Fui ricoverata in un istituto di bellezza per più di un mese. Quando ne uscii ero una femmina perfetta e provocante. Naso e zigomi eleganti. Culo e labbra esagerati e voluttuosi. Avendo iniziato ad assumere ormoni, perché si cominciasse a vedere un po’ di petto, ci vollero parecchi mesi. Joe e Marcus mi soddisfacevano periodicamente con i loro sessi sempre arrapati. Oreste venne a trovarmi tre volte e, nonostante covassi un po’ di risentimento nei suoi confronti, perché mi aveva cinicamente venduto, la circostanza che lui era stato il primo uomo a penetrarmi me lo rendeva prezioso. I tre giorni e le tre notti che passammo insieme furono di fuoco e io mi sentii piacevolmente stupita per il fatto che lui provasse tanta passione per me. Una volta venne a trovarmi mia madre e io ne fui commossa, ma la circostanza che ci eravamo dette bugie l’un l’altra, non favorì il nostro avvicinamento e quando se ne andò provai rimorso per non essere riuscita ad essere più affettuosa. L’ultima volta che era venuto a trovarmi Oreste, mentre ci stavamo dirigendo abbracciati in camera da letto, Joe gli aveva detto: “Non la sfondare, ché ci serve sana, nei prossimi giorni!” Oreste aveva risposto: “E’ negli accordi che me la possa inculare una volta al mese. E ti giuro che te la restituirò che ‘entrerà un palo nel buco del culo, dopo il mio trattamento”, E, rivolto a me, aggiunse: “Sei contenta, tesoro? Sei contenta del tuo Oreste che tisgarrerà il culo?” Io lo avevo abbracciato, lo avevo baciato, mi ero girata e avevo strusciato il mio culo ipertrofico sulla patta dei suoi pantaloni che ormai lasciavano vedere un’eccitazione turgida e dirompente. Joe non aveva risposto, ma, alcuni giorni dopo mi era stato detto di prepararmi per un viaggio, vestita da donna. Io ormai ero stata addestrata a truccarmi e a vestirmi, ma fui lo stesso aiutata da estetiste e truccatrici. Fui consigliata sugli indumenti da indossare e fui portata all’aeroporto dove mi accorsi di chiamarmi Giselle Leblanc e di avere un passaporto francese falso. Fui imbarcata su di un jet privato a bordo del quale, oltre al pilota, c’era una hostess, un uomo bruno ed elegante, sicuramente arabo, e un paio di brutti ceffi, dall’aspetto più di gorilla c di guardie del corpo. L’arabo, che aveva l’aria di essere un funzionario d’alto livello, mi informò che il viaggio sarebbe durato un paio d’ore e quindi mi potevo mettere comoda. Il funzionario e la hostess si misero comodi a loro volta, cominciando a toccarsi rotolandosi sui cuscini e sul pavimento della cabina dell’aereo che sembrava la stanza dei divani della Sublime Porta. Erano ormai nudi e stavano cominciando a passare al piatto forte della seduta quando i brutti ceffi che avevo notato all’imbarcoe entrarono nella cabina armati e mostrarono con cenni e con parole di voler assistere come spettatori allo spettacolo che i due stavano interpretando. Li costrinsero a posizionarsi uno davanti all’altro, di fianco, e poi invitarono con risolutezza il funzionario ad infilare il pene nella vagina della bionda hostess. Qui si posizionarono ognuno alle spalle dei due attori e li incularono selvaggiamente. Le urla dei due malcapitati erano raccapriccianti e io davanti ad uno spettacolo così libidinoso mi sentii eccitare, mio malgrado, e cominciai a masturbarmi lentamente. Ma improvvisamente i due assassini tirarono fuori due lacci di cuoio e li strinsero intorno al collo delle loro vittime. Esse si dibatterono furiosamente. “Si, bravo, agitati, – diceva quello che inculava e strangolava il maschio – così provo più piacere!” Infine, quando senza più un guizzo i due malcapitati giacquero immobili sul pavimento, i giannizzeri trascinarono i corpi esanimi fuori della cabina, senza degnarmi di uno sguardo, come se io non esistessi neanche. Io ero inebetita e terrorizzata. L’atto era stato così repentino e crudele che avevo neanche avuto il tempo di rendermi conto di ciò che stava succedendo. E stavo lì, sussultando, ogni volta che un rumore appena udibile, mi faceva venire il sospetto che stessero ritornando gli assassini. Poi, a un certo punto, tornarono effettivamente. Io avevo paura e avrei fatto qualsiasi cosa per salvarmi la vita. I due, impegnati nell’assassinio non avevano fatto in tempo ad arrivare all’acme del piacere, ed erano tutt’ora eccitati. Io approfittai di questa loro debolezza e del fatto che avevano lo sguardo fisso sulle mie esagerate rotondità posteriori. Sorrisi loro, liblandii e quando essi cominciarono ad accarezzarmi il viso e il sedere, mi misi in ginocchio, sbottonai loro la patta dei pantaloni, tirai fuori gli uccelli già inturgiditi e cominciai a lambirli con colpi di lingua equamente distribuiti. I due si fecero volentieri trascinare nella libidine più sfrenata e, mentre avevo imboccato decisamente l’uccello più piccolo, che era pur sempre di grosse dimensioni, il possessore dell’altro si era posto alle mie spalle allargandomi con le mani che sembravano due pale le chiappe lussureggianti. Io che mi stavo producendo nel pompino più lussurioso e più disperato della mia vita, lasciandomi guidare dal maschio arrapato che mi aveva afferrato per i capelli e mi tirava e mi allontanava da sé, sentii la lingua bagnata dell’altra lambirmi lo sfintere e cercare di penetrarmi in una simulazione gentile di quella che sarebbe stata l’inculata. Cercai di rilasciare lo sfintere, avendo già tarato con la bocca lo spessore inusitato dell’uccello che m’avrebbe impalato, ma, per la prima volta, non ci fu niente da fare. La paura mi aveva fatto stringere il buco del culo e niente di ciò che era successo dopo l’assassinio mi aveva rassicurato, fino al punto di sciogliermi i muscoli dell’orifizio anale. Sicché, quando dopo sforzi reiterati, che io assecondavo, malgrado il dolore, il cazzo, improvvisamente e di colpo, mi entrò nell’intestino retto, il dolore fu terribile. Sentii uno strappo e pensai che la carne mi fosse stata lacerata, ma il grido che non riuscii a trattenere riuscii a trasformarlo in un mugolio strozzato che poteva passare per espressione di un piacere incontenibile. “Gli ho rotto il culo – disse in francese quello che avevo dietro, con voce soddisfatta e irridente – sta sanguinando. Non urla di dolore perché ha paura. Non sa che dobbiamo consegnarla viva”. Quello che mi occupava la bocca, a quelle parole ebbe un raptus e mi fece sentire la punta del cazzo in gola, provocandomi conati di vomito. Mi venne voglia di piangere e cercai di asciugare furtivamente le lacrime che, nonostante cercassi di resistere, cominciarono a spuntare automaticamente dai miei occhi. Ma la rivelazione dell’inculatore che non sapeva che capivo il francese, mi provocò un grande sollievo e pensai di cercare di trarre il meglio da quella situazione disastrosa. Gli sfinteri del sedere, dilatati a forza, nonostante il dolore dello strappo, cominciarono a rilasciarsi e, quando improvvisamente il cazzo dell’impalatore, a causa della sua irruenza, uscì dal forellino, stridula e oscena, contemporaneamente, fuoriuscì dell’aria. Io mi immobilizzai terrorizzata, ma lui inserì immediatamente il membro dicendo ad alta voce: “Femme que pete…” . Io cercai di tradurre, ma lui, in mio onore aggiunse, con un accento incredibile: “Femmina che spetazza ha preso, prende o prenderà la mazza”. “Femme?” chiese l’altro. “Femme” rispose il mio aguzzino principale. “Questa troia è una femmina, la femmina più porca e più desiderabile che abbia mai conosciuto”. Nella circostanza del martirio quella frase mi fece raggiungere l’estasi. E io mi sentii estremamente grata al mio aguzzino assassino che mi stava dolorosamente torturando.
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