Le mie vacanze quell’estate, era il sessantatré, non furono molto lunghe perché, dopo alcuni di giorni di totale riposo trascorsi in mezzo a stupende montagne ma in pessima compagnia di anziani e bambini, al mio ritorno alla casa del paese, mi ritrovai catapultato all’interno del nostro stabilimento, per svolgere qualche facile lavoretto. Il tempo libero si ridusse drasticamente poiché, lavorando otto ore, la giornata era tutta occupata e la sera ero troppo stanco per poter divertirmi veramente. L’unico aspetto positivo in quella situazione era dato dall’abbondante presenza femminile, con cui venni in contatto, all’interno della fabbrica. Il personale era composto per la maggior parte da donne, di ogni tipo, forma e dimensione, che provenivano dal nostro paese o da quelli vicini. Giovani e vecchie, belle, carine o realmente brutte, bionde, more, rosse coi capelli lunghissimi o tenuti molto corti, alte o piccoline, formose o minute, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Il lavoro, che inizialmente svolgevo scrupolosamente, già dalla seconda settimana passò in secondo piano, sostituito dal mio vero e solo interesse: le donne. Facevo in pratica le veci del padrone e più nessuno, una volta conosciuta la mia identità, mi dava ordini o mansioni da svolgere. Giravo per i reparti, fermandomi a parlare con le lavoranti, senza che i capisquadra dicessero qualcosa, conoscendo meglio tutte quelle femmine e individuando le più carine. Nel mio continuo girovagare notai parecchie cose interessanti come, ad esempio, la particolare avvenenza delle operaie addette ai compiti più facili e leggeri, l’eccessivo feeling tra alcune di queste e i capisquadra, e altre cosette del genere. Le voci che giravano, durante i brevi momenti di pausa, raccontavano le prestazioni erotiche di alcune operaie che, lasciata la bassa manovalanza, erano state promosse per “meriti speciali”. Naturalmente la cosa destò subito la mia attenzione, ma, dopo qualche approccio accolto con fin troppo entusiasmo, convenni di mostrare tutta la mia profonda educazione cattolica e il mio rigidissimo senso morale, che mi derivavano dall’essere un seminarista. Le cose dovevano cambiare e feci passare la voce, perchè certe strane coincidenze non dovevano più accadere, nessuno poteva permettersi certe libertà millantando potere. Stabilito questo nuovo rigore morale, iniziai a spostare le donne dei vari reparti, assumendo, in sostanza, la funzione del capoturno, che restava responsabile del lavoro, ma non della gestione del personale. Spostando solo una donna per reparto, la produzione non era mai compromessa ed io, ogni giorno di più, distruggevo gli ingiusti privilegi esistenti. Le lamentele non tardarono a giungere alle mie orecchie, specialmente dalle ex-privilegiate, e infine, rotti tutti gl’indugi, vennero a lamentarsi direttamente da me, nella stanza che avevo adibito a mio ufficio privato. Era un continuo via vai di donne, che si lamentavano, ma io le congedavo garantendo che avrei considerato la cosa, ma sottolineando bene che la situazione era cambiata.Instaurato quel nuovo sistema, mi era molto facile ottenere quello che avevo desiderato da subito, infatti, poco o per nulla interessato a quelle operaie di dubbia morale, concentravo la mia attenzione sulle poche non toccate da pettegolezzi o dicerie. In mezzo a tutte queste, quelle appetibili non erano certo molte, però, si presentavano ancora diversi soggetti degni di nota. Il sistema che adottai era piuttosto semplice: le facevo impazzire, destinandole ai lavori più faticosi, cambiandole di posto quasi ogni giorno e, se non bastava, spostavo il loro turno di lavoro, assegnandole al mattino, al pomeriggio o alla notte, senza una logica apparente. Lavoravo su più donne contemporaneamente, per sviare qualsiasi sospetto e velocizzare i risultati, ma, la prima che sperimentò il trattamento completo fu Silvia, una bella ragazza di circa 27 anni, sposata, senza figli, coi capelli corvini lunghi e mossi, gli occhi, scuri e vivaci, conferivano una nota di vita ai suoi lineamenti regolari. Il fisico slanciato, asciutto, si ammorbidiva in corrispondenza del seno, rigoglioso, e dei fianchi, che si allargavano dalla vita sottile, formando un cuore, in cui s’inseriva il delizioso sederino. La prima settimana aveva sopportato ogni cambiamento, senza fiatare, ad eccezione del turno di notte, per cui si era subito lamenta, così, vedendo la sua insofferenza, la misi in maniera stabile in quel turno. Il lunedì notte, dopo un’ora di lavoro, sentii bussare alla porta dell’ufficio. “Avanti, prego”, “Non vorrei disturbarla” disse Silvia, entrando nell’ufficio e accostando la porta, “Ma ho un problema col turno”, “Mi dica cosa c’è che non va?” invitandola con un gesto della mano a sedersi, “Vorrei cambiare turno, la notte mi crea problemi”, “Posso sapere quali? perché devo valutare prima di decidere”. “Il problema è mio marito” disse arrossendo un po’ “non ha piacere che stia fuori la notte”, “Non sarà così geloso, dico io. E’ vero che lei è una bella ragazza, ma è qui solo per lavorare”. I miei complimenti la fecero arrossire ancora di più. “L’ho spiegato a mio marito, ho passato tutta la domenica a cercare di convincerlo ma non sente ragioni, la notte, lui, mi vuole a casa”. “lo capisco benissimo, con una mogliettina così bella, la notte dev’essere un piacere andare a letto”, insinuai, mentre l’allegro sorriso che avevo mantenuto fino a quel momento, si tramutò in una smorfia cattiva. “Non credo che la riguardino queste cose”, “No, certamente. Adesso puoi tornare al tuo lavoro o,” fatta una breve pausa “vuoi restare qui a fare quello che avresti fatto col tuo maritino?”. “Ma come le viene in mente una cosa del genere? E pensare che sembrava tanto a modo, invece, è peggio degli altri, con quel suo fare da falso prete”, “Bastava dire di no, può andare” dissi, troncando la discussione sul nascere, e riportai l’attenzione sulle carte che coprivano la mia scrivania. Non era passata ancora un’ora che si ripresentò nel mio ufficio “Hai cambiato idea?”, “No!” rispose decisa “Vado a casa, da mio marito e gli racconterò tutto”. “Vai pure. E’ la mia parola contro la tua, ma se esci perdi il posto” dissi deciso a giocare l’ultima carta pur di piegarla. “Ma perché sé fissato con me, cosa ho fatto..” disse, mentre io mi avvicinavo a lei “Non hai fatto niente di particolare, è solo che ho deciso così. Smettila di parlare e fai quello che voglio” ed iniziai a spogliarla, sfilando il bordo della maglietta dai pantaloni. Le sue mani esitanti presero il posto delle mie, sfilando la maglietta dal corpo che, adesso, restava coperto da un reggiseno senza spalline. Stava sbottonando i pantaloni quando le scoprii i seni, rotondi, grandi come due meloni “Ma che belle zucche” dissi abbassandomi a baciarle senza curarmi dei suoi vani tentativi d’allontanarmi “Continua a spogliarti, sbrigati, non ho più tempo da perdere”. Slacciò i pantaloni, aderenti, spingendoli in basso e liberandosene pestandoci sopra. Si sfilo le mutandine, rosse, molto provocanti, strette e sottili come un tanga, trattenendole ancora in mano, davanti alla topa, come ultimo schermo prima di mostrarsi completamente nuda. Le strappai dalla sua mano, scoprendo così la sua fichetta dal pelo nero e soffice.. “Il tuo maritino ha ragione a non fidarsi, guarda con che razza di mutandine vieni a lavorare” e aggiunsi “sono sicuro che qualcosa c’è di vero, o ci sarà da adesso” e allungai le mani sulle tette, e poi su fica e culo, insieme, facendola girare un po’ di lato. Mi ero seduto sulla sedia e, la faccia all’altezza dei suoi fianchi, ispezionavo la sua vulva aprirsi alle dita e alla lingua, spostavo poi la testa, dietro di lei, per guardare il suo bel culo rotto. Il medio le risaliva dentro senza trovare resistenza, un vero dispiacere trovarla già così avvezza a quella pratica. Lasciava che facessi tutto quello che volevo, permettendomi di toccare i suoi intimi pertugi secondo i miei più sfrenati desideri. Era la prima donna sposata con cui stavo, la differenza era notevole non solo con le volenterose ma inesperte suore, ma anche con una ragazza da marito come Chiara che, esperta più del lecito, restava ancora una principiante. La spinsi verso la scrivania e fattala sedere sul piano, le divaricai le gambe tirando fuori contemporaneamente il cazzo, già duro. “No fermati, non così” disse afferrando l’uccello con la destra, cercando di sollevare il culo “infilati dietro”, “Lo dicevo che eri una porca, ti piace farti inculare”, “No, non è vero, ma la passerina la tengo solo per mio marito. Lui è stato il solo ad entrarmi davanti”. “Il solo fino a stanotte”, risposi “perché io non accetto rifiuti” e nonostante i suoi tentativi disperati, la penetrai nella fica, montandola sulla scrivania, come nessun altro le aveva mai imposto. La scopai godendo dei suoi rifiuti e, nel momento di venire, restai in lei sborrando copiosamente, perché ricevesse il seme di un altro uomo nel ventre, così le sussurrai, perché capisse le mie intenzioni, “Visto che il cornuto non riesce a riempirti, questa settimana ci penerò io, a tenerti calda la notte”, e per tutta la settimana la scopai, ogni notte in modo differente, secondo il mio gusto personale. Alla fine della settimana la sua fica di seconda mano, aveva preso più cazzo, e in una maggior quantità di modi, che non in tutti gli anni di matrimonio. Il figlio che partorì quasi nove mesi dopo non ebbe fratelli o sorelle, ma, in compenso, uno zio prete che gli ha garantito un vitalizio adeguato per tutta al vita. Un’altra avventura che ricordo bene di quel periodo, fu quella che intrecciai con una delle segretarie. La cosa che mi fece avere ragione di lei fu la sua disonesta abitudine ad arrotondare gli stipendi, intascando la differenza. In un primo momento, consultando la busta paga, avevo pensato a un semplice errore ma, una volta informatomi presso di lei, la faccenda cominciò a prendere una piega sospetta, infatti, dapprincipio cerco di mentire negando l’ammanco e, poi, cercò di giustificare l’ammanco in busta come un fondo cassa, di cui però nessuno sapeva l’esistenza. La somma di cui parlavamo era modesta, se presa singolarmente, ma, moltiplicata per i 12 mesi e gli anni, risultava un cospicuo gruzzolo. Lei stessa si consegnò nelle mie mani, dichiarandosi disposta a tutto per non essere denunciata. La tenni per un po’ sulle spine, fingendo di essere attanagliato dai rimorsi della coscienza e dagli obblighi verso la mia povera famiglia derubata. La portai quasi a denunciarsi da sola pur di far smettere quella situazione di lacerante attesa e, poi, una sera, poco prima della fine del suo orario di lavoro, la convocai nel mio ufficio, per farle conoscere la mia decisione. Le rifilai un rimprovero infinito su vari temi quali la professionalità, la correttezza, il rigore, e varie panzane simili, sbilanciandomi verso un possibile perdono solo nel caso che avesse acconsentito ad ogni mia richiesta. Colse al volo quell’unica possibilità, senza aspettare un secondo per riflettere, dichiarandosi disponibile a fare qualsiasi cosa. Le feci osservare che la definizione di “qualsiasi cosa” era vaga e vastissima, così le illustrai subito i miei primi desideri, e cioè, vedere il suo corpo nudo. La sua prima reazione fu di visibile imbarazzo ma, in un secondo momento, non esitò ad accogliere la mia richiesta, spogliandosi nuda davanti a me, mostrando un considerevole fisico, dotato di seni rotondi come pompelmi, di una fica stretta ma con la grave pecca di avere il sedere piuttosto basso, piatto a furia di starci seduta sopra. Il modo con cui si spogliava per me, raffrontato all’esperienza avuta con Silvia, e con tutte le altre, mi fece capire come nel mondo reale, oltrepassata la prima patina morale che tutti sbandierano, era molto facile ottenere dei favori sessuali o certe prestazioni particolari dalle donne così dette “per bene”. Tutte quelle donne che mi circondavano, mogli e/o madri, erano disposte a cedere il proprio corpo a chi sapeva chiederlo con “i giusti modi”, e di quelle tecniche divenni maestro, non fermandomi di fronte ad alcuna bassezza, pur di ottenere quello che volevo.Annalisa, questo era il nome della segretari, stava ancora ruotando su se stessa mentre io riflettevo per cui, saggiando la sua disponibilità, la invitai a masturbarsi. Rimase ferma per qualche secondo, lo sguardo indagatore rivolto verso di me. Non aveva capito il significato del termine, ma afferrato il mio volere mi stupì assecondandolo ancora. La sua mano era scesa in mezzo alle gambe, ora nettamente divaricate a mostrare l’intimo pertugio, e, dopo qualche carezza più esterna, si era infilata decisa il medio nella vulva. Si accarezzava con entrambe le mani, che si alternavano dentro e fuori il suo sesso, aperto oscenamente per essere visto anche dalla mia posizione. Il colore rosa delicato delle mucose esterne si scontrava con il rosso cupo che tappezzava l’interno delle piccole labbra. La sua mano passava e ripassava sulla clitoride, massaggiando il monte di venere, senza dimenticare di solleticare i capezzoli, turgidi per l’eccitazione. Venne, gemendo forte, senza vergogna, masturbandosi in mia presenza. Il giorno dopo le ordinai di venire senza le mutandine e, a sorpresa, mi trovai a passare negli uffici dove stavano le segretarie. Arrivato davanti alla sua scrivania, lasciai cadere la penna e, chinatomi per raccoglierla, godei la visione delle sue gambe che si aprivano, per mostrare l’assenza dell’indumento intimo. Il pomeriggio di quello stesso giorno usando la macchina di rappresentanza l’accompagnai a casa e, strada facendo, mi fermai in un posto tranquillo per farmi la prima scopata in macchina. Lei non si oppose facendosi penetrare senza obbiezioni, manifestando solo la paura di essere vista e riconosciuta da qualcuno. Da quel giorno la familiarità fra il suo corpo e il mio uccello fu totale, poiché presi l’abitudine di farmi spompinare mentre guidavo, di chiavarla durante certe veloci riunioni nel mio ufficio, mentre, per il suo culo, dopo averne goduto i servizi per alcune volte, persi interesse riversandolo verso i suoi pompelmi sodi, ben più adatti a ricevere un uccello, così mi faceva delle grandi spagnole, ricevendo la mia sborra in bocca, faccia o sulle tette, secondo l’estro del momento.Il lavoro con le operaie proseguiva molto bene, con precisione scientifica, settimanalmente cambiavo l’oggetto delle mie pulsioni. In un mese e mezzo ero a sei, Silvia, Annalisa e altre quattro che montai in quel periodo, senza tanti problemi dopo averle minacciate di licenziamento. Ero assai soddisfatto dei miei progressi nel campo della coercizione e della sottomissione, però, trovavo noioso incontrare donne già aperte alle gioie del sesso che, capito dove stava il loro interesse, non esitavano a sbragarsi. Quelli che andavo cercando erano giovani corpi da violare, intimità da calpestare, purezze da corrompere. A quel fine rivolsi le mie attenzioni particolari su Alessandra, una giovane di soli vent’anni, non bellissima, ma che ispirava un senso di pace e semplicità Il solito trattamento di rottura la costrinse in soli due giorni a presentarsi nel mio ufficio, alla ricerca di soluzioni per i problemi che le stavo creando. Le rifilai lo stesso discorso delle altre volte con una variante”…perché li da voi ci saranno dei bei pascoli, dove stanno le vacche che il toro si monta.” Il riferimento venne recepito, provocando la sua risposta “I frutti della campagna sono raccolti da chi li coltiva con passione, non dal primo che passa. Pure il toro aspetta che le vacche siano pronte, ma se sono vergini restano solo delle manze”, “Tu cosa fai? aspetti o raccogli?” “Aspetto, perchè quel frutto, una volta assaggiato, non si può più vendere”, “Cosa intendi?”.”Il mio fidanzato avrebbe voluto farlo da tempo, ma io non sono una di quelle, prima mi sposa e dopo fa quello che vuole”,”E’ un ottima teoria, ma se non vuoi perdere il lavoro ti consiglio di darti da fare” detto questo mi alzai dalla sedia mostrandole il mio grosso tarello già fuori dai pantaloni. “Sei un porco” si lasciò sfuggire alla vista del mio cazzo, ma, dopo una breve insistenza si decise a prenderlo in bocca, succhiando per bene il mio grosso bastone. La cosa non doveva essere una novità, come mi confermo lei stessa più tardi, raffrontando le diverse dimensioni degli uccelli che aveva preso in bocca. L’abitudine per il modesto uccello del fidanzato mi suggerì un’idea splendida, così, dopo averle sborrato in bocca, nonostante una certa resistenza all’ingoio, la feci denudare per controllare la sua reale verginità. Il corpo era morbido e abbondante, burroso e caldo, perfetto per le fredde notti d’inverno. Le grosse mammelle, un pò rilassate per il peso, erano sode, con le areole molto sviluppate, di un colore rosa di poco più scuro rispetto alla carnagione. Il ventre, rotondo e femminile, faceva da preludio ad una folta peluria scura, lunga e morbida, che celava il suo scrigno chiuso. La tastai palpandola di gusto, affondando le mani in quella carne abbondante e soda, piacevole novità rispetto ai corpi magri e asciutti che avevo conosciuto sino a quel momento. Era vergine come aveva detto, allora, le proposi la mia soluzione “Sei vergine, e vero, ma si può rimediare. Ti do una settimana di tempo per fare l’amore col tuo ragazzo, poi potrai essere anche mia”. “Sei pazzo, non lo farò mai” rispose, e forse ci credeva, ma io continuai “Fai pure come credi, Alessandra, ma ricordati che tra una settimana per me sarai pronta per la monta e come tale ti tratterò”. In quella settimana non toccai più l’argomento, badando solo che mi succhiasse l’uccello o che lo massaggiasse con le tette. Scaduta la settimana, dopo aver fatto le nostre pratiche quotidiane, quando lei si stava già rivestendo, le dissi, come un fulmine a ciel sereno “Il tempo vola, vero? Oggi in campagna si raccoglie, e i tori montano le vacche”, “Qui pero siamo in fabbrica” cerco di abbozzare in qualche modo “via le mutande, e non cercare scuse, oggi, ho voglia di montarti”.”Sei stata col tuo ragazzo?” la interrogai mentre sfilava gli slip bianchi. Non rispose. Ripetei la domanda e, dopo un attimo di attesa, confermò di essersi concessa “brava, mia piccola troia, ti sei fatta montare come volevo io e adesso che, come hai detto tu stessa, il frutto è stato assaggiato non puoi più venderlo, però tutti possono assaggiare senza problemi, vero? E lui è stato all’altezza? E’ stato bravo a farti godere o e schizzato subito? Lo vedo tutto rosso per l’emozione, che lo spinge dentro in tutta fretta, per paura che cambi idea”. Avevo indovinato in pieno, descrivendo al meglio la sua squallida prima volta, facendola arrossire per la vergogna. “Non ti preoccupare con me sarà come se non l’avessi mai fatto prima” dissi questo maneggiando fiero il mio grosso cazzo, scappellato oscenamente, desideroso di allargare quel passaggio non ancora ben rodato. Le sue inutili resistenze mi facevano eccitare ancora di più, rendendo il mio uccello mostruosamente grosso, “Smettila, ti prego, no, no, per favore” gemeva mentre la mia lingua e le mie dita si facevano largo dentro di lei, come non avevo mai osato prima. Una parte dell’imene era ancora presente nonostante i ripetuti affondi del suo ragazzo, per cui, quando le spinsi la cappella tra le grandi labbra, dritta attraverso le piccole, fino a toccare il fondo della sua topina, fu per lei la vera iniziazione. La sverginai di nuovo, spingendo il mio grosso cazzo dentro la fica, madida di secrezione, che pulsava, calda e accogliente, cedendo e modellandosi come il mio uccello. La scopai con vigore montandola con robusti colpi d bacino, facendole capire la differenza tra un toro di razza e un bue di paese. Lei godeva delle mie attenzioni, gemendo di piacere mentre io mi lasciavo andare dentro di lei senza ritegno e, sordo come sempre a quelle preghiere, le riempii la pancia di calda sborra spumeggiante. Averla costretta a cedere il suo piccolo fiore prima del tempo mi aveva ringalluzzito ed ora, dopo averle aperto la fica per bene, potevo dedicarmi a circuire e corrompere l’onestà di Martina. Era questa una giovanissima ragazza del posto, che aveva anche lei compiuto i diciotto anni da poco, ma che aveva dovuto iniziare a lavorare molto presto, per aiutare la madre, vedova, con tre fratelli più piccoli. Alta e bellissima, capelli biondi con riflessi ramati, occhi verdi vivaci, era la beniamina dello stabilimento, tutti stravedevano per lei, aiutandola in ogni modo, anche perché sua madre, molto malata, non poteva fare molto per la famiglia, e toccavano a lei le maggiori responsabilità. Nonostante tutti questi fardelli era una ragazza semplice, gentile nei modi e riservata nelle sue cose, di un’eleganza innata. Lei, il simbolo di tutto quello che c’è di buono e puro era l’oggetto delle mie attenzioni, il baluardo destinato a capitolare. Conoscendo il suo bisogno di denaro le proposi di fare dello straordinario, per poter arrotondare lo stipendio, lei accolse la mia proposta con gioia, ma dopo alcuni giorni cominciai a richiamarla per delle inesattezze o per errori nella produzione, facendole scontare tutti quei piccoli inconvenienti che accadevano sempre e che, ora, venivano considerati imperdonabili. A volte ero io stesso a sabotare la produzione nel suo reparto, per poi accusarla delle perdite patite, così, il giorno di paga, recatasi a ritirare la busta nei soliti uffici, venne rimandata da me per delle comunicazioni. Il cuore in gola, venne a bussare alla mia porta, timorosa, ma sicura di non potersi rimproverare nulla. La feci accomodare con un cenno della testa, senza sorridere, scuro in volto. Attesi fino a quando non fu lei a rompere gl’indugi “Mi scusi, ma sarei qui per la busta, hanno detto di venire da lei”. le consegnai la busta senza parlare, non degnandola di una parola. “Grazie, e arrivederci, buongiorno” disse gentilissima come sempre, aprendo la busta prima ancora d’esser fuori dall’ufficio, tanta era l’impazienza di vedere i frutti del suoi straordinari, ma, al posto della solita familiare scheda, si ritrovò in mano una lettera di poche frasi, che terminava con la dicitura “è licenziata”. Licenziata. Quella parola bruciava come il fuoco, doveva esserci un errore, lei non poteva perdere il posto, no, era uno sbaglio, sicuro. Ritornò sui suoi passi, decisa, “Mi scusi?” esordì, “E’ ancora qui?” dissi “qualcosa che non va?”, “certo, deve esserci un errore, io sono qui per la busta paga, non per questa….” esitò non riuscendo a dire quella parola, continuai io “Lettera di licenziamento”, non riuscì a trattenere la sorpresa “ma come?” disse, la voce rotta già dai primi singhiozzi “lo sapeva anche lei?” mi disse.”Certo. L’ho fatta preparare io”, puntualizzai, indifferente.”Deve esserci uno sbaglio, non può licenziarmi, ho bisogno del lavoro”.”Doveva pensarci prima, signorina, quando causava tutte quelle perdite per l’azienda””Ma mia madre, i miei fratelli, come faccio?….ho bisogno d questi soldi””Anche l’azienda aveva bisogno dei soldi che lei ci ha fatto perdere””La prego, mi dia una possibilità per rimediare, la scongiuro, sia buono””Se hai tanto bisogno di lavorare per portare a casa i soldi, potrei assumerti io, bella come sei…guadagneresti bene, sai?””Va bene, cosa devo fare, non ho paura di lavorare””Non è difficile, vedrai, è la cosa più facile del mondo. Sarai la mia puttanella”Il suo viso, che si era rasserenato, divenne pallido, cadaverico. Zitta, restava in piedi stringendo fra le mani il foglio di carta.”Cosa succede? Non lo vuoi più il lavoro?”.Piangeva in silenzio, sconvolta da quella proposta oscena.”Allora sei così egoista da non voler un bel lavoro che rende? E’ facile fare la vittima, e pretendere che siano gli altri a pagare per i nostri sbagli. Tutto questo è solo colpa tua, signorina, solo colpa tua e sei tu che devi pagare, o vuoi far soffrire i tuoi parenti? I tuoi fratellini?”.Grosse lacrime le rigavano il viso, mentre i suoi occhi, lontani e assenti, fissavano il vuoto. Mi alzai dalla poltrona in cui ero rimasto comodamente seduto per tutto il tempo e, avvicinatomi a lei, iniziai a slacciare i bottoni della sua camicetta. Non reagiva mentre io facevo saltare un bottone dietro l’altro, scoprendo già parte del suo giovane e florido décolleté.”Perché?” chiese con un filo di voce, “perché mi fa questo?”.”E’ colpa tua, lo sai, perché giri con quell’aria sempre sorridente e allegra, compiaciuta e vanitosa perché sai di essere bella””Non è vero, no, non l’ho mai fatto”Avevo ormai sbottonato completamente la sua camicetta, e la stavo facendo scivolare oltre le spalle, scoprendo, i suoi seni, grandi, a pera, trasbordavano dal reggiseno troppo piccolo per contenere quelle grazie.”Perché?” ripeté un’ultima volta ancora.”Perché sono ricco e tu sei povera, ti voglio e ti prendo, solo per il gusto di farlo”, e con pochi rapidi gesti le tolsi la gonna, scoprendo un paio di culottes bianche, da cui spuntavano le sue cosce tornite e affusolate. Spostai le spalline del reggiseno, facendole scorrere lungo le spalle, delicate e minute, tirandole giù, fino ai gomiti e oltre i polsi, sfilandole dalle sue braccia. Le coppe, rigirate, scoprivano ora quelle rotondità sublimi. Uno straordinario esempio della generosità della natura, che madre e matrigna, l’aveva fornita di così splendide e pericolose forme. Le areole, grandi e ben visibili, s’innalzavano maestose con due capezzoli grandi e puntuti, pronti per essere leccati e succhiati. Lascia il reggiseno intorno alla vita, impugnando le parti più basse delle culottes, iniziai a levarle anche quelle. Una piccola resistenza, l’unica che tentò mentre le toglievo i vestiti spogliandola completamente, quasi un riflesso istintivo, l’ultimo scampolo di pudore che se n’andava insieme alle sue mutandine. “La prego, no” farfugliò, cercando di trattenere quella specie di pantaloncini che copriva ancora la sua femminile intimità.Aumentai la trazione, sempre di più, inesorabile, fin tanto da farli scendere oltre i fianchi, lasciandoli poi scivolare a terra. La sua fica, esposta per la prima volta alla vista e alle attenzioni di un uomo, era lì a mia disposizione, pronta per essere lordata e violata dal mio uccello, bramoso di possedere quel piccolo bocciolo di rosa. La spinsi sul tavolo, senza rispetto, non cercando in nessun modo di prepararla in qualche maniera al passo successivo. Una volta stesa sul piano, il bacino sul bordo, le gambe aperte, ancora poggiate per terra, senza un minimo di preliminari, tirai fuori il membro, turgido per il desiderio e, fattolo vedere a Martina, perché sapesse quanto era grossa la cosa che stava per entrare in lei, la penetrai con un sol colpo, lento e deciso, strappandole un grido di dolore. Il sangue verginale versato dalla sua fica ferita simboleggiava la perdita di una parte della sua anima, della sua purezza, del suo candore, del suo essere prima ragazzina e ora donna. La scopai senza curarmi dei pianti e delle preghiere, montandola senza alcun rispetto, venendole nella fica, slabbrata e dolorante. Una volta finita quella violenza, mentre ancora giaceva sulla scrivania, il corpo martoriato nel profondo, violato nella su più segreta essenza, privata per sempre di quell’inestimabile tesoro, come ultimo spregio le gettai addosso la lettera con la busta paga, sottolineando che “Quello straordinario le era già stato accreditato”. Presi così la sua verginità, poi, dal giorno seguente, la costrinsi a fare tutto il resto, insegnandole ad aprire la bocca per succhiare il cazzo, bevendo lo sperma, e sfondando anche il suo sedere fanciullesco, avviandola così sulla strada del sesso a pagamento. La sua bocca piccola, a cuore, non era mai stata neppure sfiorata dalle labbra di un ragazzo ma io, quel pomeriggio d0estate, la convocai nel mio ufficio per fare lo straordinario, come avevo stabilito il giorno prima. La feci accucciare ai miei piedi, costringendola ad aprire i miei pantaloni per tirare fuori il cazzo, “Dai sbrigati, non perdere tempo, devi essere autonoma sul lavoro. Così brava, metti le mani dentro la patta e prendilo in mano. Tiramelo fuori”Impacciata, non abituata a quel genere di linguaggio, così esplicito, o tanto meno avvezza a maneggiare il sesso maschile, faticava ad eseguire quella semplice operazione, lasciando trasparire la sua totale inesperienza. In qualche modo, sforzandosi contro la naturale repulsione che le cresceva dentro, riuscì a stringere le dita intorno alla mia asta, tesa, liberando il membro.”Brava, adesso tienilo stretto, accarezzalo, prendi confidenza con lui” le suggerii, con voce dolce, sapendo che con lei non servivano le maniere forti, perché, ormai, sverginata senza difficoltà, si sarebbe sottoposta a qualsiasi altra richiesta. Accarezzava il membro con tocco leggero, sfiorandolo piano, solo con le dita, senza stringere bene, o dando dei colpi decisi “Non così, va preso per bene, strigi la mano e con maggior trasporto, non si rompe . L’altra mano usala per toccare le palle dai. Devi sentire anche quelle, piano, è li che c’è la sborra, lo sai?”.Scosse la testa, negando anche quella conoscenza. Il mio uccello, stimolato dai quelle carezze debuttanti, si era ingrossato in modo appropriato così, poggiata la mano sulle sue morbide chiome, l’invitai a chinare la testa per omaggiare con la bocca la mia poderosa erezione. La cappella si strusciò sulle sue labbra, sfilando sulla guancia senza entrare nella sua boccuccia ancora chiusa. Si strofinò l’uccello sul viso, non capendo cosa doveva fare, così, dopo averle lasciato sperimentare il calore del glande su tutto il viso, le spiegai cosa doveva fare, addestrandola per quella nuova mansione”Va bene, ma non così, devi prenderlo in bocca, fino in gola per farmi sentire le tonsille”. Alcune lacrime bagnarono i miei peli neri mentre lei chinava la testa un’altra volta per esaudire le mie richieste, permettendo al mio cazzo d’entrare nella sua bocca. Teneva le mascelle spalancate, distanti per evitare il contatto, la lingua ferma, immobile, per non sfiorare quel grosso arnese inserito in profondo, a toccare le tonsille. “Usa la lingua, cosa aspetti? leccalo piano, con lentezza, gusta il tuo primo pompino, devi imparare ad amare questa pratica, perché sarà sempre richiesta a una buona lavoratrice come te”. Le sue labbra si strinsero delicatamente intorno all’uccello, cingendolo con i loro tenero abbraccio, mentre la lingua iniziava a lambire la punta del glande, con tocchi leggeri e veloci, che si fecero in breve più lunghi e lenti, distribuiti su tutto l’uccello che ancora teneva fra le labbra. “Muovi la testa adesso, e fai scorrere l’uccello attraverso la tue labbra, come se ti stessi montando, come ieri”, fece come le avevo ordinato, pompando con la bocca sin quasi a farmi venire. Solo allora le permisi di farlo uscire, concedendo una pausa alle mascelle stanche per l’inusitato sforzo, e menandolo con forza le dissi cosa doveva fare ora “Hai quasi finito, però adesso lo devi riprendere in bocca per farmi godere, e berrai tutto quello che uscirà dal cazzo”. Dissi quelle parole perché sapesse cosa l’aspettava. Lei, sempre costretta dall’infelice situazione ad accontentare le mie sozze volontà, abboccò ancora all’uccello dischiudendo le labbra, ben sapendo di stare per ricevere in bocca una calda porzione di seme. Il piacere fu intenso e profondo mentre scaricavo nella sua gola il mio abbondante bianco latticello, facendole bere tutto e costringendola a ripulire per bene con la lingua la mia cappella, viola per l’emozione.La fermai prima che uscisse dall’ufficio “Domani ho in serbo per te un’altra sorpresa. Sono sicuro che ti piacerà, ma tu intanto pensa a cosa può essere. Mi darai la risposta domani pomeriggio, naturalmente la sorpresa riguarda i tuoi nuovi compiti di puttanella, e in quale parte del corpo devi ancora prenderlo. Un’ultima cosa, dopodomani, avvisa a casa che farai tardi”, e finalmente la lasciai andare. Il pomeriggio seguente, finito il normale turno di lavoro, si presentò al mio cospetto, disposta a subire tutto quello che avevo in serbo per lei. “Spogliati. Nuda” le ordinai appena fu dentro il mio ufficio, e, mentre le si toglieva quelle povere vesti, denudandosi davanti a me, la interrogai circa il quesito che le avevo fatto il giorno prima “Allora hai pensato a dove lo prenderai oggi?”.Le grandi tette scoperte, la fichetta nascosta dalle mani congiunte, fra le gambe strette, restava in silenzio, non sapendo cosa o come rispondere alla mia domanda lasciva. “Ma come, non hai pensato a niente? Non c’è nessun posto dove potresti prenderlo o dove non vorresti farlo? No? Non dici niente?”. Attesi, lasciandola lì ad aspettare quello che le serbavo. Rimase muta ancora per qualche momento, poi intimorita dal mio sguardo rabbuiato, farfugliò due parole “Nel sederino”.Il mio viso non le trasmise alcun segnale, quasi non avessi udito le sue parole, poi con lentezza studiata, mi avvicinai a lei, allungando le mani a scoprire la sua piccola femminilità, introducendovi un dito indagatore, saggiandone le condizioni dopo la scopata. “Non qui, l’hai già preso” e spostai le mani sulle sue tette sode, perfette per stringere un fallo, “Qui potresti”, rivolgendo la mia attenzione alla sua bocca, infilando lo stesso dito che le aveva esplorato la vulva, ancora umido dei suoi umori, facendole assaporare il suo stesso corpo. Leccava il dito docile, già avvezza a succhiare qualsiasi cosa le mettessi in bocca. “No, neppure, qui” girandole intorno, le poggiai un dito fra le scapole, facendolo scorrere sulla schiena, liscia e vellutata, seguendo la colonna vertebrale fin al cocige, inserendo la punta tra i glutei, sfiorando il suo stretto forellino. “Lo vuoi qui, adesso? Vedremo”. Non disse nulla, e continuai la discesa, infilando la mano tra le sue cosce, appena dischiuse, sfiorando la pelle delicata. Mi slacciai i pantaloni, tirando fuori l’uccello, e lo infilai tra le sue gambe strette, facendomi masturbare in quel modo particolare, poi la spinsi a piegarsi in avanti, facendola appoggiare sul tavolo dove l’avevo scopata.”Sei stata brava, mi hai suggerito un bel posto”, le mentii, facendole credere che quella non fosse la mia idea iniziale, “come t’è venuta in mente?”.Restava muta, passiva, allora cominciai a divaricare le sue chiappe rosa, scoprendo ancora di più il suo buchetto esposto. L’insalivai, spingendo poi un dito dentro di lei, costringendola ad interrompere quell’ostinato silenzio. “Aaah” urlò, mentre il mio dito si apriva un pertugio anche nel suo culo.”Hai un culo che grida per essere rotto, quindi smettila di urlare per questo, era solo la punta di un dito, ma dovrai prendere il mio cazzo, e sai bene com’è grosso”. ripresi l’esplorazione rettale, sordo ai suoi lamenti, spingendo il dito sino all’ultima falange, rigirandolo dentro di lei per allargare quella strettoia. Le feci infilare qualcosa in bocca per non farla gridare, deciso a non attendere ancora per rompere il suo culo. Appoggiai la cappella fra le natiche, spingendola in lei con calma inarrestabile, fino a far cedere il suo sfintere rigido e mai utilizzato. Con un sol colpo affondai sino alle palle, facendola urlare nonostante la bocca stretta. L’inculai senza riguardo, montandola come una puttana, con forti colpi di bacino che finirono per farla godere mentre le rilasciavo nell’intestino il frutto del mio piacere. L’avevo posseduta in tutti modi, versando il mio seme in ogni suo intimo anfratto, ma non mi fermai qui, infatti, il giorno dopo mentre la costringevo a ripetere tutte quelle esperienze la fotografi, con il cazzo ben piantato in bocca, nella fica e nel culo, avvisandola che quelle foto sarebbero rimaste in mano mia. Le avrei fatte vedere solo ad un suo eventuale fidanzato, costringendola così a comportarsi come una puttana, scopando e concedendo il suo corpo, ma senza mai sposarsi.. La gente, maligna, si domandava come mai non si fosse sposata, bella com’era, insinuando che avesse mirato troppo in alto restando scottata, ma solo noi conoscevamo la verità.
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