Questa sera il cielo di Roma s’arrossa d’arancione e mi colora il vestito e le scarpe appuntite che bucano le foglie di pioppo e d’alloro e fanno rumore d’autunno e di solitudine. Vado incontro al tramonto lungo il parapetto di questo fiume che mi protegge e mi sollecita, e m’induce a pensare che sarebbe inutile sporgermi fino a cadere nel vuoto in contro tendenza a questa nebbia umida che sale e m’inzuppa le ossa e i pensieri. Perché nessuno oltre me piangerebbe questa povera scema, questa povera suicida che affiorerebbe dall’acqua senza nessuna ragione e sostanza, fino a domandarsi per quale accidente di uomo o motivo s’è ridotta a stropicciarsi questo trucco perfetto che ora, sotto questo lampione di ferro battuto, mi contorna gli occhi e m’abbellisce la luce. Questo vento che sa di fogna e di fiume solleva le foglie e fa danzare sacchetti di plastica che gonfi d’aria mi girano attorno come amanti senza costrutto, pieni solo di misere voglie e inutili cortesie. Lo sento sulla mia faccia, su queste mutande ridotte a brandelli che coprono a malapena le pieghe del mio sesso disfatto da incuria e da uomini che m’hanno riempita d’amore e di botte con il solo pretesto d’averli amati e curati per il tempo che sono rimasti. Mi sento come se il mondo mi crollasse addosso o come se io fossi crollata addosso al mondo, appiattita su questo parapetto che mi taglia in due, come tutta la mia vita, tra sesso e ragione. Ma cosa ci sarà laggiù che m’attira e mi chiama? Mi fa calare le tette che ballano penose come pere lasciate marcire. Ma cosa potrei mai trovare dentro quel vortice d’acqua che fa mulinello e rumore di risucchio come le bocche delle mie colleghe che caparbie ammollano la preda lasciando in cambio tracce indelebili di rossetti costosi. “Eva sposati.” Mi sembra ancora di sentire le parole di mia madre, preoccupata e certa che in seguito avrei potuto scrivere la mia vita copiando il suo diario. “Eva, l’ultimo treno sbuffa vapore e sta per partire!” Ed io l’ho preso quel treno cercando per una volta, e poi chissà per quante altre, d’aprire le cosce e non perché avessi voluto! Di credere che in due si possa aver più conforto di quando riflessa allo specchio mi fanno da contorno solo mattonelle celesti da bagno o ninnoli da camera da letto. Giuro che ce l’ho messa tutta per tutti quelli che ho ospitato per giorni e per anni dentro casa e dentro me stessa e m’hanno lasciato ferite d’amaro e di sangue che sboccano nel cuore e nel sesso che chissà perché mai stasera non riesco a fermare. Credo che a modo loro m’abbiano amata, tutti indifferentemente, ma nessuno al punto da non farmi sentire in difetto o da colmare quel vuoto d’amore che stasera diventa voragine o buco di traffico tra un semaforo e l’altro. Tra qualche secondo un’altra ondata di macchine mi troverà così conciata che nessun calore di casa od odore di minestrone potrebbe in qualche modo rimettermi a posto. Mi troverà perfetta nella parte di signora che s’è persa strada facendo finta fino a convincere gli altri e me stessa di non essere quella che sono. “Eva avrai dei figli, una famiglia.” La sento ancora mia madre mentre appuntava con cura calze color carne a busti stretti a morsa che le toglievano respiro e parvenza. Ed io l’ho preso quel treno, ma solo per arrivare fin qui, in questa città che stasera mi offre soltanto un fiume per cambiare la mia vita e per non accettare il passaggio di questo uomo che non vedo, ma che giudico dal cofano e dai fari di questa stupenda macchina tedesca. Se salgo mi dirà che è solo, che è la prima volta che importuna una donna per strada, che è disperato al punto di sbirciare tra gli spacchi e le pieghe delle mie stoffe, che a malapena mi fanno apparire una signora dabbene, che per caso si trovava in precario equilibrio sopra il travertino sconnesso di questo marciapiede. Mi guarderà di nuovo, ma questa volta solo per compiacersi della scelta di seni e cosce che oltre a dargli compagnia gli risolleveranno pene e morale. E m’appiccicherò sulla faccia la parte della puttana per caso, di quella che solo circostanze recitate a memoria l’hanno portata ad accettare un passaggio da questo sconosciuto generoso dapprima di complimenti e parole. Per poi portami in qualche ristorante fatto a posta per confondere le acque ed allungare il brodo insipido di sesso e piacere che, secondo l’illuso, berlo immediatamente e tutto d’un fiato mi rimarrebbe indigesto. Rispetterei la parte fino a sentirlo recitare la commedia di chi non ha ancora trovato una donna che lo stia a sentire, chiaramente esclusa me che, nel mentre mi versa da bere, gli allargo le cosce sotto la tovaglia e preparo il percorso fino in camera da letto. Fingerà d’ascoltarmi, di vedermi più bella di quella che ad ogni alba dentro lo specchio m’assomiglia sempre di meno ed ogni notte m’insulta perché l’ho costretta a farsi puttana per quegli uomini che odia e che nutre di carne e piacere reprimendo, sotto parvenze di stoffa leggera, mera vendetta e insanabile rancore. “Eva aiutami a chiudere la lampo del vestito!” E poi venivano uomini in divisa con i denti bianchi e gli stivali lustrati. Ma avevano poca considerazione di mia madre e, incuranti della mia presenza, la stringevano ai fianchi cercando la sua bocca perfetta a forma di cuore, mentre lei si dimenava tentando invano di fermare quelle mani che avide appiattivano le pieghe delle calze che faceva la seta. Frusciante di lavanda e di stoffe scendeva le scale di casa a testa alta perché non v’era segreto di come sbarcasse il lunario, di come crescesse sua figlia senza un marito e tanti amanti che ogni giorno a caso mi ostinavo a chiamare papà. Di quello vero non me né ha mai parlato, e mai ne ho avuto il bisogno di sentirne l’odore, di farmi stringere tra le mani capienti ed abbandonarmi di colpo nel sonno profondo. “Eva aiutami a raddrizzare la calza!” Mi sembra di vederla ancora quella riga perfetta che s’anneriva di luce e mistero sotto la gonna, come oggi che prima d’uscire ripeto in fotocopia mosse e contorsioni per guardarmi da dietro nello specchio intero della sala da pranzo. Ed ogni volta mi domando quanto sarò signora a modo e quanto puttana per caso fino ad immedesimarmi nei loro occhi avidi e sessi vogliosi che nel timore di non portarmi rispetto mi fottono gentili dandomi del lei. Ma quest’uomo insiste ed io sono ancora in dubbio tra la scortesia di farlo aspettare e la parte che ogni sera recito. Scende dalla sua bella Mercedes, avrà 55 anni ed il labbro sottile proprio identico al mio. “Signora mi scusi.” Faccio per allontanarmi, ma solo per mettere in mostra il mio culo perfetto, i miei capelli, che biondi striati di rosso, scendono lenti fino alla schiena. Altri due passi infermi sui tacchi ed accetto il passaggio, accetto di calarmi nella parte che unica mi spetta e mi inorgoglisce, che sola dà senso a questi tanti tramonti che si rincorrono uguali. Mi dice bugiardo che non conosce la città e se posso indicarle la strada, una strada qualunque che tutti e due sappiamo che non può essere distante. E dopo meno di un niente ci ritroviamo d’incanto inghiottiti nel buio di un parcheggio d’albergo, come se tutte le strade di questa città non portassero che ad un’unica destinazione, come se la mia faccia non avesse altro luogo per sentirsi a suo agio. Senza il minimo dubbio spegne i fari e rimane muto in sospeso a guardarmi per quella che sono, con la nebbia alle spalle che m’illumina i contorni e scende incorporea posandosi liquida sul parabrezza. Ha quasi timore di parlare, schiude le labbra, ma poi ci ripensa, mi fissa negli occhi e mi stringe le dita e le unghie che appuntite di rosso gli lasciano tagli e dolore nell’incavo della mano che non smette di premere. “Eva! Sono mesi che ad ogni tramonto passo lungo quel fiume e tento di parlarti. Ma ogni volta è come se fosse la prima e scappo perché mi vergogno di provare questo desiderio che nasce molto distante dal cuore. Ho pietà di me, ma non riesco a guardarti che con gli occhi di maschio e confessarti le mie voglie che lievitano fino al terzo piano dell’unica stanza buia che vedi!” Mi indica la finestra dell’albergo e stringe le mie cosce come se la poesia delle sue parole e l’enfasi della voce non bastassero a farmi capire. La sua bocca insolita di cliente cerca il vapore misto a rossetto del mio respiro ingrossato di lieve disagio. Che strano cliente! Mi fermo a pensare. Accompagna parole al contatto di mani, m’accarezza i capelli e cerca la bocca che mai puttana si sogna d’offrire, che mai cliente ha voglia d’assaggiarne il sapore. Come sotto una pioggia a vento, dove sarebbe vano aprire l’ombrello o camminare muro muro sotto i cornicioni, non faccio domande e resistenza. Le mie sensazioni non mi danno riparo e lo lascio fare, mentre la sua bocca continua a cercarmi da vicino e mi risucchia aria umida e nome, quel nome che poco prima mi sembra d’aver sentito pronunciare! Ma non riesco a domandargli il motivo, se in qualche posto di mondo ci siamo già conosciuti o m’ha penetrata senza che memoria m’aiuti a ricordare perlomeno il suo sesso o queste mani frenetiche che mi conoscono a memoria e s’infilano esperte sotto la gonna, fino a sfilarmi mutande e decenza senza riguardo. Come se il mio corpo gli fosse dovuto, come se questa lingua che mi cerca a ventosa m’aspirasse l’anima e l’essenza. Mi ritrovo sotto le voglie di un uomo come una puttana da marciapiede che si fa sbattere dentro un parcheggio in una bella macchina tedesca con la vana promessa d’essere scopata dentro un albergo pieno di stelle e cameriere pronte a rinfrescarmi la faccia ogni qualvolta una goccia di sudore m’imperla la fronte.Vorrei dirgli che sono una signora, che dove m’ha incontrata c’è una fermata di autobus o che ogni sera aspetto un’amica. Ma mi rendo conto che è inutile fingere quando tutto il mio sesso è racchiuso nella sua mano come se fosse un regalo di compleanno non scartato da anni. E’ inutile fingere quando ormai la sua faccia, sotto i riflessi della seta, respira i miei odori più intimi e la sua lingua, a contatto con la mia voglia, m’inumidisce e l’inumidisco di inspiegabile piacere che scende copioso ed involontario. “Eva, solo ora m’accorgo d’amarti!” Ora non ci sono dubbi, l’ho sentito chiaramente che m’ha chiamata per nome, come questo sesso che mi strattona e cerca senza il mio consenso di prepararsi la strada, d’infilarsi tra la mia carne che stretta a morsa rifiuta senza aver prima stabilito di quale regalo, sotto forma di contanti, potrà compiacersi. Ma lui sembra non sentire, mi conosce e mi fotte, mi chiama Eva senza rendermene conto, dandomi in cambio soltanto un pene di maschio, per me, anonimo e qualunque, comune a tanti altri che tutte le sere al tramonto scaldo e do ricovero senza distinzione. E poi dice di amarmi! Lo riguardo in faccia per quanto posso, per quanto il suo desiderio, che ora s’è fatto strada, mi batte e mi rivolta e poi ancora a carponi contro i vetri appannati d’amore e dentro questa macchina che s’è fatta stanza d’albergo e finestre di lune. Mentre guardo fuori, solo ora m’accorgo che non ho più niente da offrire, niente da barattare per decidere il prezzo. Appiattita sulla fodera di questo sedile resisto ai contraccolpi della sua foga che al limite del piacere m’apre e mi spalanca come persiane umide in una giornata di sole. Ma solo ora m’accorgo che m’ha presa come quegli uomini in divisa che davanti ai miei occhi accarezzavano mia madre fino a sbafarle quella bocca carnosa a forma di cuore, fino a disfarle la riga della calza che solo poco prima l’avevo aiutata a raddrizzare. Solo ora m’accorgo che m’ha fregata davvero, pensando a mia madre che, quando il sole oramai alto, rincasava con i guanti imbrattati di seme fascista e la borsetta dello stesso colore vuota di qualsiasi ricompensa. Ma il suo membro di muscoli coperto di pelle che meccanicamente si svolge e s’avvolge mi sembra d’averlo sempre conosciuto, mi sembra che m’abbia sempre fottuto nelle parti che gli altri pagherebbero oro. Invece rimango qui recipiente senza ribellarmi, senza accorgermi che si è insinuato tra le ossa oltre il mio sesso fino a prendermi il cuore. Forse ha proprio ragione! Niente dovrà pagare perché tutto ciò gli è consentito, come questo pene che sa di famiglia e mi procura amore e piacere ed abrasioni che diventano ferite di pelle e passato e poi sangue che cola senza farmi dolore. Faccio per voltarmi e guardarlo di nuovo, per trovare nelle sue rughe inumidite dal sudore la memoria che ora veloce risale a prima che vidi la luce, a prima che conoscessi mia madre. Lo vedo! Quegli occhi m’assomigliano e mi rivoltano lo stomaco. Quel labbro inferiore m’aveva dato un sospetto e gonfiato i miei seni, che solo un uomo a questo mondo avrebbe potuto avvicinare senza dargli dignità e prezzo, senza pagare il dovuto e colmare quel vuoto profondo quanto i miei anni. Mentre ancora mi fotte come battona senza passaporto, vorrei dargli ragione, perché nessun’altra ragione avrebbe avuto un senso. Lo sento, sta rallentando, tra poco tornerà solo cliente e le mie sicurezze m’arrosseranno di nuovo domani incontro al tramonto, spezzate dal quel parapetto dove dondolano a pera i miei seni andati. Ormai non ce n’è più tempo, lo sento godere di liquido caldo che straborda dal mio sesso fino ad amalgamarsi perfettamente con il mio sangue e divenire una sostanza viscosa dal colore di rosa.
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