poi sempre più audacemente, sotto la cortissima minigonna. Sospirò forte proprio in faccia all’uomo quando sentì la pelle di quella mano carezzarle il culo. Ugo sentì la nuda pelle e considerò essersi avverato il suo sogno: quella donna non indossava mutandine. Trasalì ed un impeto di passione gli scoppiò nei pantaloni, per cui la strinse forte. Elfrida inserì una gamba tra quelle di Ugo e con la coscia premette contro il pene gonfio. Lasciò che l’uomo con la lingua percorresse il bassorilievo del suo orecchio. Lanciò uno sguardo in direzione di Filippo: attraverso la penombra, i giochi di luce e l’atmosfera fumosa, lo intuì più che vederlo. Allargò le gambe nel sentire la mano di Ugo che si era infilata tra le sue cosce ed era talmente eccitata che l’uomo riuscì quasi a metterle tutte e cinque le dita dentro.Anche Elisabetta e Lotar guardavano nella sua direzione.Ugo le afferrò allora una mano e la trascinò dietro un separé. Ce ne erano alcuni, in quel locale, per donare un po’ di intimità alle coppie. “Ti voglio” le disse Ugo.”Ma qui…” mormorò Elfrida. Il posto non era adatto per una scopata: poca intimità. I separé potevano andare bene per una coppia di fidanzatini in vena di scambiarsi qualche effusione e fare un petting leggero. Ma Ugo l’aveva già posizionata alla pecorina e si era ritrovata, in un lampo, con il culo in aria e le braccia appoggiate sulla spalliera di un divanetto. Aveva già il cazzo durissimo in fica e subiva i poderosi colpi di quell’uomo eccitatissimo. Ad ogni colpo, violento, il divanetto tremava e la spalliera urtava contro la parete producendo un suono legnoso.Ugo venne subito. Era talmente eccitato che ci volle pochissimo. Estrasse subito il cazzo che ancora schizzava delle gocce. Ancora una volta il suo vergognoso comportamento da puttana l’aveva sopraffatta. Si voltò ansante e mentre Ugo si era fatto da parte, stravolto, Filippo le stava davanti.”Allora sei proprio troia” le disse. Aveva il cazzo in mano e si stava masturbando. Prima che potesse ripararsi, Filippo le sborrò in faccia e dovette chiudere gli occhi. Quando li riaprì, Filippo non c’era più; in compenso, la musica nel locale era cessata e parecchie persone si erano assembrate. La guardavano seminuda, seduta sul divanetto, dietro un separé, sporca di sperma sulla faccia.Un uomo si fece largo. “Cazzo, ragazzi, ma mi volete far chiudere il locale?” Si parò davanti ad Elfrida con le braccia messe come i manici di un’anfora, le mani sui fianchi. “Cazzo succede?” chiese, salvo farsi morire le parole in bocca quando vide Elfrida.Elfrida guardò la gente, notò Elisabetta che la fissava intensamente. Sicuramente l’occhio sul ciondolo era aperto.Sentì lo sperma colarle dal naso sulla bocca. Allungò la lingua e ne assaporò il gusto. Poi si alzò ed uscì dal locale. Nessuno ebbe il coraggio di fermarla.Salì sulla sua auto e si diresse a casa. Appena entrata, si appoggiò ad occhi chiusi sulla porta. Chi era? Cosa stava diventando? Avrebbe avuto mai fine quel vortice di perversione in cui stava precipitando?Guardò il ciondolo: l’occhio si chiuse proprio in quel momento.
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