Ormai ero completamente asservito ai voleri della mia PADRONA, avevo perso ogni dignità, ogni volta che la vedevo mi annullavo completamente al suo potere, alla sua bellezza, alla sua suprema autorità. Ero ridotto nulla più che un oggetto, LEI se ne rendeva conto e non faceva nulla per attenuare la situazione, godeva nel dominarmi, godeva nel vedermi soffrire, si esaltava nella mia umiliazione, a volte avevo paura della sua crudeltà, ma io la adoravo ed ero pronto a fare quello che LEI, proprietaria ormai della mia mente, mi avesse imposto. Una sera segnò il passaggio dalla schiavitù alla completa sottomissione, fisica e cerebrale, quella notte diventai un oggetto, un esclusivo oggetto della mia PADRONA. Era una serata come le altre, la mia PADRONA si divertiva a stuzzicarmi, mi faceva eccitare con i suoi tacchi che sfioravano il mio pene, per poi ghiacciarmi con improvvisi schiaffoni e umiliarmi e deridermi come solo LEI sa fare. Quella sera si inventò un gioco perverso: LEI, in piedi di fronte a me, in posa imperiosa e dominante, su dei tacchi altissimi, doveva sputare in terra, io, come abitudine ormai in ginocchio sui ceci, dovevo arrivare con la mia lingua prima del suo piede. Ovviamente il gioco era truccato, io non potevo vincere e il suo piede arrivava sempre prima: io così dovevo leccare la suola cosparsa della sua saliva e ogni volta che non riuscivo nel gioco, quindi sempre, mi prendevo la mia razione di frustate. La PADRONA si era ormai evoluta e possedeva vari tipi di frusta: quella che prediligeva era il cane inglese, sottile canna di legno, flessibile e terribilmente dolorosa. Quella sera le sue staffilate erano tremende e colpivano alternativamente i miei glutei, le mie cosce e la mia schiena. “non sei buono nemmeno a leccare” mi diceva ridendo, mentre colpiva sempre più forte, in preda ad un delirio di onnipotenza. “A cosa mi serve un verme come te?” io cominciai a urlare, a implorarla di smettere, di avere pietà, ma LEI continuava, tenendo premuta la mia testa sotto le sue scarpe. Al tutto si aggiungeva il dolore alle ginocchia procurato dai ceci, ai quali ancora non mi ero abituato. “Non urlare coglione, stai zitto” mi urlava sempre più arrabbiata, io ci provavo, piangevo, ma poi mi ritrovavo a implorare pietà. Le frustate cessarono per un attimo, poi sentii un dolore lancinante ai capezzoli, ai quali la mia PADRONA applicò due mollette; fece poi lo stesso coi miei testicoli, mi guardava, rideva, i suoi sputi mi ricoprivano la faccia, i suoi insulti mi riempivano la testa, io gemevo, disperato, ma LEI continuava a ridere e… si, ero eccitato, la doravo sempre di più. Ad un certo punto prese il posacenere pieno di sigarette e lo svuotò nella mia bocca “così la smetti di lamentarti schifoso verme” mi disse, “e se fai cadere anche solo un grammo di cenere te ne pentirai amaramente”, proseguì. Intanto col suo tacco stuzzicava il mio uccello, sempre più duro, era piacevole e se ne accorse, tanto che ad un tratto mi mollò un calcio: io non resistii e singhiozzai, facendo cadere la cenere in terra…. “Allora sei proprio un imbecille, non riesci ad obbedire ai miei ordini, sei un coglione” era veramente adirata, cominciò a frustarmi come mai aveva fatto prima, con una violenza inaudita, fino a che si fermò, andò nell’altra stanza e mi lasciò lì, umiliato, distrutto, completamente inerme. Ma non era finita, dal rumore dei suoi tacchi sentii che stava tornando, indossava un fallo artificiale legato in vita, era nero, enorme, non feci in tempo a sussultare che già mi aveva scaraventato con la faccia su una sedia, il mio culo offerto a LEI, come una puttana. E così mi chiamò: ”puttana schifosa, questo diventerai ora coglione”, non fece in tempo a terminare che già il fallo entrava dentro di me, con violenza, fino ad entrarmi tutto dentro. Io non vedevo più nulla, faceva male, al corpo e allo spirito, non ero più niente, ero diventato una puttana… e intanto LEI andava avanti e indietro, scopandomi senza nessuna pietà, insultandomi e deridendomi incurante del mio dolore. Dopo che mi ebbe scopato per bene, mi prese per un orecchio e letteralmente mi gettò dentro ad uno sgabuzzino, lasciando il fallo dentro di me, con le mani legate, i ceci alle ginocchia e la bocca impastata di sigarette e sputi. Passai la notte così., pensando al punto a cui ero arrivato, ma nonostante il dolore avrei voluto che LEI fosse ancora lì, a farmi male, ma che fosse con me, perché io l’adoravo, ero suo schiavo, ero un suo oggetto ed ero felice di esserlo!
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