E’ vero che in una grande città la vita è movimentata e s’incontrano tutti i tipi di gente; ciononostante mai e poi mai avrei immaginato che, lasciando il mio paesino, sarei andata incontro ad incredibili avventure come quella che vi racconterò. Mi chiamo Maria Concetta, ma fin da piccola mi hanno chiamato tutti Tina. Vengo da un paesino della provincia meridionale, dove è ancora presente l’uso di dare ai primi figli il nome dei nonni, da cui il mio nome. Avendo la fortuna di abitare in un paese distante meno di mezz’ora di treno dal capoluogo di provincia, ho potuto frequentarvi l’istituto per ragionieri e prendere un diploma, il quale – in una zona dove manca il lavoro e a quattordici anni si lascia la scuola per andare a raccogliere frutta o pomodori, oppure a lavorare in qualche fabbrica tessile al nero per 400.000 lire al mese – può sempre tornare comodo.Una volta diplomata ragioniera decisi di non andare all’università, che del resto non era neppure vicina: decisi di cercare lavoro, che trovai in città presso un notaio. Aprire lo studio la mattina, effettuare conteggi, preparare gli atti che poi il dottore avrebbe firmato, riordinare scartoffie, il tutto per dieci ore al giorno dal lunedì al venerdì. Paga di un milione al mese senza busta, ma a 19 anni, e in una zona dove molte ragazze un milione al mese se lo sognano, già potevo godere di una certa indipendenza economica. Inoltre il dottore, da buon paternalista, che se ne fregava dei diritti sindacali e della giustizia sociale, per ricompensare le sue tre ragazze (tra cui la sottoscritta) delle prestazioni straordinarie fatte il sabato mattina o di qualche giorno di ferie saltato, a natale allungava un altro milioncino extra a ciascuna, così tacitandosi la coscienza. Ma tant’è, a modo suo era una brava persona e tutto sommato si era sempre comportato bene, pagando meglio di altra gente e soprattutto non approfittando mai del fatto che egli era il padrone per pretendere prestazioni, diciamo, fuori ordinanza alle ragazze.Ma la vita di provincia mi stava stretta: nel paese non succedeva mai nulla e l’occupazione principale di giovani e vecchi, sia uomini che donne, era, come dappertutto del resto, il sedersi al bar o in salotto e fare chiacchiere su tutto e tutti. Che auto s’era comprato questo, e quello che s’è rifatto casa, e hai visto quella che vestito, il marito non guadagna così, quindi ha l’amico (da fuori perché in paese sono tutti squattrinati). Insomma, l’ambiente mi era venuto a noia, finché l’estate successiva ebbi un colpo di fortuna colossale: mi rividi al mare con Maria Carla – o meglio, Carla – un’amica d’infanzia diplomatasi con me e che era andata a Roma all’Università. Abitava in un appartamento di una sua prozia che si era stabilita a Roma da tempo immemorabile. Ovviamente l’anziana signora riscuoteva un affitto a prezzo politico dalla sua pronipote, quindi problemi sotto quel profilo non ce n’erano. La zia era, più che altro, contenta che qualcuno abitasse quell’appartamento vuoto da anni e non lo lasciasse all’incuria. La mia amica mi disse di aver trovato lavoro a Roma come contabile part-time presso una multinazionale che si occupa di tenere la contabilità ad altre ditte; lo stipendio era buono, per lavorare quattro ore: un milione al mese, ma con busta paga e contributi. "Splendido", dissi io, "ma cosa ti fa pensare che prendano proprio me?". "Si lavora parecchio con il computer, molte procedure sono automatizzate", mi rispose l’amica, "e la caporeparto vuole gente giovane. In più già hai esperienza di lavoro e ti sei diplomata bene."; "Già, un milione lo prendo qui per dieci ore al giorno… ma l’affitto di casa?". "Vieni da me. Già pago una cifra ridicola a mia zia, se poi facciamo a metà campiamo alla grande.". Insomma, alla metà di luglio andai a Roma, nella sede della società dove Carla mi presentò la ragioniera capo, una giovane sulla trentina, e il responsabile del personale, di qualche anno più anziano. Tenni con entrambi un colloquio, che dovette lasciarli soddisfatti, perché qualche giorno dopo, tornata a casa, ricevetti una raccomandata della ditta con la quale mi si diceva che dal primo settembre successivo sarei stata una loro dipendente, in prova per tre mesi e poi a tempo indeterminato. Grande! Fu così che il 31 agosto, una domenica mattina, salutai tutti i parenti e salii con la mia amica sul treno locale diretto alla stazione del capoluogo, da cui poi avremmo preso il treno per Roma. Arrivammo a casa (un bell’appartamento nonostante il brutto palazzo in cui si trovava, costruito negli anni ’60 in pieno boom economico in zona semi-centrale o semi-periferica che dir si voglia) nel tardo pomeriggio. Assaporavo già la mia vita fuori da un paese dove quello che si fa viene a conoscenza di tutti in mezza giornata. A dire il vero non appartenevo alla categoria delle ragazze "chiacchierate", come ad esempio un’altra ex compagna di scuola che arrotondava come cubista nelle varie discoteche estive del litorale vicino al paese. In realtà bastava poco per essere chiacchierate: avere un lavoro per conto proprio e andare a lavorare in un paese sconosciuto, quindi diciamo dieci metri più in là del capoluogo. Anche la mia amica Carla era chiacchierata, sicuramente, e lo sarei diventata anch’io. Capirai, a Roma, da sole, chissà cosa combinano.. comunque, già dal momento di uscire dalla mia stazioncina avevo già deciso che di tutto ciò me ne sarei altamente fregata, come del resto aveva fatto già da tempo la mia amica. Mia madre doveva pensare qualcosa di strano anch’essa, perché mi disse di fare attenzione ai ragazzi, perché quelli di città… non sapeva che avevo perso la verginità sul sedile posteriore della Panda del fratello di un compagno di scuola quando avevo sedici anni e mezzo, e qualche avventuretta non mi era mancata, soprattutto al mare, con i figli di quelli che andarono a lavorare a Roma o a Milano anni fa e che in estate tornano a far vacanza nel nostro paese. Ma ero sempre stata discreta. Mi ero fatta un buon credito in paese, andando a messa fino a quattordici – quindici anni, e quindi dandomi una patina di perbenismo che – per inciso – non mi appartiene. Non che fossi una ninfomane, beninteso, ma, sebbene con un po’ di pudicizia, avevo avuto le mie storie. Non mi andava di parlarne, e soprattutto non mi andava di avere storie con ragazzi del mio paese perché non volevo essere il trofeo di caccia di qualcuno, o il numero tot di una lunga serie di conquiste da parte dello stronzetto da Bar Sport che poi se ne sarebbe vantato con gli amici. No, per quanto mi riguardava, dalle parti mia quella gente non avrebbe mai battuto chiodo. Il lavoro che intrapresi non era affatto male: potevo scegliere, mese per mese, se lavorare dalle nove all’una oppure dalle tre alle sette di sera. Intorno a Natale fui confermata e ricevetti la prima vera tredicesima, sebbene incompleta perché avevo lavorato solo quattro mesi quell’anno. La nostra ragioniera capo era molto esigente, ma sapeva anche riconoscere i meriti dei suoi collaboratori; insomma, tutto andava benissimo. L’unico rammarico fu che non avevo abbastanza giorni di ferie per recarmi a casa a Natale: anche smettendo di lavorare il 24 all’una, non sarei mai riuscita a stare a casa in tempo. E’ vero che c’era il 27 di mezzo che era sabato, ma per quel giorno mi era stato chiesto di lavorare per chiudere determinati conti richiesti da una società nostra cliente ed ero in ditta da troppo poco tempo per rifiutarmi. Mi ripromisi quindi di recare al paese passate le feste. Non avevo mai passato il Natale e il Capodanno lontano da casa, ma almeno non sarei stata sola: Carla stava nella stessa situazione, ci saremmo scambiati i regali sotto l’albero a Roma. Fu così che il sabato successivo ci recammo al lavoro. In quell’occasione conoscemmo l’amministratrice della società, una signora sulla quarantina che possedeva varie proprietà immobiliari tra Roma e dintorni, lasciatele in eredità dal marito – figlio di un facoltoso costruttore – morto a trent’anni in un incidente d’auto in pista, perché era un appassionato dilettante d’auto, e che abitava al piano attico di un elegante palazzo della periferia nord di Roma, dal quale si vedeva tutta la città (così mi aveva detto qualche collega che aveva visitato l’appartamento, visto che la principale dava, qualche volta, dei ricevimenti in casa). La signora non mancava di capacità manageriali ed era stata indicata dai vertici internazionali della società per guidarne la filiale italiana. Come persona era affabile, anche se sul lavoro non risparmiava tremendi cazziatoni a tutti, compreso il suo vice, se necessario. Non era piacevole essere convocati nel suo studio per un rimprovero. La principale aveva invitato i suoi collaboratori alla festa dell’ultimo dell’anno a casa sua. Sapendo che saremmo rimaste a Roma, disse a me e alla mia amica che le avrebbe fatto piacere avere anche noi alla festa di Capodanno. "Perché no?" ci dicemmo; in fondo c’era l’occasione di conoscere un bel po’ di gente e farsi nuovi amici. Insomma, la sera del 31 dicembre ci recammo a casa del nostro capo. Era un attico immenso, su due livelli, in un palazzo su una collinetta, da cui si vedevano i tetti di Roma. La vista spaziava dalle colline intorno alla città, fino giù ai Castelli, per degradare dolcemente verso il mare. Si potevano vedere distintamente, quand’era bel tempo, le sagome del palazzo del Quirinale e della cupola di San Pietro, che visti dal terrazzo dal quale li osservavo pareva si fronteggiassero, come a simbolizzare due forme opposte d’autorità, quali in effetti rappresentavano. Credo non ci sia città più di Roma dove tutto risponde ad una simbologia ben precisa, sin dai tempi dell’impero. La stessa casa dove mi trovavo, signorile, su una collina da cui si guarda la città, era la testimonianza di una raggiunta posizione economica e soprattutto sociale da parte della sua proprietaria. Durante la serata conoscemmo persone di un po’ tutti i tipi, accomunate dal fatto di avere grossi conti in banca. Un efficiente cameriere di colore provvedeva a tutte le necessità degli ospiti, e un altrettanto efficiente cuoco, anch’egli di colore, provvedeva in cucina. La padrona di casa disse che li aveva conosciuti un paio d’anni prima in un villaggio turistico del Kenya e, soddisfatta della loro efficienza, li aveva assunti come domestici in Italia. Assolutamente rispettosi, ubbidivano in silenzio e senza far domande a qualsiasi richiesta della loro principale. Qualche nostra collega ci disse, sottovoce e ammiccando "Chissà se ubbidiscono a proprio TUTTE le richieste…", ma lasciai cadere la cosa, perché in fondo non erano affari miei. Mia madre mi metteva sempre in guardia dalla gente con i soldi, specie di città, perché la considerava viziosa, come se il denaro desse automaticamente il vizio. Credo, invece, personalmente, che se si è, diciamo, viziosi (per dirla come mia madre) lo si sia indipendentemente se ricchi o poveri, e che semmai chi è ricco si può soddisfare il vizio, a differenza del povero… ma sto divagando. La signora Loretta (così si chiama la padrona di casa) voleva sapere qualcosa di più della sua nuova assunta, così chiese alla mia caporeparto chi fossi, come me la cavavo e così via. Chiacchierò pure un po’ con me per sapere da dove venissi, com’erano stati i miei studi e altre cose del genere. Avendo visto che, seppur solo da quattro mesi in ditta, mi ero data da fare e avevo una certa dimestichezza con la contabilità, mi prese in disparte e mi disse: "Senti, Tina, vuoi arrotondare un po’ il tuo stipendio?" Oddio, cosa mi chiederà mai? Vedendo l’espressione sulla mia faccia si mise a ridere e mi disse: "Cos’hai capito? Ho quattro palazzi qui intorno, compreso questo, e il mio vecchio ragioniere è andato in pensione. Gli appartamenti sono tutti affittati e mi serve qualcuno che tenga la contabilità. Tu sei giovane, capace, lavori solo mezza giornata e non frequenti l’Università, quindi avresti tempo…". "Volentieri, ma lei è sicura che io ne sia capace?" "E non darmi del lei, chiamami Loretta. E poi cosa crede quel vecchio rincoglionito del ragioniere? Che non sapessi che mi faceva la cresta sulle forniture e sulle manutenzioni? Avevo fornitori più pregiati che mi facevano metà prezzo… a rimetterci erano i condomini, che pagavano centomila lire al mese in più d’affitto". "Va bene, ma cosa dovrei fare?". "Semplice: andiamo in banca, depositi la tua firma sul conto che io uso per la contabilità dei miei palazzi, riscuoti e amministri l’affitto degli inquilini, che peraltro lo versano in banca, usi il mio ufficio, qui al piano di sopra, tre mezze giornate a settimana per parlare con gli idraulici, i muratori, eccetera. C’è fax, telefono e tutto quello che ti pare. Se una volta tanto telefoni giù a casa tua mica sto con il fucile puntato, basta che non diventi un’abitudine. Non c’è bisogno di ricevere condomini perché tanto l’unica proprietaria sono io, quindi se ci sono questioni dici agli inquilini di parlare direttamente con me.". A convincermi definitivamente fu il milione e mezzo pulito al mese che Loretta mi offriva. Generosa, anche se, conoscendola al lavoro, e visto come comandava i suoi domestici, sapevo che quei soldi me li avrebbe fatti sudare tutti fino all’ultimo. Ma sono sempre stata abituata a lavorare, anche quando studiavo, e non feci discussioni. Accettai, e lei mi disse di passare l’indomani, il 2 gennaio, per prendere il registro dal vecchio ragioniere e aprire l’esercizio per il nuovo anno. Insomma, in capo a tre – quattro mesi da allora la mia vita cambiò nettamente, e in meglio. Me ne rallegrai pure a casa, quando tornai a far visita ai miei, i quali non credevano che riuscissi, arrivata da poco a Roma, a portare a casa due milioni e mezzo al mese, esclusi gli straordinari e i premi. Beninteso, sapevo benissimo di essere incappata in un grosso colpo di fortuna, ciononostante mi comportai sempre in maniera da meritarmela, tale fortuna, impegnandomi nel lavoro e non dando quasi mai motivo di essere ripresa, a parte i rilievi fattimi dovuti a inesperienza. Ma sull’impegno non mi si poteva fare alcun rilievo. All’inizio dell’estate avevo avuto alcuni piccoli privilegi: gli inquilini erano contenti perché dovevano pagare meno affitto, siccome ero riuscita a trovare ditte di manutenzione meno costose, e Loretta aveva visto aumentare il suo guadagno netto dagli affitti (il perché è semplice: facendo un grossolano esempio, se, trovando un fornitore che mi faceva risparmiare centomila lire al mese per inquilino, abbassavo la quota manutenzione per inquilino di cinquantamila lire, il risparmio di centomila lire si divideva tra inquilino e padrona di casa). Mi affidò le chiavi anche del piano di sotto di casa (l’ufficio aveva un ingresso indipendente, ma poteva essere raggiunto anche internamente, da casa, attraverso una scala che portava anche alla zona notte), se per caso avessi avuto problemi di vettovagliamento (per dirla in breve: potevo andare in cucina a mangiare qualcosa se, per sbrigarmi, avessi dovuto uscire dal lavoro e recarmi a casa di Loretta senza passare per casa mia, cosa molto probabile dato il traffico a Roma). Al piano di sopra, quale onore!, c’era persino un bagno per gli ospiti. Mi ero persino portata da casa un accappatoio per, eventualmente, farmi una doccia, se fosse servito, cosa questa che, con l’arrivo della stagione calda, era veramente comoda. Fu così che arrivammo ai primi di giugno. Avendo lavorato il sabato precedente per una chiusura contabile non rimandabile, scambiai lo straordinario per una giornata libera. Fu così che mi tenni libera il mercoledì mattina per andare a Fregene al mare con una collega (con grande dispiacere per Carla, costretta a lavorare): a Roma ho guidato poco, sia perché non ho un’auto mia, sia perché il traffico mi irrita, e so anche che le code per raggiungere il mare sono pazzesche. Ma eravamo a giugno e non era domenica, quindi arrivammo presto. Al ritorno, sudata e piena di sabbia, alle tre del pomeriggio, mi feci lasciare direttamente sotto casa di Loretta. Sarei tornata a casa in autobus. Suonai, per scrupolo: ma non rispose nessuno, quindi entrai con le chiavi. Andai su in bagno e mi spogliai completamente, poi mi buttai sotto la doccia. Il sale venne via dalla pelle e il sole sembrò bruciarmi meno, anche se non ero tanto arrossata. Una volta finito mi infilai l’accappatoio e andai nello studio, lasciando che l’acqua mi si asciugasse addosso da sola. Accesi una sigaretta e iniziai a scartabellare le fatture dei fornitori e a preparare le distinte di pagamento. Come al solito qualcuno non indicava il codice fiscale, oppure prendeva un foglio di carta a quadretti, ci scriveva la cifra ("ma col vecchio amministratore si faceva così!" "E con me invece si fa come si deve", dicevo allora) e pretendeva di farla passare per fattura. In poco più di due ore e qualche telefonata ne venni a capo e gli ordini di bonifico furono pronti per la banca l’indomani mattina. Erano già le sei e mezzo ed ero ancora in accappatoio. Mi accesi l’ennesima sigaretta della serie e scesi in cucina a piedi nudi a bere qualcosa, perché mi era venuta sete. Qualcosa attirò la mia attenzione, perché udii alcune voci venire dal salone. Forse la televisione dimenticata accesa, pensai. Mi affacciai al salone, ancora con il bicchiere in mano. Ma la televisione era spenta e tutto era tranquillo. Tornai in cucina e misi il bicchiere nella lavastoviglie per non lasciare qualcosa in disordine. Ma sentivo ancora voci ed ero pronta a giurare che fosse quella di Loretta. Ma le porte di casa erano aperte (le avevo lasciate aperte apposta per sentire i rumori) ed ero sicurissima che in casa non fosse entrato nessuno. Così seguii le voci, che arrivavano dal salone, finché non compresi da dove venivano: c’era una porta, semiaperta, nascosta da un grosso specchio alto due metri e largo uno. Avevo sempre notato lo specchio nel salone, ma non avrei mai immaginato che nascondesse una stanza. Inoltre mi era chiaro perché non avessi sentito la porta. Sul pianerottolo ci sono due porte contrapposte e io pensavo che, avendo Loretta rea lizzato un appartamento solo, l’altra porta fosse lì solo per estetica e alle spalle fosse murata. Invece non era così: l’altra porta era un altro ingresso, sconosciuto a forse tutti noi. Capivo bene Loretta: forse era lì che teneva oggetti preziosi o altro. Forse non era neppure il caso di farle capire che avevo scoperto qualcosa che, tutto sommato, non mi riguardava sapere. Ciononostante la curiosità mi prese, e passai attraverso la porta nascosta. Mi trovai in un’anticamera buia dalla quale filtrava luce dalla porta di fronte: ma quello che mi incuriosì fu che, appoggiandomi alla parete, mi accorsi che era imbottita. Idem per la moquette. Forse usava la stanza per riunioni riservate, pensai, ma tutte queste precauzioni… pensai ciò perché non c’era solo la voce di Loretta, ma anche voci maschili. Doveva essere una riunione di lavoro concitata, pensai. Mi affacciai allo spiraglio da cui filtrava la luce che illuminava fiocamente l’anticamera e, dopo aver messo a fuoco quello che vidi, trasalii. Altroché riunione di lavoro… Nella stanza, anch’essa con pareti e con moquette imbottite e insonorizzate, c’era un letto a due piazze, senza testata e di stile moderno. C’era anche un letto per ispezioni ginecologiche, rimediato chissà dove. Sdraiata sul lettino, completamente nuda e con i piedi sulle staffe, ben distanziate, c’era Loretta, con le gambe completamente divaricate. Aveva soltanto un gonnellino a perizoma, senza nulla sotto, e una collana in legno ad una caviglia. Alla sua destra, in piedi, c’era il cameriere, al quale Loretta stava facendo una pompa che neppure le più navigate attrici porno avrebbero saputo fare. Il cazzo del cameriere era nella norma come lunghezza, ma era di una larghezza mai vista. Loretta faceva fatica a prenderselo in bocca, ciononostante lo assaporava con una perizia tale come se da ciò dipendesse la sua esistenza. Alla sua sinistra c’era invece il cuoco, le dimensioni del cui cazzo erano altrettanto notevoli in larghezza quanto quelle del suo domestico. Il cuoco si stava lavorando la fica di Loretta con un grosso vibratore, che faceva scivolare dentro e fuori roteandolo leggermente per allargargliela. La fica era completamente depilata, e si intravedevano appena le punte dei peli bruni intorno ad essa. Adesso capivo perché si fosse portata quei due dal Kenya: non erano solo efficienti nelle opere di casa, ma doveva averli provati entrambi nel lettone del suo residence africano ed esserne rimasta contenta…. Rimasi interdetta perché conoscevo Loretta come persona autoritaria, ancorché generosa con chi se lo meritasse. Ma in questa situazione la vedevo in stato di totale soggezione, perché lasciava che fossero i suoi due domestici a disporre di lei. A conferma di ciò che pensavo, ci fu il seguito: il cameriere venne in bocca a Loretta, che non riuscii a ingoiare tutta la sborra, che le colava dal viso: il cameriere le disse che allora doveva essere punita, e la fece mettere a pecorina. Il cuoco da un lato e il cameriere dall’altro, le bloccarono le caviglie sulle staffe, e i polsi ai bordi del letto, con delle cinghie. Una volta immobilizzata la padrona, il cuoco si recò ad un bancone attaccato alla parete di fondo, su cui si trovavano tutti i tipi di giocattoli per il sesso. Ne prese un grosso vibratore doppio, più grande di quello usato prima, e con quello la infilzò nella fica e nel buco del culo contemporaneamente, poi lo accese alla massima velocità. Passò quindi davanti, dove il cameriere aveva già ripreso a farsi leccare il suo cazzo, e reclamò un po’ di spazio per sé. Era evidente che Loretta doveva succhiare tutta la sborra senza farla cadere, e non credo che le dispiacesse essere punita… Questa volta fu brava: i due le riempirono la bocca, non senza difficoltà, visti i mugolii di piacere che le provocava il vibratore che le stava squassando il culo e le stava provocando uno sbrodolamento tremendo della fica, ormai rossa e gonfia. Ma da troia navigata quale stava dimostrando di essere, si assoggettava a tutti i compiti che i due le imponevano, e si sottometteva ad un’orgia nella quale l’oggetto di piacere era lei. Quindi il cameriere decise che la padrona (o dovrei dire la schiava?) poteva essere premiata. Tenendola sempre legata, le montò dietro e, appoggiatole la punta della sua grossa nerchia sul buco del culo ancora un po’ aperto, gliela sbatté dentro senza troppi complimenti. A ciò corrispose un urlo di Loretta, ma più di piacere che di dolore, tant’è vero che, sempre urlando, ritmava le stantuffate del negro nel suo sfintere gridando "Dai! Spingi! Ora! Spaccami! Aprimi! Aargh!", e via. Siccome la fica era lì, ancora aperta e bagnata, il cuoco pensò bene, senza ricorrere al vibratore, di fotterla con la mano. Non ebbe neppure bisogno di farsi strada prima con un dito, poi con due e via: riunì le cinque dita a punta e le infilò delicatamente, facendo scivolare dentro la mano fino al polso, e facendo piano piano avanti e dietro, e usando la mano libera per carezzarle la clitoride. A condire il tutto, il cameriere, chino sulla sua femmina da monta, le gridava cose porche alle quali lei rispondeva sempre più eccitata. Evidentemente, padrona con loro in altre occasioni, Loretta amava essere schiava e donna-oggetto in mano a loro, forse per godere della loro inventiva, o forse perché a letto amava farsi comandare. Fu così che sentii il cameriere urlarle: "Lo senti il cazzo?" "No…."; e lui aumentando il ritmo, con colpi che facevano ballare il lettino e le scardinavano le chiappe: "Ora lo senti, troia?" "Sii, mi piace quando mi chiami così", "Ti sto spaccando il culo come piace a te" "Siii, ma fatti sentire, voglio che mi vieni nel culo…."."Adesso no…". "Invece sì, riempimi, sto venendo…." Non fece in tempo a finire che urlò per l’orgasmo provocatogli dalla mano in fica. Quasi contemporaneamente il negro estrasse il suo cazzo per riversare un fiotto di sborra bollente dentro il buco del culo allargato e intorno ad esso. Poi, usando la sua stessa sborra come lubrificante, glielo rimise dentro e continuò a spingere finchè, urlando, non gli svuotò tutto il contenuto delle palle nell’intestino. Durante quest’ultima stantuffata, ovviamente, Loretta si produsse nel suo lessico più raffinato, invitando il suo stallone a sprofondarle nel suo sfintere e a prosciugarvici le palle. Il cuore mi batteva a mille, se non a duemila, e sudavo, non certo e non solo per il caldo. Sentivo pulsare i polsi e le tempie, ma non so se per l’emozione o cos’altro. Certamente mai avrei immaginato che, in città, avrei vissuto o assistito a situazioni del genere. Loretta sembrava una ninfomane, e aveva trovato il suo piacere nel farsi ridurre a oggetto da due stalloni, che la comandavano a bacchetta e la punivano esattamente come lei, invece, faceva con loro fuori da quella stanza all’interno della quale si celava un’inconfessabile verità: quella che la mia principale era una grandissima troia, affamata di sesso tanto da assoggettarsi ad esserne schiava. Ma non era finita: dopo averla slegata, il cuoco, che voleva la sua razione di culo, si sdraiò sul lettino, col suo cazzo dritto come un palo della luce. Loretta salì sul lettino sopra al cuoco e, aiutata dal cameriere che la reggeva per le spalle, mise i piedi sulle staffe e iniziò a calarsi sopra la nerchia. A quel punto, il cuoco la resse per i fianchi e iniziò ad esplorarle l’intestino con la punta del suo cazzo. Ma si offriva bella spalancata al cameriere, il quale, essendo già venuto, non trovò niente di meglio che fotterla anche lui con la mano, come aveva fatto prima il suo collega durante la monta. Un bel trattamento, non c’è che dire. Chissà quante volte a settimana vi si sottoponeva… anche qui urli e frasi porche sottolinearono l’orgasmo quasi contemporaneo del cameriere e di Loretta, e dissi tra me e me: Bello spettacolo, ma ormai sarà finito… Mi sbagliavo: scesa dal lettino, con i due ancora un poco mosci, Loretta si sdraiò di fianco sul letto, e tenendosi sollevata una coscia per mostrare fica e culo spalancati, disse: "Non mi volete più? Non sono più la vostra troiaccia da spaccare in due a colpi di nerchia?" A queste parole i due raccolsero la sfida e, sdraiatisi l’uno davanti e l’altro dietro, la fiocinarono contemporaneamente. "Così si fa!" urlò lei, e, presa a sandwich, si apprestò a ricevere un’alluvione di sborra, la quale arrivò dopo cinque minuti di pompaggi ininterrotti e ritmati di gemiti, grugniti e frasi porche, a sentire le quali Loretta si eccitava. Credo che se opportunamente insultata e umiliata, si sarebbe fatta fottere a sangue fino alla mattina seguente. L’orgia finì con la sborrata contemporanea, che lasciò i due esausti e lei al limite dell’estasi. Un urlo animalesco di Loretta segnalò il suo orgasmo e tutto il suo scarico di tensione. Si rialzarono e fecero per ricomporsi. Si mossero in direzione della porta dietro cui mi trovavo e, quindi, decisi di allontanarmi, quando, nel voltarmi per tornare indietro, misi il piede in una piega della moquette (Vaffanculo alla moquette, pensai in quel momento) e v’inciampai, perdendo l’equilibrio. Mi appoggiai alla porta che era solo accostata, e questa si aprì all’interno. Io franai sulla porta e, con essa, nella stanza. Cazzo, pensai, sono rovinata. La prima cosa che pensai fu che Loretta mi pagava praticamente due stipendi, uno alla ditta e uno a casa. Poi pensai ai due milioni e mezzo al mese che volavano via. Mi vedevo già a mendicare un lavoro da baby-sitter. Loretta mi guardava minacciosamente. "E così si spia, vero?". "Veramente", dissi io, "sono capitata per sbaglio. Sono venuta a lavorare direttamente dal mare, mi sono fatta una doccia, ho sentito rumore e…"; "Zitta!" mi chiuse la bocca con uno schiaffo. "Cos’hai visto?" "Credo di aver visto tutto" "Tutto cosa?" "Ho visto da prima che ti facessi legare e…." "E..?" "E…." dissi io, senza il coraggio di dire il verbo. "E scopare, la finisco io la frase". "Ma non l’ho fatto apposta, lo sapevi che sarei venuta…" "Saresti venuta? E quando cazz… Già, è vero, ma oggi in ufficio non c’eri e non mi è venuto in mente di chiedere perché. Ora mi dici che sei stata al mare, ma andavo di fretta stamattina, e avevo capito che stessi male… Ma perché non me l’hai detto subito? Ti saresti risparmiata lo schiaffo". Oddio, questa è fuori fase, pensai; "Ma te l’ho detto che sono stata al mare, mi hai dato lo schiaffo dopo che te l’ho detto..". "Ah, già. Quand’è così scusami. Del resto non potevi sapere di questo nascondiglio né del mio… diciamo, piccolo hobby, riguardo al quale conto sulla tua discrezione". Annuii. "Non sei arrabbiata con me, allora, Loretta?"; "E perché mai?". Mi mise una mano sulla spalla e mi tirò in disparte: "Sì, sulle prime mi sono incazzata, sai, parliamoci chiaro, mi hai vista fare certe cose per le quali, a saperle in giro, non mi potrei più far vedere in società, anche se ci sono certi ipocriti, porci e stronzi che conosco io, che, altroché queste cose: droga, gay, trans, sado-maso, sexy shop… ci potrei fare un dossier… io sono più discreta. Sono abituata a comandare, anche loro due", disse indicando i domestici, "anche voialtri al lavoro, ma nella vita privata sono una schiava del sesso. Lo amo al punto da farmi umiliare e dimentico ogni dignità quando sono in mano ad un uomo. Voglio che mi possieda totalmente e che mi comandi come un despota. Ho potuto realizzare questo sogno con loro. Lo sanno bene: fuori di qui sono la loro padrona ed esigo rispetto, come pure al lavoro; qui dentro sono loro succube". "Ci vuole equilibrio, credo, perché la cosa non prenda la mano", dissi io. "E infatti i patti sono chiari: nessuno dei due si sogni di voler approfittare della situazione fuori di qui perché il mio avvocato ha i loro permessi di soggiorno. Li rimando in Kenya in 24 ore. Ma spero che non si renda mai necessario. Mi sento così porca ad essere la loro schiava… a proposito, tu che spiavi, non hai provato nulla?". "Ma…io?", dissi. "Certo, tu. Mica mi dirai che sei di legno…". "No, un po’ di batticuore, ma per l’ansia, ma..". "Ho capito, ti hanno insegnato che eccitarsi è da cattive ragazze. Ehh, la vita di paese vi rovina.."; e nel dir ciò mi prese i lembi dell’accappatoio e li aprì. Le apparii completamente nuda. "Dio come sei bella… sei un fiore. Avessi la tua età…". "Per la verità", dissi confusa, "anche tu sei bella, e devo dire che… che… "; "…che a quarant’anni scopo ancora bene, vero? Ma a vent’anni si scopa peggio che a quaranta: si impara con l’esperienza, solo che a quaranta siamo considerate quasi pronte per la rottamazione, e senza neppure il contributo. Vorrei avere il corpo tuo e la mia esperienza…fatti carezzare".Essendo le mani di una donna lasciai fare, provai meno vergogna di quella che avrei provato se mi avesse toccato un maschio. Del resto avevo scelto una donna per ginecologo… quando mi toccò le labbra della fica le sentì gonfie e umide. Si bagnò le dita e me le mise sotto il naso: "Lo senti? Sei bagnata" "Potrebbero essere i tuoi umori.." le risposi in un estremo tentativo di autodifesa. "Sentiti da sola". Mi prese la mano e accompagnò due dita in mezzo alle labbra. Erano gonfie e umide, c’era poco da fare. Non era l’ansia… "Ti è piaciuto, non negarlo anche a te stessa….". "Non so che dire…."; "Vieni qui, non avere paura. Non sei vergine, vero? Non mi sembri sprovveduta fino a questo punto". Le dissi che non lo ero e le raccontai della prima volta e delle altre a seguire. Non mi ero neppure accorta che, chiacchierando, mi aveva fatto sfilare l’accappatoio, mi aveva fatto sedere sul bordo del lettino e ne aveva alzato lo schienale per farmici appoggiare quasi da ritta. Loretta mi disse: "Tu hai una gran voglia, lascia che te lo dica", dopodiché avvicinò le sue labbra alle mie e ci scambiammo le lingue, mentre con una mano passò a carezzarmi prima le tette poi la pancia, fino a giù. Dolcemente mi fece sollevare le gambe e mi fece mettere i piedi nudi sulle staffe. Adesso poteva carezzarmi il clitoride. Durante tutto questo periodo i due ci osservavano. Si vede che dovevano essere eccitati, perché allo spettacolo di me completamente spalancata erano duri entrambi. Loretta vide che li guardavo, e lei, voltandosi e guardando i loro cazzi, disse: "Ragazzi, andiamoci piano, che questa non è roba che sta nei patti". "E perché?" dissi io, eccitata dal ditalino "in fondo, ormai siamo più che amiche…" "E va bene, sei maggiorenne e vaccinata. Ma questi sono stalloni da Gran Premio, ti avverto"; "A me ne basta uno, voglio quello", dissi, spavalda, indicando il cameriere, poi dissi a Loretta nell’orecchio "Quando ti scopava mentre eri legata ti stava facendo impazzire" "Già, qualche volta me lo sono portato qui da solo…". "Però l’altro me lo posso assaggiare come antipasto, in fondo è cuoco…". Lei, continuando a carezzarmi, fece un cenno ai due. Il cuoco mi mise subito il cazzo in bocca. Quant’è grosso, pensai. Più di come l’ho visto…. Loretta disse al cameriere: "Non fare lo stronzo, prendi il lubrificante. Questa non è mica aperta come me…". Il cameriere, tornato ubbidiente, andò al bancone a prendere un grosso tubetto di lubrificante. "Lubrificante?" dissi io. "Certo, hai detto che non sei più vergine?"; "Sì, ma.."; "E allora è inutile insistere lì, per la tua bella fichetta c’è tempo. E poi troppi peli. Hai visto come eccita di più una fica liscia?". Non chiesi altro. Il cuoco diede il lubrificante a Loretta, che lo spalmò sulle mani e intorno al mio buchetto. "Non ti preoccupare, amore, adesso ti farò provare qualcosa di bello…". Così dicendo, mi mise l’indice nel culo e iniziò a farvisi strada. Nessuno era mai passato di lì… sapeva che doveva andare pia no, quindi passò un po’ di tempo prima di mettere un altro dito dentro. Per sicurezza mi spalmò altro lubrificante nel culo, e mi infilò dentro tre dita, che ruotava delicatamente per aprirmi senza traumi. Il tutto mentre continuavo il pompino al cuoco, che prima o poi mi sarebbe venuto dentro la bocca. Come avrei fronteggiato quel mare di sborra? Loretta era un’esperta troia, e sapeva come comportarsi in queste situazioni, ma questa era la mia prima avventura del genere… Non ebbi tempo di farmi altre domande: Loretta sfilò le dita e, guardandomi il culo, disse: "Credo di averti preparata bene". Fece avvicinare il cuoco e spalmò anche il suo cazzo con una buona dose di lubrificante, poi mi disse: "Stai tranquilla, cara, te lo infilo io…". Mi rimise due dita nel buco divaricandomi lo sfintere, poi le ritrasse e accompagnò la grossa nerchia nera nel mio orifizio anale. Si fece strada dentro me lentamente, anche se non poté evitare di farmi un po’ male, e il respiro mi aumentò, tanto che dovetti interrompere il pompino. Ma Loretta mi invitò a rilassarmi, e ripresi a lavorarmi il cuoco. Loretta riprese a massaggiarmi la clitoride. Man mano che l’eccitazione saliva mi aprivo sempre di più, e quando il mio sfintere fu completamente rilassato sentii tutto il cazzo entrarmi dentro. Il cuoco prese a fottermi con movimenti ritmici: guardai in basso e vidi il suo arnese nero e turgido, con tutte le vene gonfie, stantuffare dolcemente, ancorché senza esitazioni, nel mio ano, ormai dilatato a sufficienza. Il piccolo dolore iniziale ormai aveva lasciato il posto al piacere, e, dominata dai quei due grossi cazzi, m’immaginavo come si sentisse la mia principale ad abbandonarsi completamente ad essi. Siccome il cuoco aveva avuto ordine di non essere irruento, la scopata durò una decina di minuti buoni. Anche Loretta mi sditalinava con calma, senza fretta, perché potessi godermi l’orgasmo, che arrivò poco dopo. Come se si fossero messi d’accordo, i due vennero quasi contemporaneamente. Come previsto, non potei far fronte al fiotto di sborra che il cameriere mi riversò in bocca, e quindi lasciai che il suo sperma mi colasse giù e mi imbrattasse le tette e la pancia. Sentii, invece, la sborra espulsa dal cuoco nel mio buco. Uscì e continuò ad espellere il suo caldo succo sulla mia fica. Oramai ero ricoperta, ma non ci facevo nemmeno caso, perché stavo venendo per effetto del ditalino. Eccitata per essere stata al centro dell’attenzione dei tre, perché sentivo la sborra scendermi giù dal retto e uscire dal mio culo ormai sverginato, venni fragorosamente, con un urlo, poi mi lasciai cadere sullo schienale come tramortita e rimasi in quella posizione un paio di minuti buoni, il tempo di far passare le contrazioni che mi attraversavano tutto il corpo. Tolsi i piedi dalle staffe e scesi dal lettino: "Credo che dovrò rifarmi la doccia", dissi a Loretta, facendo per uscire dalla stanza e dirigermi al piano di sopra. "E’ lì dietro", disse lei. "Cosa?" dissi, confusa. "La doccia, no? Non la cercavi?". Rimasi stupita. Niente da dire, il locale era attrezzato bene. C’erano, come ho detto, il letto a due piazze e quello per ispezioni ginecologiche. Il bancone era provvisto di tutto: vibratori elettrici, cazzi finti, divaricatori ospedalieri, persino una borsa con catetere per clisteri, anche se non immaginavo a cosa servisse. Vista la meticolosità di Loretta non avrei dovuto stupirmi, quindi, che ci fosse anche la doccia, ma ero ancora troppo frastornata per rendermi conto di cose così ovvie. La doccia mi aiutò a riprendere il filo dei miei ragionamenti. Uscendo, vidi persino un frigorifero che indicai a Loretta, che nel frattempo si era rivestita: "Ma qui c’è un kit di sopravvivenza…", le dissi. "Quello è per i week-end, non si sa mai…". Come, i week-end? "Sì, qualche volta se non ho impegni per il fine settimana si sa quando si inizia e mai quando si finisce… qualche settimana fa abbiamo iniziato il sabato prima di mezzogiorno e abbiamo finito la domenica sera, senza sosta… almeno io. Mi hanno scopato in tutte le posizioni possibili fino a sera; poi, prima di andarsene a cena, mi hanno legata al lettino, come hai visto prima, e mi hanno messo quel clistere lì, vedi", e me lo indicò, "nel culo. Hanno usato la borsa grossa, dieci litri d’acqua calda. Quando sono tornati avevo le budella in pappa. Ma non gli è bastato farmele svuotare nel cesso: mi hanno rimesso a pecora e lo hanno rifatto due volte, finché non ho scaricato nel cesso solo acqua pulita. Poi hanno detto che andavano a dormire, e mi hanno messo uno speculum in culo, l’altro nella fica e li hanno divaricati al massimo. Sono rimasta spalancata tutta la notte. La mattina dopo non hanno trovato meglio da fare che pisciarmici dentro. Poi, dopo avermi tolto gli speculum, hanno preso due banane dal frigo e mi hanno ritappato i buchi, perché dovevo riscaldarle, erano troppo fredde. Mezz’ora dopo se le sono mangiate. Poi doppia razione di cazzo fino a pranzo, dopo il quale, e fino a sera, sono stata sodomizzata con praticamente tutti quegli strumenti che hai visto. Il lunedì non mi sono neppure potuta sedere, per quanto male avevo al culo…". "Da non credersi…" "Già. Incredibile. Da allora cerco di tenermi libera, per quanto possibile, i fine settimana…", disse, poi, maliziosa. "Certo, ci sono domeniche in cui devo viaggiare per incontrare gli altri colleghi, ma i fine settimana liberi ormai li dedico completamente a me. Anzi, sei libera questo week-end?". Mentendo dissi di no. Avevo ancora paura, nonostante la travolgente esperienza che avevo appena vissuto.Non parlai con nessuno di quello che vidi. Quella domenica andai a pranzo in un ristorante fuori Roma con Carla e altre sue compagne d’università, ma non potei fare a meno di pensare che, in quel momento, Loretta, di nascosto da tutto il mondo, veniva umiliata, sodomizzata, sottoposta a tutte le più degradanti perversioni nella sua stanza insonorizzata. Mi sorpresi eccitata e sudavo freddo. "Tina, cos’hai?" mi disse una delle amiche. "Fa caldo", mentii. "Si suda troppo…". Ma andando in bagno vidi un lago nelle mie mutandine. Mentre mi lavavo le mani mi guardavo nello specchio. Sudavo ancora ed ero bianca in faccia. La mano mi scivolò meccanicamente fino giù sulla clitoride. Mi sedetti sul bordo del WC e allargai le gambe. Ero fradicia. Mi feci scivolare due dita della mano destra dentro la fica mentre il pollice carezzava il bottoncino rosso. Pensavo ai supplizi a cui si sottometteva Loretta e immaginai me stessa lì, immobilizzata in posizioni umilianti e alla mercé dei miei padroni. Non sentii neppure Carla che bussava alla porta: "Tina, stai bene? Rispondi, non scherzare". Sto bene sì, scema, mai stata così bene. Venni in silenzio, col respiro mozzato, e la tensione mi si allentò. Mi sciacquai il viso, mi asciugai e aprii la porta del bagno: "E’ tutto a posto, avevo solo bisogno di una rinfrescata". Lo dissi decisa e disinvolta e la mia amica si tranquillizzò. Il resto della giornata passò bene e non pensai più a Loretta. Quella settimana sarei dovuta andare solo giovedì a casa sua, ma lei era a Milano e non sapeva a che ora sarebbe tornata. Giovedì pomeriggio andai e scartabellai altre fatture. Liquidai un paio di inquilini che si lamentavano di alcune spese straordinarie e, prima di andare, passai al piano di sotto. Stranamente la porta della stanza nascosta era aperta. Loretta mi salutò. "Ma non eri a Milano?". Lo era, in effetti. Aveva fatto prima del solito ed era rientrata a casa mezz’ora prima di me. Senza neppure disfare la valigia, si era spogliata, buttata sotto la doccia, e messa a letto nuda. Era venuta a salutarmi con indosso una vestaglia che lasciava nulla all’immaginazione, ma per me tanto non c’era nulla da immaginare, avendola vista all’opera. Non so perché, ma provavo come una forma di innamoramento per lei, o forse di sudditanza. Forse era la persona che mi avrebbe introdotto a tutte le più immaginabili perversioni, e il mio sentimento era di gratitudine. "Sei sola", constatai. "Sì, oggi è giovedì e i domestici sono liberi fino a domattina. Del resto non mi aspettavano neppure loro…". "Sei bellissima", seppi solo dire. "E tu sei bella e giovane" mi ridisse, come la settimana prima. Presi il coraggio a due mani. "Sai, l’altra domenica avevo un impegno con Carla e le sue compagne d’università…". "Lo so, non ti giustificare. Non devi, non ti ho obbligato a fare nulla e non devi sentire minacciato il tuo posto di lavoro perché hai paura di non avermi accontentata. Ti ho capita, sai. E’ difficile conoscere il proprio capo sotto un aspetto come quello che hai conosciuto tu… Ho le mie manie, i miei, diciamo vizietti, e i miei gusti come tutti, ma non sono di quei porci che li mischiano con il lavoro. Dunque, fuori dal lavoro parliamoci da donne e non da capo e subordinata". "Volevo dire solo che sabato e domenica prossima sarei libera, e forse…". Non finii la frase. Mi prese per mano e mi portò nella stanza. Mi indicò il lettino. Sotto al bordo aveva messo un catino, e a fianco c’era un tavolino con tutto l’occorrente per radere. "Lo so", mi disse, "che saresti stata libera. Domenica eri ancora troppo spaventata. Dopo avere usato la stanza per il fine settimana – da venerdì sera a domenica sera: mi hanno sfondata a dovere – ho preparato il lettino. Ti aspettavo.". "E non l’hai più usata?". "No, si userà sabato prossimo, e ora so che saremo in quattro. Lì c’è l’abbigliamento anche per te". Quale abbigliamento, pensai… mi girai e vidi, appesi alla spalliera di una sedia, un perizoma e una cavigliera con perle di legno. "Ce l’avevi anche tu… a cosa serve?". "A loro non piace la donna completamente nuda. Nella loro tribù la donna attende il suo uomo nella capanna abbigliata così. E’ prima di tutto un abito mentale. Devi imparare ad abbigliarti come la loro schiava per essere la loro schiava. E poi non mi dispiace. Quando giro per casa da sola certe volte mi metto così, e li aspetto…". E va bene, pure questa… "Devo farmi depilare?". "Non ora. Domenica mattina i domestici devono sbrigare le faccende, fino alle 11. Quindi tu vieni alle nove e mezza. Ti farò la doccia io personalmente, così ti darò alcuni consigli. Poi ti vesti col perizoma e il bracciale. Ti depilerò e ti farai trovare pronta sul lettino. Ma prima dovrò aprirti un poco con il vibratore e lo speculum, perché potresti avere problemi…. Comunque sei l’ospite d’onore e l’ouverture toccherà a te. Poi non dirmi che non ti voglio bene e non ti ho avvertita…" disse ridendo. Il venerdì passò liscio, come pure il sabato, giorno in cui andai a fare compere con Carla. Quella notte non avevo sonno, e non riuscivo a dormire, tanto che dovetti prendere un tranquillante. A non dormire ci avrei pensato l’indomani sera… Domenica mattina mi presentai alle nove e mezza a casa di Loretta. Mi aprì lei: una stupenda bruna completamente nuda, col perizoma e il bracciale alla caviglia. Appena svegliata s’era fatta la doccia e abbigliata così. Presto sarei stata come lei… "Entra amore, e benvenuta per il primo di una lunga serie di meravigliosi week-end." "Lunga serie?" "Certo, cara. Lo sai che a luglio e ad agosto non avrai le ferie, vero? Sei l’ultima arrivata in ufficio, e mi servi… non solo lì". Stranamente sentii che non mi sarebbe dispiaciuto fare le ferie a settembre, se luglio ed agosto dovevo passarli con Loretta. Mi spogliai, aiutata da lei. Mi preparai alla doccia e ad un’estate di fuoco, al termine della quale sarei diventata un’altra donna. Uscimmo dalla doccia e andammo in stanza. Mancava un quarto alle undici. Seduta sul lettino, mi lasciavo mettere il bracciale alla caviglia. "Benvenuta in paradiso", mi disse Loretta e, mentre con i piedi sulle staffe e completamente offerta a lei mi lasciavo insaponare i peli della fica, le nostre lingue si intrecciarono in un lungo bacio….
Aggiungi ai Preferiti