I mesi passarono veloci e arrivarono anche le tanto sospirate vacanze invernali. La cosa mi faceva piacere, perché potevo staccare per un po’ con quell’ambiente ma, naturalmente, per quindici giorni fui costretto a sospendere i miei incontri con suor Carla. A casa le cose andavano bene. Gli affari prosperavano, ora avevamo anche una fabbrichetta per la preparazione di sottolio e sottaceto. Mio fratello aveva deciso di sposare Chiara ad ottobre. Questo fatto mi costrinse a rivedere la mia strategia per quei giorni, infatti, lei mi fece capire di non voler più sottostare al ricatto, evitando ogni mio approccio. Le altre fanciulle mie coetanee erano escluse in partenza, sia perché non c’era modo di avvicinarle, sia per la loro verginità, che le salvaguardava ancora. L’unica soddisfazione che riuscii ad avere fu un sontuoso pompino che mi feci fare da Chiara una domenica pomeriggio in cui, dopo essere uscita con mio fratello, si fermò per la cena a casa nostra. Una serie di circostanze favorevoli mi consentirono dì restare solo con lei nello studio di mio fratello, così, appena quest’ultimo uscì chiudendosi la porta alle spalle, le saltai addosso palpeggiandola con foga impetuosa, tanta era la voglia che avevo. “Smettila dai, non voglio più, ti prego, può entrare qualcuno” ma io ero sordo alle sue suppliche, cercavo di alzare la gonna spingendola contemporaneamente a stendersi sul divano “Lasciami, lasciami” disse ancora, risoluta a resistere. Io però l’avevo già tirato fuori, duro e pronto all’uso, e le dissi “Sei sicura di non volere? Non possiamo scopare, ma quello non è il solo modo per divertirsi” e senza più esitare lo prese in mano. Lo stringeva con la giusta forza, dimostrando una certa pratica, quindi si mise a menarlo con colpi lunghi e lenti, che coinvolgevano tutta l’asta. Una mano sull’uccello e l’altra a massaggiare le palle, con movimenti delicati, un tocco dolce, capace da farmi eccitare al massimo. A quel punto chinò la testa avvicinandola al mio basso ventre e, senza esitare, lo prese fra le labbra, e poi lo ingoio tutto, riempiendosi la bocca col mio cazzo. Avevo già goduto di quel piacere, mai con lei, però, e mai senza dover insistere o forza la partner a prenderlo in bocca. La sua testa risalì, percorrendo in senso contrario lo stesso percorso. Trattenne la cappella con le labbra, che aderivano perfettamente al mio sesso, mentre con la lingua insisteva sul filetto. Lo ingoiò tutto nuovamente, succhiando forte, poi mi lasciò uscire per leccarmi con tutta la lingua, partendo dallo scroto peloso risalendo l’asta sino al glande, viola per il desiderio. A bocca aperta si buttò nuovamente a succhiare e leccare, facendo sparire tutto l’uccello per qualche secondo prima di lasciarlo apparire di nuovo tutto lucido di saliva, finendo per concentrarsi solo sulla parte finale che, adesso, si faceva rapidamente scorrere sulla morbida lingua, sino a fermare quella corsa contro la guancia, che si gonfiava, tendendosi, ritmicamente. Era oscenamente troia con quel pezzo di carne che le teneva aperta la bocca, ma era altrettanto evidente che la cosa le piaceva, tanto da tenere stretto fra le labbra il mio uccello, che schizzava tutti gli arretrati di quei giorni, nella sua bocca accogliente. La ingoiò tutta, sino all’ultima goccia, bevendo la mia sborra spumeggiante. Era stato il più bel pompino che avessi avuto, nulla di paragonabile con i servizi svogliati e forzati delle mie compagne. Lei, intanto, si era ricomposta, assumendo l’aria distaccata e sicura che le erano tipiche, anche se traspariva ancora, dal suo colorito più vivace del solito, che qualcosa di particolare era accaduto in quella stanza, e, un occhio esperto, avrebbe capito subito che cosa. Lei mi disse di considerarlo un regalo d’addio, perché non poteva più esserci nulla fra noi e giusto un istante dopo ritornò mio fratello, il suo legittimo promesso sposo. Non potei ribattere nulla sul momento ma, giunto il tempo di salutarci, le feci capire che il discorso per me non era chiuso e, prima o poi, sarei tornato a pretendere il prezzo del mio silenzio. La monotonia dei giorni a casa mi spinse ad anticipare il rientro al seminario di un paio di giorni, potendo godere in questo modo di una libertà ancora maggiore del solito. La fica di suor Carla mi era mancata moltissimo così, lasciati i bagagli in camerata, senza aspettare oltre, salii nella sua cella. Nulla era cambiato, le sue mutandine erano appese ad un gancio dietro la porta, come le avevo detto di fare quando era nella cella, così come la notte doveva coricarsi completamente nuda, in modo da farsi trovare pronta al mio arrivo. “Sono tornato” le dissi trovandola seduta al piccolo scrittoio che aveva, solo allora si rese conto della mia presenza alle sue spalle. “Sei in anticipo” rispose “E’ vero ma solo qui trovo una così bella fichetta da montare” e la sollevai letteralmente in piedi, quindi fattala voltare, slacciai i due bottoni che chiudevano la sua tunica, in modo da farla cadere a terra. La liberai del reggiseno, lasciandola con solo un paio di calzette di spugna. Baciai piano la pelle liscia e profumata della sua schiena, assaporando l’aroma di mughetto del sapone che usava, mentre le mani solleticavano i capezzoli e i seni, prima, e la fica, poi. Non ci volle molto per eccitarla, anzi, l’astinenza forzata doveva esserle pesata più di quanto lei stessa non fosse disposta ad ammettere, ed ora le mie mani, che tornavano a tormentare il suo corpo violandolo per l’ennesima volta, erano le benvenute, come fu benvenuto il mio uccello quando, finalmente, la penetrai. Il suo giovane corpo di donna rispondeva voglioso ed esuberante, desideroso delle attenzioni del maschio. La presi così da dietro, ormai la posizione preferita, spingendomi tutto dentro di lei che, pronta, aveva aperto le gambe per facilitarmi. Restai fermo mentre Carla cominciava la sua danza sul mio stantuffo duro, dimenando i fianchi, sollevandosi in punta dei piedi fin quasi a perdere il contatto con il cazzo, per poi abbassarsi su di lui, sino a farlo toccare la punta estrema della vulva. Il suo delizioso culetto, bianco e rosa, rimbalzava addosso al mio basso ventre, trasmettendomi delle sensazioni particolari ad ogni nuovo contatto con quelle dolci mele. Passata l’urgenza della prima scopata, mi misi d’impegno per farla letteralmente impazzire, scopandola piano piano con infinita dolcezza fino al punto di farla venire, ma fermandomi appena in tempo. Dopo un’ora di trattamento, la sua voglia era così palpabile da farle chiedere un po’ di pietà, non resisteva più, voleva godere fino in fondo, così l’accontentai facendola urlare di piacere, mentre le davo dentro l’uccello con colpi forti e decisi. Il nostro incontro fu, però, interrotto dai suoi obblighi verso l’istituto così, rivestitasi in tutta fretta, corse fuori della cella senza mettere le mutandine, che rimasero, ondeggianti, appese al gancio della porta. L’idea del suo imbarazzo quando si fosse resa conto d’essere priva della biancheria, o che qualcun altro potesse accorgersi della cosa, mi solleticava molto, tanto da pensare di costringerla a quella pratica tutti i giorni. Ci avrei pensato con calma, intanto m’infilai a letto aspettando il suo ritorno. L’idea, però, aveva il difetto di coinvolgere terze persone nel mio gioco di sopraffazione, col rischio che venisse a galla la verità o che lei divenisse il giocattolo sessuale d’altri. Sapevo, infatti, che molti seminaristi si masturbavano pensando alle monache, mentre io ero passato ai fatti con l’oggetto più desiderato nei loro deliri erotici, facendo realmente quello che loro non avrebbero mai neanche ammesso di sognare. La pausa forzata durò alcune ore, ma finalmente la vidi varcare la soglia della cella e, senza trattenermi, le chiesi subito com’era stato girare senza mutandine, col rischio che qualcuno potesse intuire la sua nudità. Era avvampata, sempre pudica e vergognosa, nonostante la scopata in cui si era esibita solo qualche ora prima. La causa di tutto stava nella sua esistenza sino a tre mesi prima, passata praticamente ritirata a studiare dalle suore, senza vedere mai uomini. Un mondo fatto di sole donne, che l’avevano istruita nella mente e nel corpo ad essere una suora. Il sesso come piacere le era sconosciuto, convinta da quell’educazione inflessibile, non aveva mai provato a toccarsi da sola, convinta di commettere un sacrilegio. I cambiamenti che aveva fatto con me in quei tre mesi erano incredibili, ma ancora poca cosa per il potenziale erotico che teneva dentro di se, e che lasciava intuire quando, eccitata dalle mie carezze, si lasciava andare partecipando attivamente alla penetrazione. Lei si era già levata il saio, mettendosi nuda, ben sapendo quali erano i miei desideri, quindi, s’infilò nel letto scivolandomi sopra, in modo che la sua fica potesse ricevere il mio uccello nel suo accogliente pertugio. La strinsi forte restando dentro di lei senza muovermi, deciso a sperimentare la tecnica indiana dell’abbandono e della culla. I nostri corpi si muovevano solo seguendo il ritmo naturale del respiro, mentre con le mani c’esploravamo, toccando tutta la pelle e regalandoci un calore mai provato, finendo per serrarle fra loro in una virtuale fusione. Il suo viso, fino a quel momento appoggiato sulla mia spalla si sollevò, carezzandomi con i morbidi capelli, e guardandomi con quei dolci occhi da cerbiatta, sfiorò con le sue labbra le mie, dando in quell’istante il primo bacio. Prima solo un leggero contatto delle labbra, che si schiusero poi alla lingua, in un profondo e appassionato bacio fra due amanti. Era un ulteriore passo in avanti sulla via della sua iniziazione totale al piacere, così continuai a baciarla per tutta la notte, gustando già il momento in cui alla lingua avrei sostituito il cazzo, insegnandole a fare i pompini. La notte trascorse così, in quell’abbraccio totale, senza che il nostro desiderio si affievolisse, regalandoci picchi di piacere intenso e profondo, sino all’ultima grande e definitiva onda di piacere, che ci avvolse, insieme, facendoci godere l’uno dell’altra. Quella fu per entrambi qualcosa oltre il sesso, infinitamente meglio delle scopate frenetiche e rabbiose cui ci sottoponevamo. Era fare l’amore. La notte insonne passata con, e dentro, lei aveva scaricato le mie energie, così per qualche sera non c’incontrammo, ma, una volta recuperata la carica, ripresi a farle visita con la stessa frequenza. Nel corso di uno dei lunghi incontri della domenica pomeriggio, mentre lei nuda con le gambe aperte, mi lasciava esplorare la sua vagina ancora una volta, prendendo spunto dal piacere che provava, le raccontai che quella era solo una infinitesima parte di quello che si poteva fare per ottenere il godimento della carne. Lei ascoltava muta, mentre parlavo di tutte quelle cose che non conosceva, eccitandosi visibilmente quando le raccontavo degli antichi popoli, esperti e raffinati amatori e del loro sapere, che era andato disperso nel medio evo, per finire bollato ed oscurato dalla chiesa.”Lo sai che i greci praticavano il sesso orale mentre tale pratica era sconosciuta nelle corti medievali?, dove era diffusissima la sodomia, soprattutto con le ancelle, che dovevano preservarsi per i cavalieri. Per questo motivo erano tanto diffuse le cinture di castità ma, una volta tornati dall’oriente, i paladini, che erano entrati in contatto con la cultura orientale, iniziarono a richiedere tale pratica anche alle proprie concubine occidentali, mentre, sino a quel momento, era stata una prerogativa delle schiave arabe, che spesso erano comprate solo per quel motivo”. Era rimasta zitta gemendo per il piacere dato dalle immagini delle schiave costrette a sottostare ai desideri turpi del padrone, che era poi la sua situazione, o forse solo l’unica che aveva conosciuto. “Non dici nulla? A cosa pensi?” Le chiesi, vedendola distratta “A niente, non penso a niente”mentì””proprio a niente?”. Insistei, “Non credo sia giusto, però, fare quelle cose un po’ contro natura, è da bestie, noi siamo fatti a immagine di Dio” disse “Questi sono secoli di repressione che la chiesa ha imposto al popolo ignorante, ma credi che loro siano tutti casti e puri? Tu no di certo” dissi spingendo veloce il dito nella sua fichetta “e aggiungo che la cosa ti piace parecchio” così dicendo, sostituii il cazzo al dito scopandomela alla grande. La settimana successiva continuai ancora a parlarle del sesso, delle sue pratiche, del vari usi fra i popoli, raccontando anche un sacco di storie che m’inventavo di sana pianta, seguendo l’ispirazione del momento. Nel week-end decisi di passare dalla teoria alla pratica, cioè, era giunto per lei il momento d’imparare a prenderlo in bocca come le antiche schiave orientali. La domenica mattina, mentre la scopavo alla pecorina sul pavimento nudo della cella, mi staccai da lei, che, meravigliata da quella novità, si girò per vedere cosa stessi preparando. Alzatomi in piedi la presi per le braccia e, un po’ sorreggendo e un po’ spingendo il suo corpo, la portai verso l’inginocchiatoio, che usava per le sue pratiche spirituali, e fattala mettere nella giusta posizione, le girai intorno mettendomi di fronte a lei, l’uccello inequivocabilmente spinto in avanti. “Usa la bocca” le dissi, vedendola esitare, e spinsi il glande a contatto delle sue labbra. Cercò di rispondere qualcosa, di opporre un rifiuto, ma non ebbe il tempo di parlare perché la interruppi “non fare tante storie che i pompini sono le prime cose che imparano a fare le brave ragazze e le suore, come te, per non mettersi nei guai e restare pure, invece tu ti sei lasciata sverginare senza opporre una vera resistenza, ti ricordi come hai aperto le gambe la prima volta, cercando il contatto col mio uccello?, adesso che sai scopare devi aprire anche la bocca”. Terminate queste parole lo spinsi in avanti non trovando più resistenza da parte sua che, arrendevole, dischiuse le labbra facendoselo mettere anche in bocca.. Dopo il primo momentaneo senso di nausea, lo schifo per quel grosso oggetto che rischiava di soffocarla si affievolì, sostituito da una naturale voglia di succhiare, quasi la sua bocca sapesse istintivamente cosa fare. Mi succhiava il cazzo come un vitello succhia i capezzoli, aspirando e stingendo con forza la cappella, senza farmi sentire i dentini. La sua presa era delicata e decisa, così la lasciai fare per vedere come si comportava, perché dopo qualche minuto di trattamento dentro la bocca, quasi a malincuore mi fece uscire da li per potermi leccare con tutta la sua calda lingua. Eccitato come un mulo non riuscii a resistere oltre, venendole prima sul viso e poi anche nella bocca, che lei aveva prontamente riaperto per accogliere i miei schizzi. Il gusto della sborra non era di suo gradimento, immaginai giustamente, vedendo le smorfie che fece per ingurgitarla, ma non era importante perché in ogni caso avrebbe imparato a berla. Il servizio era stato così piacevole che mi feci fare il bis dalla sua bocca, ma questa volta, quando mi senti venire, cercò di farmi uscire ma io, tenendo bloccata la sua testa, le feci capire che i pompini doveva farmeli con l’ingoio e, vinta anche quella timida ribellione, le scaricai in gola tutta la sborra che mi restava. La sua naturale propensione a succhiare il cazzo fece diventare suor Carla una pompinara abilissima, che non aveva nulla da invidiare alle donne che stavano fuori dal ristretto ambiente del seminario, anche il suo rifiuto a bere la sborra era sparito e ora era una ghiotta appassionata, arrivando a ripulirmi l’uccello con la bocca dopo ogni incontro. Le mie esperienze sessuali mancavano ancora di un elemento, ed ero deciso a assaporare anche quel piacere prima della fine dell’anno scolastico, così, smaltita l’euforia di farle aprire la bocca in ogni momento o luogo come, per esempio, in cucina, in biblioteca, per non parlare dei bagni della scuola dove la portavo per farmi spompinare e anche per scopare, ero risoluto a rompere il suo culetto alla prima occasione. Quel poco che sapevo sull’argomento l’avevo appreso in quei famosi testi, trovati in biblioteca, che parlavano di una pratica dolorosa per la donna più della deflorazione, ma che, alcune, ne traevano maggior piacere che dai normali rapporti sessuali. I racconti, che illustravano quella pratica, parlavano di urla, pianti, lamenti e perdite di sangue per le poverette che subivano quell’affronto. Il fato di avere gente intorno avrei potuto risolverlo imbavagliandola ancora ma, seppur fattibile come soluzione, non mi andava. La soluzione che escogitai fu, invece, più semplice e sicura, perché una sera di marzo, sapendo che era distaccata in infermeria, finsi di stare così male da non poter restare in camerata, in tale maniera mi trasportato nel lettino dell’infermeria. Lei vedendomi arrivare in pigiama e accompagnato dal preside pensò che mi avessero trovato nella sua cella, e che tutto fosse stato scoperto. Pallida in volto attese di essere svergognata, ma ciò non avvenne, o. almeno, non come temeva lei. Il preside le illustrò la mia situazione, affidandomi poi alle sue cure, decidendosi, dopo una ventina di minuti, a togliere le tende. Sdraiato sul lettino aspettai qualche istante ancora mentre lei prendeva un termometro e si avvicinava “Non ho la febbre”, “Ma cosa ti senti?” mi chiese sedendosi sul bordo del letto. “Ho male, qui” risposi indicando il ventre “Ti fa tanto male?” mentre mi accarezzava leggera “Più in basso, così, ancora un po’” invitandola a spostare la mano sino a sfiorare il mio sesso”Brava, proprio lì, tiralo fuori e datti da fare” e lei, capendo le mie intenzioni, mi liberò l’uccello, abboccando alla cappella con naturalezza. Dopo quel bel pompino ristoratore la spogliai, scopandola nonostante le sue paure di essere coperta dal direttore o da qualche altro malato. Lei sopra di me si stava esibendo in una piacevolissima rappresentazione personale della danza del ventre, eseguita tenendo l’uccello nella topa. Le mie mani la carezzavano, insistendo in particolare sul culo, sodo e rotondo, spingendosi a sfiorare il suo ultimo forellino vergine. Piccolo e grinzoso, duro al tatto, non sapeva cosa lo attendeva da lì a poco. Spinsi la punta dell’indice con più forza penetrando meno di un centimetro ma, quell’intrusione, risvegliarono la sua attenzione costringendola ad interrompere il balletto. “Che fai?!” mi disse meravigliata, tutta irrigidita, scostando il sedere. “L’hai già capito da sola” risposi, rimettendo le mani sul suo culo. Non disse nulla, “Adesso da brava vieni giù” alludendo alla sua posizione sul mio uccello dritto “che cambiamo buco”. “Quello no, non farlo, ti prego, non infliggermi anche questa umiliazione” implorò, mentre si metteva in piedi vicino a me. Io non la ascoltavo neppure e, alzatomi in piedi a mia volta, la spinse a salire sul lettino, facendole chinare la testa giù in basso fin sul materasso, mentre la costringevo a piegare una gamba e poi l’altra, inginocchiandosi sul lettino, il culo ben esposto in alto “Sarà bello vedrai, ti piacerà” “No, per favore” ripeté ancora inutilmente mentre saggiavo la consistenza del suo stretto sfintere, piccolo e impaurito. “Rilassati che non riesco neanche ad incominciare” “Noooo, noooo” piagnucolò “Smettila di fare la cretina, ho deciso che devi prenderlo nel culo e sarà così, con le buone o con le cattive” e le assestai uno schiaffo sul sedere che, non abituato a quel trattamento, divenne tutto rosso con lo stampo della mia mano a contrasto. Infilai un dito nella sua fregna umida e poi lo spinsi nel culetto, adesso più accondiscendente. “Brava, è solo meglio per te se fai quello che ti dico” e spinsi più a fondo vincendo la sua ostinata resistenza con quella prima sommaria esplorazione. Stringeva i denti per il male, ma non m’importava, levai il dito, e tentò di spostarsi cambiando posizione, ma la costrinsi a restare ferma come preferivo io. La insalivai, baciandola fra le cosce, riprovando ad infilare il dito nel culo ma era stretta come la prima volta. “Se non vuoi capirla, peggio per te” le dissi, spalmandole un po’ di vaselina sul sedere e, unto anche l’uccello, spinsi la cappella a violare il suo ultimo anfratto vergine. Urlò, forte per il dolore che le provocavo, ma non mi fermai spingendo dentro tutto il glande “Così, ecco, è quasi fatta” le dicevo descrivendo le fasi della sua inculata “ci siamo quasi” e mi fermai, concedendole un attimo di pausa, solo quando tutta la cappella fu sparita dentro di lei “Mi brucia, fa male” si lamentò allora, quella poverina, ma la tenni ferma “Adesso prova a venire indietro, così” e le indicai il modo, aiutandola con le mani sui fianchi. Fece un breve tentativo per fermarsi quasi subito “No ti prego mi sta sfondando, levalo”, “Il cazzo non ti ha mai fatto male e non inizierà adesso, dai prendilo per bene da sola, o ci penserò io”. L’idea di non poter controllare in alcun modo quel grosso bastone che si faceva strada nelle sue viscere, la costrinse a retrocedere piano, un millimetro alla volta, accogliendo il cazzo dentro i se. “Ecco!” Esclamai, affondato dentro di lei fino alle palle “Dopo tutte quelle storie l’hai preso anche nel culo”. Lo tirai fuori liberandola da quell’invadente presenza, notando come il buchino restava leggermente aperto. Spinsi nuovamente l’uccello dentro il suo anello di carne che, meno duro e resistente, mi fece passare più agevolmente, non senza qualche gridolino da parte sua. La inculai ancora una volta e poi cominciai a pomparla con ritmo fino a godere dentro di lei “Non dentro, non dentro, non venirmi dentro” disse, ma io scaricai la mia sborra dentro di lei, sino all’ultimo schizzo. Lo tirai fuori dal suo culo ormai irrimediabilmente spanato, che grondava il mio bianco latticello. “Eccoti servita di tutto punto. Nel giro di soli sei mesi ti ho sverginata, l’hai preso in bocca e adesso nel culo. Per fortuna che eri una suora, altrimenti non so cosa avresti fatto ancora”. L’avevo usata per i miei piaceri oltraggiandola in tutti i modi, costringendola al rango di puttana scalda letto, e così la tenni per tutto l’anno seguente, l’ultimo al seminario. Gli ultimi giorni di scuola mi videro protagonista di vere maratone del sesso per sfogare il più possibile le mie voglie su di lei, prima delle vacanze che, adesso, mi erano entrate in odio, sapendo che avrei dovuti rinunciare ai piaceri del sesso una volta tornato al paese. Fu proprio durante una domenica di giugno che si presentò un incredibile ed inattesa novità, infatti, tutti intenti a scopare, con lei sopra di me a dimenarsi come più le piaceva, non sentimmo la voce di suor Germana che chiamava suor Carla e, non avendo avuto risposta, si decise ad entrare nella cella sorprendendoci nel pieno dell’amplesso. La vidi come impietrita, dritta, immobile nel centro della stanza che ci guardava, non so da quanto tempo fosse lì, però aveva visto abbastanza e, comunque, la mia sola presenza là era di per se una violazione gravissima, in più ero stato scoperto con una suora nuda infilata sull’uccello. Suor Carla, che non si era ancora accorta di nulla, si stava dimenando pervasa dal piacere che la stava travolgendo ma, avvertendo il mio distacco, si fermò e, seguendo il mio sguardo fisso in un punto dietro di lei, si voltò scoprendo il motivo del mio turbamento. Era di sale, come tutti in quella stanza, solo il suo viso lasciava trasparire un’emozione fortissima, che la trasformava da bianca pallida a rosso peperone. Il silenzio era totale, carico di tensione rotto solo dai singhiozzi di Carla, che cercava di coprire le sue nudità con li lenzuolo che aveva attorno alle gambe, piegandosi allo stesso tempo verso di me, in cerca di protezione. “Cosa c’è? Vuoi qualcosa?”, mi rivolsi a suor Germana in modo confidenziale, quasi che lo spettacolo offerto fosse normale. “Siete pazzi, voi siete pazzi” continuò a ripetere per qualche minuto senza fermarsi, invocando a più riprese l’aiuto del cielo per il nostro peccato. “Uscite da quel letto, insomma, o non avete neanche un po’ di vergogna per il vostro comportamento? Tu, tu, tu”, indicò me, ma non le venivano le parole “e tu, invece” riferendosi a suor Carla “come hai potuto arrivare a tanto? Sembravi tanto timida e ingenua, ma era solo una maschera per celare il male che si annidava dentro il tuo corpo, quanto a te”, mi disse, “sapevo che eri un poco di buono, ma hai superato ogni previsione, anche la peggiore”. “La prego sorella, la scongiuro”, implorò Carla in lacrime, la voce rotta dai singhiozzi, “Non chiamarmi sorella, non ne sei degna, svergognata, e quando lo saprà il preside sarai scacciata e tu espulso. Rivestitevi, subito!!”, disse spingendo verso di noi, con la punta del piede, i nostri vestiti abbandonati sul pavimento, dove li avevamo lasciati sfilandoceli in fretta, per andare a letto insieme. Ci alzammo allora ma, mentre Carla si piegava a raccogliere la tunica, io, completamente nudo, mi ero avvicinato a suor Germana, per nulla impaurito dalle sue minacce e, fissandola negli occhi, la voce calma e tranquilla, dissi “Non sei nella condizione di farmi la morale e lo sai, però, se vuoi una rinfrescata alla memoria, posso parlare della tua promozione a madre superiora e di come ti spinge il preside”. Adesso era il suo turno di arrossire e, quasi scottata dalle mie parole, fece un passo indietro, impaurita, “Vedo che hai capito” continuai, quindi rivolgendomi a Carla, “lascia stare quella roba, che sorella Germana ha cambiato idea, vero?, anzi vuole partecipare” e allungai le mani a tastare i suoi seni. “Stai fermo”, disse istintivamente, cercando di bloccarmi. “Non fare la commedia, che con me non attacca, levati gli stracci e infilati nel letto, subito, o sarò io a raccontare tutti i nostri piccoli segreti”, le sussurrai cattivo in un orecchio, quindi, ritornai a sdraiarmi, mentre Carla, non capendo la situazione, esitava. “Vieni a letto, Carla, o vuoi lasciare il posto migliore a quella? Dai vieni qui” ripetei, sbattendo la mano sulla parte destra del letto. Suor Germana intanto aveva cominciato a spogliarsi e, vedendo ciò, Carla si era decisa a tornare al mio fianco per gustare lo spettacolo, sdraiata accanto a me.. Levata la tunica, Germana scoprì un coordinato intimo di un celeste molto chiaro, certamente troppo vistoso per una monaca dal momento che il reggiseno, a balconcino, strizzava le tette, mentre le mutandine, molto sgambate e piene di pizzi, lasciavano intravedere la vagina. Con un solo rapido gesto sfilò il reggipetto mostrando le sue grosse bocce, ancora più belle di quanto avessi intravisto quella volta attraverso la serratura, passò poi a levare le mutandine, scoprendo la fica, su cui si stendeva un leggera peluria. La facilità con cui si era spogliata davanti a noi era sintomo di una libertà di costumi maggiore di quanto sarebbe stato logico aspettarsi da una qualunque donna, tanto più da una suora, ma, evidentemente, la sua pudicizia e la sua virtù erano sparite da molto tempo. La fermai prima che si sdraiasse accanto a noi e, senza esitazione, allungai la sinistra a toccare il basso ventre, la peluria soffice che copriva il monte di venere, e, senza fretta, mi spinsi più giù fra le sue cosce, schiuse, infilando il dito nella sua vulva aperta. “Vedi come si fa infilare, senza problemi?” dissi rivolto a Carla. Invitandola a provare, “Lo senti com’è aperta la fica di suor Germana? Deve averne presi di cazzi per essere così, ma senti che porca, si sta già bagnando” continuai, mentre Carla faceva come le avevo detto ed iniziava a toccare la fica di Germana, che aveva cercato di evitare quelle carezze, ma era bastato un mio sguardo a farla cedere. Era più docile di quanto potessi immaginare, avvezza ad obbedire e subire certe attenzioni. Le carezze di Chiara, prima timide e superficiali si erano fatte più sicure e mirate, tanto che dopo aver inserito due dita nella vagina, per stimolare il mitico punto “G”, con l’altra mano si occupava della clitoride, stuzzicandola senza pietà come solo una donna può sapere. I suoi movimenti si alternavano fra dolci tocchi e delicati sfioramenti a decise pressioni sul clito, non esitando a stringerlo con forza tra le punte delle dita. Germana, succube, ci lasciava fare, gemendo di piacere, così la presi a cavalcioni e lei, avvezza a quella posizione, si spinse l’uccello tra le cosce a contatto con la vagina, impalandosi con calma. La sua tecnica era decisamente più raffinata di quella di Carla, mentre la sua fica, che sembrava tanto larga, si adattava ora perfettamente al mio membro, stringendolo in una spirale di piacere, che non avevo mai provato. Carla inizialmente esclusa, si era messa a leccarci come poteva, cercando di lambire i nostri sessi occupati, poi si era messa a sua volta sopra di me, rivolta di spalle, in modo da regalarmi una visuale ravvicinata dei suoi buchi, anelanti la mia presenza. Leccai la sua fica trovandola completamente bagnata, passando a farle il servizio manuale davanti e dietro, infilando indice e medio nella fica e il pollice nel buco del culo. Lei si dava da fare baciando e carezzando Germana, le cui tette sfregavano contro le sue. La stava baciando in bocca, nonostante la prima resistenza fini per cedere anche a quella richiesta. Estasiato da quella situazione, venni, allagando di sborra la sua fica, prontamente ripulita dalla sempre golosa Carla. Il mio uccello ancora baldanzoso richiedeva di essere pulito prima di tornare in pista, così le invitai a darsi da fare per mostrarmi chi di loro fosse più brava a succhiare. Leccavano entrambe con capacità insalivando la cappella e l’asta, succhiando i coglioni, ma Germana si spinse più giù leccandomi anche il culo. Si strappavano letteralmente il mio cazzo dalla bocca per poterlo succhiare, in questo capo Carla era nettamente più brava e fantasiosa, succhibdomi il cazzo con un trasporto ancora maggiore delle altre volte. Sapevo che le piaceva sentilo in bocca, a contatto con la lingua e sul palato, però adesso la sentivo fremere, sì, era gelosa e aveva paura di perdere le mie attenzioni. Quando fui sul punto di venire mi misi in piedi sul letto, invitandole a mettersi in posizione con la bocca aperta, per ricevere il mio denso regalo, però Germana, sottraendosi al mio legittimo piacere, si coprì il viso con le mani, mentre Carla, lesta, lo prendeva in bocca, facendomi venire con sapienti tocchi della lingua. “Cosa fai, troia” dissi, prendendo Germana per i capelli, “ti ribelli ancora?”, “In bocca no, non voglio che vieni in bocca”, “Ma senti questa cretina, lei non vuole. Da quando mondo è mondo le donne succhiano il cazzo e ingoiano tutto, e tu vuoi farmi credere che a quarant’anni non l’hai ancora fatto? Da come succhiavi non si direbbe proprio e, comunque, se fino ad ora non c’è stato nessuno che te l’ha fatto fare con me dovrai incominciare a ingoiare”, e sempre tirandola per i capelli la spinsi sul letto in posizione prona per dedicare le mie attenzioni al suo bel culo. Allargai le chiappe sode mettendo bene in mostra il suo buchetto scuro “Non vorrai mica”, disse lei intuendo le mie intenzioni “Certo che voglio, l’hai mai presso qui?” , “No ti prego, fa male”, “Allora l’hai già fatto, peccato, speravo di essere il primo a mettertelo nel culo”, e spinsi il dito dentro di lei, trovando una certa piacevole resistenza. Un grido soffocato le sfuggì mentre il mio dito s’introduceva a forza in lei. Strinse le chiappe cercando di bloccare il passaggio “Lasciami, lasciami andare” implorò cercando di alzarsi ma venne trattenuta in quella posizione da Carla, prima ancora che io potessi fare qualcosa “No bella, adesso è il tuo turno. Io l’ho già preso nel culo e adesso tocca a te, ma non preoccuparti, ti abituerai anche tu”, “Brava, e tu stai buona”, e le spinsi la cappella contro lo sfintere ,che pian piano comincio a cedere, dilatandosi al passaggio del mio uccello. Le sue grida soffocate nel cuscino facevano da lugubre colonna sonora al mio uccello che, inesorabile, si apriva la strada nelle sue viscere. Lo forzai tutto dentro di lei premendo il mio bacino sulle sue chiappe aperte, cominciando a pompare in lei senza sosta, fino a farla passare dal silenzio rassegnato ai gemiti per un piacere nuovo e sconosciuto, donatole da quel grosso cazzo duro piantato in culo. Non venni subito, ma continuai a pomparla ancora un po’, quindi, lasciato il suo stretto accesso posteriore, avvicinai l’uccello, ancora sporco di lei, alla sua bocca. Tentò di resistere ma era inutile, e lo sapeva, così fini per dischiudere le labbra prendendo in bocca il cazzo “Ecco così, adesso lo pulisci per bene e mi fai godere”, e dopo un istante di silenzio puntualizzai “In bocca”, così quello che non aveva fatto in tutti quegli anni lo fece per me in un solo pomeriggio. Dopo quella volta ci furono altri incontri, sia fra me e loro sia fra loro sole, e la nostra tresca continuò anche dopo la sua promozione a madre superiora, sicuri ormai della totale impunità. Quando lasciai l’istituto, per le solitarie vacanze che mi aspettavano, provai una sincera invidia per loro che restavano insieme.
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