Luisa aveva 21 anni. La scelta del marito e le successive nozze erano state volute dai suoi genitori e dalla suocera. Lui si chiamava Marco, 28 anni e non era proprio quello che si dice un uomo affascinante. Luisa era stata tenuta più o meno sotto chiave fino a pochi mesi prima del matrimonio. I suoi genitori le volevano un gran bene, almeno così sostenevano, e volevano a tutti i costi preservarla dalle insidie del mondo. Lei era una ragazza tranquilla ed aveva accettato per anni la prigione dorata in cui l’avevano rinchiusa. A diciotto anni vestiva ancora come una scolaretta, come esigevano le suore presso cui frequentava il liceo. Era piuttosto carina, anche se quell’aria dimessa che le imponevano mortificava la sua bellezza. Non era appariscente, la sua era di quelle bellezze raffinate che non colpiscono, ma vanno capite, interpretate. Come quella di certe opere d’arte. Aveva un viso di una luminosità opalescente. Sembrava presa fuori da un quadro di Raffaello: aveva un aspetto così fragile e delicato come se fosse fatta di vetro. Negli ultimi tempi la situazione in famiglia si era fatta insopportabile anche per una come lei. Aveva conosciuto Marco, che era il figlio di una cara amica di famiglia. Era rimasto orfano di padre in tenera età. Anche lui aveva una madre piuttosto severa, faceva il magistrato presso il tribunale dei minori. Ma i suoi dicevano che era una santa donna: aveva allevato quel bambino da sola, come meglio non si poteva e non finivano mai di decantare virtù e meriti di madre e figlio. Luisa e Marco andavano abbastanza d’accordo, forse anche per una sorta di solidarietà. Tra i due non era nato un grande amore, almeno non da parte di lei. Quando però i tre genitori proposero le nozze. Entrambi finirono col dire di sì. Lui anche con un certo entusiasmo. Lei un po’ perchè era stata sempre abituata a dire di sì e un po’ perchè pensò che il matrimonio avrebbe significato la liberazione da venti anni di amorevole schiavitù. Ma una cosa la poverina non aveva calcolato: che Marco e la sua amata mamma abitavano in una grande e bella casa. E con la crisi degli alloggi che c’è, la soluzione migliore era di andare ad abitare lì, almeno fino a che il maritino non si fosse affermato come avvocato e avessero potuto comprare una casa tutta loro. Luisa passò così dalle grinfie dei genitori a quelle della suocera. La signora Emma era una donna strana. Questo aggettivo veniva però alla mente solo quando la conoscenza si era un po’ approfondita. Al primo impatto era una donna di sicuro fascino. Severa, autoritaria, metteva soggezione. Ma era anche raffinata, elegante e soprattutto donna di grande cultura. Capace di gentilezze squisite, ma anche di usare il pugno di ferro. Il suo aspetto fisico era lo specchio della sua personalità. Alta, dal portamento severo, austera nel vestire, come il suo ruolo le imponeva. Aveva un viso dai lineamenti duri. Portava discretamente i suoi 49 anni. Luisa subiva il fascino di quella personalità molto forte. A differenza dei suoi, bigotti e basta, la suocera era intelligente e interessante. Non esultò all’idea di andare a vivere con lei, ma neppure le dispiacque più di tanto. Ancora non la conosceva bene. La conobbe non appena rientrò dal viaggio di nozze. In privato Emma rivelò una irresistibile tendenza al dispotismo. Dopo poche settimane Luisa capì che in quella casa avrebbe dovuto solo ubbidire. La suocera era padrona di casa a tutti gli effetti: decideva, disponeva, ordinava, sapeva anche essere gentile e premurosa, ma guai a contrariarla. E suo marito? Succube della madre. Anche di questo Luisa si accorse quasi subito. In quella convivenza c’erano anche aspetti positivi. Luisa era tenuta nella bambagia. Viveva in una casa bella e grande, anche se l’arredamento non le piaceva. Era perfettamente in tono con la padrona di casa: in una parola un po’ tetro. Mobili antichi, massicci e cupi; tappeti e tendaggi pesanti; soprammobili e ninnoli ovunque; c’era anche la statua di legno di una specie di saraceno. Non lavorava, il tenora di vita era piuttosto alto, suocera e marito erano buona parte della giornata fuori di casa e lei quindi godeva di notevole libertà. Ai lavori domestici più gravosi, compreso cucinare, pensava una colf. Tutto ciò rendeva la situazione abbastanza accettabile. Anche se a volte quella donna era davvero insopportabile. Ma Luisa non l’aveva ancora conosciuta fino in fondo. Le sorprese cominciarono una sera. Avevano da poco terminato di cenare. Emma chiese a Silvia se si era ricordata di pagare l’assicurazione. Rispose tranquillamente che se ne era dimenticata. La suocera cambiò di colpo: “Quante volte te l’ho ripetuto questa mattina di ricordarti di pagare l’assicurazione, ma con te è inutile, debbono pensare a tutto gli altri. – disse con voce apparentemente calma, ma con un’espressione del volto a dir poco furiosa – Non si può andare avanti così. La tua distrazione non è più tollerabile. Se dirti le cose non basta, bisognerà fare qualcosa d’altro”. Rimase alcuni secondi con l’aria di una che sta meditando sulla gravosa decisione da prendere, mentre Luisa se ne stava zitta, poi ordinò: “Marco tienila stretta”. “Luisa mi dispiace, ma mamma ha ragione” disse lui con aria fintamente contrita. Lei non credeva alle sue orecchie, ma non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quanto accadeva, che lui l’afferrò per le spalle e la chiuse in una morsa che le bloccò anche il respiro. Marco era un ragazzone grande e grosso e lei era così esile… Emma non perse tempo, le sollevò la gonna e lasciò partire una sculacciata sul suo sedere. Poi un altro più forte, poi un terzo. “Se una punizione è giusta – disse mentre colpiva, come se stesse emettendo una sentenza in tribunale – è un dovere infliggerla”. Luisa era talmente stravolta, che non riuscì neppure a parlare. Cercò per qualche secondo le parole, ma non le trovò. Allora scappò in camera sua. Dopo qualche minuto la raggiunse Marco. Lei era sul letto in lacrime. Lui l’abbracciò. Lei lo spinse via. “Luisa, cerca di capire, sai come è fatta mamma, è un po’ severa ma in fondo ti vuole un gran bene. Lei è così un po’ all’antica…pensa ancora che qualche bello schiaffo quando ci vuole, ci vuole…Tutte le mamme danno qualche sculaccione”. Luisa lo guardò con aria allucinata, ma lui continuò: “Sai, anche io ne ho presi tanti. E credo che siano stati giusti. E che mano pesante ha la mamma…però lei lo fa solo per il nostro bene…dopo avermi sculacciato, mi dava una pomata per farmi passare il bruciore…e mi massaggiava e accarezzava il sedere sino a che stavo bene…vedi, non è cattiva. Anzi dovresti essere contenta, perchè questa è la prova che ti considera come una figlia”. Luisa prima credette di sognare, ma quando sentì le ultime parole di suo marito cominciò a capire qualcosa di più sullo strano rapporto tra madre e figlio. Aveva già notato che vi era qualcosa di morboso, ora ne aveva la conferma. E ora quella donna stava tentando di sottomettere anche lei. Rimase zitta sul letto. Era talmente confusa che non riuscì a dire nemmeno una delle centinaia di cose che avrebbe voluto dire. Ma poi lui, suo marito, le avrebbe capite o sarebbe stato fiato sprecato? L’indomani pareva che non fosse successo nulla. La suocera era tutta sorrisi. Le chiese se aveva dormito bene e prima di uscire le fece anche una mezza carezza, cosa che non aveva mai fatto. Luisa era sempre più confusa. A volte capita che ad uno sorga il dubbio che anche le cose che appaiono più lampanti e abnormi in realtà siano solo il frutto di una esagerata sensibilità, di un’interpretazione sbagliata. Insomma Luisa non sapeva se doveva metterci una pietra sopra, come fosse stato un banale incidente o no. Nell’attesa di prendere una decisione passarono i giorni e alla fine le cose in casa tornarono alla normalità. Arrivò il giorno dell’anniversario del loro matrimonio. La sorpresa di Luisaa fu grande quando aprì il regalo che la mamma del suo maritino le aveva fatto. Nel pacchetto c’era una bella camicia da notte di seta rosa. E fin qui tutto normale, ma nel pacchetto c’era anche un completino di pizzo nero: reggiseno, un paio di mutandine microscopiche, reggicalze e un paio di calze, anch’esse nere e con il bordo tutto fiorito di ricami. Luisa rimase un attimo perplessa. “Non ti piace?” Chiese la suocera con una voce che sembrava già un rimprovero. “No…. è bellissimo…è che io non ho mai portato questa roba”. “Beh, non sei più una bimba – rispose con un sorriso vagamente beffardo – te l’ho regalato, perchè so che a Marco piacciono queste cose. E poi è ora che tu sia un po’ più femminile”. La sera uscirono a cena loro due, ma dovettero rientrare presto perchè la signora Emma non si sentiva bene e Marco non voleva lasciarla sola troppo tempo. La trovarono sul divano che guardava la televisione. Come entrarono Luisa capì che tirava una brutta aria. La suocera cominciò a brontolare e a rimproverarla per una serie di futilissimi motivi. Poi le chiese di portarle un bicchiere di latte. Luisa arrivò col bicchiere, ma con quelle scarpe coi tacchi, a cui non era molto abituata, inciampò in uno dei numerosi tappeti che foderavano la casa e il bicchiere le scivolò via. Il latte disegnò nell’aria come un grande fiore bianco e si spiattellò sul tappeto. Emma si alzò in piedi di scatto e la incenerì con lo sguardo. Poi cominciò una sequela di “Sei sempre la solita”, “Così non si può andare avanti” e via di seguito. Non valsero a placarla le scuse di Luisa. “Vedo che hai già dimenticato la lezione dell’altra volta” disse con quel tono da giudice dell’inquisizione che le veniva così bene. “E allora occorrerà rinfrescarti la memoria… Marco tienila stretta”. Luisa cercò di divincolarsi: “Vi prego lasciatemi stare..starò più attenta…ve lo giuro”. Ma quelle parole invece di impietosire la suocera sembravano renderla ancora più decisa e ormai più che il suono della ribellione avevano quello della rassegnazione. Il marito l’afferrò: “Stai buona Luisella – le sussurrò con voce quasi mielosa – non ti succederà niente”. “No, no lasciatemi – gridò lei – non potete…non..”. “Toglile la gonna – disse la suocera con voce imperiosa – se si ribella sarò costretta a rincarare la dose”. Ma Luisa tentò un’ultima disperata resistenza e Marco non riusciva a sfilarle la gonna. Allora intervenne la suocera. “Faccio io, tu tienila”. Sentì le sue mani forti slacciarle la cerniera e poi calarle la sottana. “Non ti sei nemmeno messa il completino di mamma” disse stizzito Marco. Non ebbe il tempo di reagire che sentì quelle mani spietate afferrargli i collant e tirarli giù con violenza. Le mutande le erano scivolate in mezzo alle natiche e nella stanza semibuia brillò il suo sedere, tondo come una mela e bianco come l’alabastro. Non si sarebbe detto che, esile com’era, avesse un sedere così paffuto. Marco si sedette sul divano e stese Silvia sulle ginocchia, proprio come si fa coi bimbi piccoli, bloccandola in quella posizione. “Questa volta le mani non bastano – sentenziò donna Emma con aria professionale – ci vuole questa” ed afferrò una cintura da pantaloni, chissà forse del defunto marito. Luisa continuava a gemere sommessamente, ma ormai impotente. Marco le accarezzava i capelli e le sussurrava parole di conforto: “Vedrai, in fondo non è poi così male” continuava a ripeterle. Luisa stringeva gli occhi in attesa del primo colpo che tardava ad arrivare. La vecchia si rigirava fra le mani la cintura e rimirava con aria concupiscente quelle carni candide e tenere su cui fra poco avrebbe affondato i colpi. Indugiava apposta per godersi fino in fondo il magnifico momento che separa l’oggetto del desiderio dal possesso di quell’oggetto. Anche se nel suo caso si trattava di un ben strano possesso. Ma in questo campo non ci sono regole. Anche infliggere punizioni, per chi ha ridotto la propria vita a una perversa missione educatrice, può rappresentare il massimo del piacere, intellettuale e fisico. Del resto chi saprebbe indicare dove comincia l’uno e dove finisce l’altro? E mentre noi stiamo qui a filosofeggiare, la povera Luisa se ne stava con le chiappe indifese all’aria, tese e serrate come il portone di una chiesa prima dell’assalto dei sacrileghi. Finalmente un leggero sibilo tagliò l’aria. La pelle di bambagia si rattrapì e i muscoli del suo sedere si contrassero ancora di più. Ma il colpo non era stato forte. Le aveva procurato appena un leggero pizzicore. Seguirono altri colpi abbastanza lievi. Luisa tirò il fiato e rilassò i muscoli. “Mia suocera non è poi così cattiva – pensò – voleva solo spaventarmi”. Ma la cinghia continuava a fendere l’aria e ogni volta che si appoggiava sulla sua carne lo faceva con più forza. “Luisa io lo faccio per il tuo bene – diceva la suocera lasciando cadere quell’improvvisata frusta sul quel povero bocciolo di carne rosa – guai a quei genitori che non sanno usare la forza quando è necessaria”. E giù un’altra frustata più forte. “Un giorno me ne sarai grata, nella vita bisogna imparare anche a soffrire. Dal dolore si esce fortificati nello spirito e nel fisico”. Sentenziava e colpiva. E colpiva sempre più forte. Ad ogni colpo il sedere di Luisa si rinserrava in uno spasmo disperato, nel tentativo di diventare sempre più duro e chiudersi in un impossibile guscio. La cintura squarciava l’aria e si abbatteva su quella carne che, da bianca era divenuta rosa e ora stava assumendo una tinta rosseggiante. Luisa, che sino a quel momento era riuscita, mordendosi le labbra, a non emettere neppure un lamento non ce la fece più. Lasciò andare i muscoli del sedere e le sue carni si offrirono indifese e molli alle sferzate. Cominciò a gemere e a implorare che la smettessero. La cosa non intenerì affatto la suocera crudele, anzi sembrò accendere ulteriormente la sua furia. Colpi ancora più violenti si abbatterono su quel fragile bocciolo che ormai si era dischiuso, come sotto i raggi ardenti del sole, in una grande rosa rosso sangue. “Promettimi che starai più attenta, promettimi che non farai più tanti disastri…che sarai una brava bimba, che non fari più arrabbiare la tua suocerina”. Donna Emma pronunciava queste frasi in preda a un’irrefrenabile ebbrezza. Ansimava e colpiva in un evidente stato di eccitazione, colta da un fremito che le impastava la voce e faceva uscire parole sconnesse dalle sue labbra. Luisa rimase alcuni minuti abbandonata con il sedere infuocato e paonazzo che anelava anche al più piccolo refolo d’aria che potesse ristorarlo. La suocera si ricompose, si raccolse le ciocche di capelli che erano sfuggite all’impeccabile acconciatura e si asciugò le gocce di sudore che le imperlavano la fronte e la gola. Luisa la guardava indecisa su quale sentimento provare: odio, disgusto, vergogna, paura, vendetta. Forse un po’ di tutto, ma forse anche qualcosa d’altro, qualcosa di indefinibile. Si chiuse nella camera degli ospiti e passò un bel po’ di tempo col sedere a mollo nel bidet. Tentò di infilarsi le mutande, ma le facevano troppo male. Andò a letto senza. Ma non riusciva a prendere sonno. Si rigirava nel letto tormentata da incubi a occhi aperti e ogni volta che sfiorava col suo culetto gonfio il lenzuolo sentiva un grande dolore. Ma non riusciva a stare ferma. E ad ogni movimento il dolore le partiva dal sedere per risalire tutto il corpo. Le bruciava tutto, ma continuava ad agitarsi. A muoversi come in una danza di autotortura, in preda ad una smania inspiegabile. Quasi senza accorgersene si era messa in schiena e con le ginocchia sollevate si massaggiava il sedere sul lenzuolo ruvido. Provava uno strano dolore dal quale non riusciva a separarsi. Più il bruciore le si conficcava nelle carni come mille aghi roventi, più insisteva a sfregarsi. Non capiva assolutamente cosa le stesse succedendo. Sapeva solo che non riusciva a cessare quella danza dolente e piacevolissima. Ogni volta che premeva quella rosa scarlatta, che ormai aveva al posto del sedere, sentiva come un brivido infuocato e poi gelido che le risaliva la schiena, le attraversava la testa e ridiscendeva sino in mezzo alle sue gambe. Accavallò le cosce e le strinse forte. Non aveva assolutamente il coraggio di farlo, ma doveva pur verificare se stava sognando o no. Se era già in pieno delirio da febbre o invece le stava accadendo una cosa stranissima e mai conosciuta prima. Si decise. Insinuò un dito tra le cosce e si toccò la figa. Era allagata, come non le era mai capitato di sentirla. Ritrasse il dito quasi vergognandosi, anzi a dire il vero un po’ spaventata. Come poteva tanta sofferenza averla ridotta in quello stato? Poi non seppe resistere, ve lo immerse di nuovo e riprese a strusciare il culo martoriato. Pochi secondi e il dolore si sciolse, sprofondò come in un gorgo sublime dentro la sua vagina e ne riemerse sottoforma di un piacere intenso, aspro, inimmaginabile. Che cosa avrebbe dovuto fare? Andarsene di casa? Denunciare suocera e marito? Metterle del veleno nel piatto? Scartò subito l’ultima ipotesi, non ne sarebbe mai stata capace. Scartò anche la denuncia, figurarsi se qualcuno avrebbe mai creduto alle sue accuse contro lo stimatissimo e inflessibile giudice Emma Masselli. Non le rimaneva che fuggire. Ma la fuga è qualcosa che non s’improvvisa, s’impara da piccoli. Non è cosa facile fuggire e Luisa aveva sempre respinto quell’istinto, sino a sradicarlo da sè. E ora? Si sarebbe alzata, sarebbe scesa a far colazione e avrebbe deciso che fare. Sapendo già che forse non avrebbe preso nessuna decisione. Anche perchè nella sua mente, non meno febbricitante del suo didietro, si agitavano forze contrastanti. Nebbiose e sfuggenti per lei, ma in realtà ormai chiarissime per chiunque. Vediamo di esporle schematicamente. Tralasciamo le ragioni per dare un taglio netto a quella situazione, perchè sufficientemente evidenti e passiamo a quelle che spingevano ad accettare che il fato compisse il suo lavoro. In primo luogo andavano messi sulla bilancia i pro e i contro di quel matrimonio: da un lato, è vero, c’erano stati quei due insopportabili affronti, ma dall’altro c’era un menage nient’affatto insoddisfacente. Felice Luisa non era, ma in quella casa si sentiva protetta, sicura e in fondo abbastanza libera. In secondo luogo tra lei e la suocera era già scattata quella sindrome d’odio-amore che lega spesso il carnefice e la sua vittima. Sicuramente odiava quella donna, ma sicuramente ne era anche affascinata. La temeva, ma ne era attratta, come spesso attraggono irresistibilmente le tenebre, quando ad attraversarle sono lampi nefandi. Era stregata da quella personalità diabolica a tal punto da vederla in alcuni momenti bellissima. Una specie di angelo del male che la torturava, ma da cui forse un giorno avrebbe attinto qualcosa dalla sua forza dominatrice. E infine c’era quella strana appendice che le scudisciate avevano avuto tra le lenzuola del suo letto. Le tornarono alla mente le parole del marito: “Vedrai, non è poi male come sembra”. E le parvero ora più inquietanti che mai. In casa, come già la volta precedente, nessuno fece il minimo cenno a quanto era successo la sera dell’anniversario. Tutto era tornato come prima, solo donna Emma, nei giorni successivi, si mostrò particolarmente affettuosa con entrambi. Ma Luisa non si dava pace nel suo tentativo di andare a fondo di quella questione. La questione dell’appendice tra le lenzuola, s’intende. L’arrosto alle prugne che Concetta, la domestica, aveva preparato era davvero eccellente. Ne mangiarono tutti e tre un bel po’. Donna Emma, quando si trattava di godere dei piaceri della tavola, metteva da parte la sua austerità, soprattutto se ad accompagnare l’arrosto era dell’ottimo Gattinara. “Luisa per favore mi versi un po’ di vino?”. A tavola amava farsi servire. Luisa prese la bottiglia e l’avvicinò al calice di pesante cristallo sfaccettato. Anche le stoviglie erano di quel gusto un po’ vecchio castello, che piaceva tanto a donna Emma. Appoggiò il collo della bottiglia sul bordo del bicchiere e guardò negli occhi la suocera, la fissò per alcuni secondi, le era così vicina che sentiva l’odore del vino che emanava il suo alito. Versò il vino. Aveva le mani sudate, ma la colpa non fu del sudore. Quando il bicchiere fu quasi pieno gli diede un piccolo colpo con la bottiglia e lo rovesciò. Il lino bianco della tovaglia divenne color sangue. Continuarono a fissarsi ancora per qualche secondo. Sfida e incredulità, complicità e ansia si specchiarono nei loro sguardi. “Che disastro che ho combinato, mi scusi…ora asciugo….non so proprio come ho fatto”. Marco la guardava stupefatto. Un sottilissimo sorriso increspò le labbra di Emma, come una lama di luce sinistra. Si alzò in piedi, si scrollò con calma qualche briciola di pane dalla gonna. Si passò il tovagliolo sulla labbra. Tirò un lungo e gustoso sospiro che le gonfiò il petto imponente. “Lo sai quello che ti aspetta” disse con voce calda, quasi affettuosa. “No, no, non l’ho fatto apposta..”. “E invece penso proprio che tu abbia bisogno di una nuova lezione”. “Luisa, mamma ha ragione- intervenne Marco – guarda come hai ridotto quella tovaglia. Lo sai che era un suo regalo di nozze?”. “Avanti Luisa – continuò la suocera – non fare storie. Se non fai resistenza sarà tutto più semplice”. E a quattro mani iniziarono a spogliarla. “No, vi prego, lasciatemi stare. Vi giuro che la prossima volta starò più attenta” continuava ad implorare Luisa, ma anziché dimenarsi e scalciare, come l’altra volta, sembrava quasi assecondare l’opera del marito e della suocera. Questa volta non le tolsero solo la gonna, ma anche la camicetta. Luisa rimase in piedi appoggiata alla tavola con addosso solo il completino di pizzo nero che le aveva regalato la suocera. Marco e la sua mammina rimasero per un alcuni secondi bloccati e senza parole. La loro preda era ormai nella tela, ma non ci era caduta, ci si era avvolta con innocente perversione. Ma ad aumentare la sorpresa era l’aspetto di Luisa. La crisalide non c’era più, ora avevano davanti agli occhi la farfalla. Sembrava impossibile, ma quello splendido corpo infiocchettato di provocante pizzo nero era uscito dal bozzolo della timida e brava ragazzina. Luisa cercava pudicamente di coprirsi con le braccia. “Questa volta sarà meglio legarla”. Le parole della suocera ruppero il silenzio come un’unghiata e dai suoi occhi sprizzavano lampi luciferini. La farfalla si era lasciata prendere nella tela, ma il gioco era appena iniziato e il ragno non voleva cambiarne le regole, così continuò a tessere la sua tela ignorando la resa. Marco come al solito eseguì diligentemente l’ordine. Prese da un cassetto due pezzi di corda grossa e bianca, sembrava di seta. Gliela legò ai polsi. Luisa ebbe paura e tentò di divincolarsi. Ma ormai era tardi per uscire dal gioco. Le bloccarono i polsi ai due braccioli di un divano stile Luigi XV, con le braccia aperte come in croce, e la fecero inginocchiare. Marco si sedette sul divano e le fece appoggiare la testa sulle sue ginocchia. Ora il suo sedere si protendeva nell’aria, come una magnifica torta offerta su un vassoio di pizzo nero. Emma rimase un po’ a contemplare quell’opera d’arte. Tale era l’incantesimo di quelle linee curve che si congiungevano e si separavano a disegnare globi di un armonia perfetta, che solo le cupole delle chiese riescono ad eguagliare. Quell’incanto ora era lì alla sua mercè, avrebbe potuto distruggerlo e ricomporlo ancora più sublime in una fusione di dolore e piacere. Donna Emma frugò in un cassetto, mentre Luisa tendeva ogni fibra del suo corpo in attesa che il suo destino si compisse. La suocera finalmente si avvicinò picchiettandosi sul palmo della mano un frustino, tipo quelli che si usano per l’equitazione. Lasciò partire un paio di colpi sulle cosce, come per assaggiare l’efficacia del nuovo strumento. Poi un centimetro alla volta cominciò a risalire verso quel mappamondo carnoso. E ad ogni centimetro la forza dei colpi aumentava fino a che una staffilata le si abbatté in pieno sul sedere con uno schiocco, che sembravano i piatti di un orchestra. Luisa emise un gemito rauco e si morse le labbra. La suocera continuava a colpire con calma e fredda determinazione. “Chiedi scusa per quello che hai fatto e prometti che non lo farai mai più. Altrimenti continuo”. “Non ho fatto nulla di male…”. Altre due frustate lasciarono la loro impronta su quelle tenere carni. “Chiedi scusa se vuoi che smetta”. “Ahahah come mi brucia…vi prego smettete” “Se vuoi che smetta devi chiedere scusa” e giù altri due colpi “Tanto quella tovaglia era anche brutta…” La suocera lasciò partire un colpo proprio in mezzo al solco di quella conchiglia di corallo. E poi un altro. Ormai era diventata tutta rossa in volto, la camicetta le si era un po’ sbottonata e a ogni colpo il seno le sobbalzava mettendo in mostra un invidiabile turgore nonostante l’età. Luisa pian piano era scivolata con la faccia lungo le gambe del marito. Mentre il suo povero sedere prendeva fuoco sentì sotto i pantaloni di Marco qualcosa che si gonfiava e induriva. “Brutto porco” pensò, ma poi subito ripensò che non era il caso di dar lezioni di moralità. “Ti fa male eh, ma basta che tu chieda scusa e io smetterò….” “Si mi fa tanto male” “Dove ti fa male…qui” e lasciò partire una scudisciata. “Sì, lì…ma anche più in giù” “Dove…qui” e giù un altro colpo “Sì, proprio lì, ma anche più in basso” La suocera ansimava ed emetteva gridolini d’eccitazione. Sembrava che anzichè frustare, qualcuno la stesse sottoponendo ad insinuanti attenzioni. Insomma stava palesemente godendo. Come totalmente arrapato era il bravo Marco, che con le mani premeva la testa della moglie contro i propri pantaloni. “Ti fa male anche qui?” E il frustino colpì ancora. “Aahh sì, come mi brucia lì”. Luisa divaricò le ginocchia ed inarcò il più possibile la schiena, così da porgere alla suocera la sua figa dischiusa. La suocera non se lo fece ripetere e affondò la frusta fra quelle labbra madide di umori. Luisa urlò, ma non ritrasse quel dono offerto, come su un altare sacrificale, alla spietata punizione della suocera. “Sì, lì mi brucia tantissimo…sì, lì, lì…ancora”. Emma, sbavando di delirante lussuria, le aprì le natiche con una mano e colpì ancora. E Luisa si contraeva e si apriva ad ogni sferzata. Il supplizio stava ormai dispiegando le ali dell’estasi. Finchè fu scossa da convulsioni, singhiozzò “scusa” e si accasciò sfinita. Rimasero tutte e tre abbandonati e ansimanti per un bel po’. Poi Marco disse: “Questa volta Luisa è stata davvero brava, merita un premio, vero mamma?” “Sì hai ragione” rispose la suocera e andò in un’altra stanza. Ritornò con un flacone in mano. Si inginocchiò dietro Luisa, che era rimasta immobile dondolando leggermente nell’aria il suo bel culetto martoriato, e versata un po’ di crema nel palmo della mano prese a massaggiarla. Lo faceva con tale delicatezza, che pareva impossibile fosse la stessa persona che poco prima menava fendenti. La crema era fresca e le sue mani sfioravano con dolcezza la pelle dolente. Era una sensazione stupenda, come quando dopo mesi di siccità, sulla terra spaccata dal sole, scende una leggera pioggerellina. Le mani della suocera senza alcun imbarazzo, l’accarezzavano amorevolmente, spingendosi pian piano all’interno del solco infuocato. Luisa ad occhi chiusi si godeva quel delizioso massaggio, quando sentì contro le sue labbra qualcosa di caldo e umidiccio. Aprì gli occhi e vidi il cazzo del marito ergersi davanti al suo naso, come un grande biberon. Chissà poi perchè le fece quell’effetto. Lì sotto gli occhi della madre-suocera. Ma che cazzo stava succedendo. Pensò di alzarsi, ma il pensiero la sfiorò solo per un attimo. Ormai c’era poco da vergognarsi e da fare la schifiltosa. Richiuse gli occhi e dischiuse le labbra. Prese il biberon in bocca e iniziò a succhiare, mentre le mani della suocera non si fermavano. La crema emanava uno squisito profumo di cocco. La suocera massaggiò ogni punto che era stato colpito. Luisa ormai non capiva più niente. Non sapeva se concentrarsi sulle carezze che le deliziavano le parti posteriori o sul cazzo che deliziava la sua bocca. Non capiva neppure quante mani la stessero toccando. Scivolavano dappertutto su quel lubrificante profumato. Affondavano e si insinuavano ovunque. Era in un tale stato di deliquio che non capì, nè del resto volle capire, se la suocera la stava scopando con le dita. Capì solo che un getto di liquidò caldo le inondò la bocca. E che poco dopo un secondo lunghissimo orgasmo la fece sussultare come mai le era successo.
Aggiungi ai Preferiti