Lentamente stavo ritornando alla realtà; un dolore lancinante alla testa riempiva tutto il mio mondo. La nebbia ovattata che avvolgeva i miei ricordi, si stava dissolvendo lasciando il posto a frammenti di pensieri. Iniziai a ricordare chi ero: Elisabetta, 19 anni, figlia unica di donna di divorziata, studentessa dell’ultimo anno di un istituto tecnico ad indirizzo industriale. I pensieri si fermarono nel momento in cui ero riuscita ad appartarmi con Fabio, studente ripetente della mia stessa classe, ed avevo iniziato a baciarlo in bocca. Era parecchio tempo che cercavo di convincerlo ad iniziare una relazione e finalmente, quel giorno, ero riuscita ad incastralo convincendolo ad incontrarmi nel magazzino dell’assistente del laboratori di lavorazioni meccaniche, dove sapevo che c’era una piccola branda che solitamente serviva per gli incontri galanti dello stesso con una professoressa di italiano. L’ultima ora di lezione, ginnastica, era l’ideale per incontrarci vista la libertà di movimento di cui godevamo; pertanto durante la ricreazione mi attardai nei bagni per prepararmi sia nell’abbigliamento che nella pulizia corporea in quanto lo volevo abbagliare con lo splendore del mio corpo. Indossai un piccolo perizoma nero che riusciva a coprire a malapena il sesso, che si richiudeva dietro con un filo di stoffa che scompariva nel solco delle natiche, indossai una gonna a portafoglio blu che mi arrivava a malapena sopra le ginocchia, una maglietta di cotone celeste messa direttamente sulla pelle nuda che modellava le mie forme lasciando perfettamente visibili i miei seni, sodi e perfettamente tondi di una taglia medio piccola da cui spuntavano due capezzoli da far invidia alle pin-up che si vedono correntemente nei giornali per soli uomini. Tutto questi preparativi erano dettati dalla necessità di apparire la più attraente possibile in quanto mi ero decisa a fare il grande salto; la mia verginità era diventata una cosa ingombrante e, ascoltando le mie compagne di scuola nei loro discorsi in materia di sesso mi sono convinta che Fabio potesse essere la persona giusta per porre fine a questa mia condizione. Un brivido di freddo percorse la mia schiena, facendomi prendere coscienza che ero completamente nuda, che ero saldamente legata polsi e caviglie alle gambe di un cavalletto di legno dell’altezza di circa un metro del tipo utilizzato dagli imbianchini; bloccata nella posizione di una “V” rovesciata con il fondoschiena completamente esposto; le gambe leggermente divaricate permettevano di avere sicuramente una completa visione delle mie zone intime; la testa ciondolava verso il basso, richiedendo sforzi immani per essere sollevata. Ora volgendo lo sguardo intorno constatai di ritrovarmi ancora in quel magazzino posizionata al centro della stanza, sul lettino potevo scorgere Fabio privo di sensi con le mani ed i piedi legati con uno spesso nastro adesivo, un bavaglio copriva parzialmente il suo viso; a terra, vicino alla branda, giacevano scomposti i miei abiti, su tutto vedevo il perizoma strappato. Una sensazione di paura per il mio prossimo futuro mi fece aumentare il dolore allo stomaco che stavo provando data l’innaturale posizione cui ero costretta. Provai a liberarmi dalle legature ma, mi accorsi con rammarico, che riuscivo soltanto a lesionare le mie giovani carni; dopo vari tentativi mi abbandonai allo sconforto aspettando il carnefice. Trascorso diverso tempo sentii dei passi avvicinarsi alla mia prigione, una serratura che si sbloccava e la voce di Umberto, l’assistente del laboratorio, che diceva ad un’altra persona “Massimo, vedrai ora che l’abbiamo lasciata cuocere nel suo brodo, la troveremo docile come un agnellino; ci divertiremo come non mai, te lo garantisco”. Massimo è l’anziano bidello della scuola, si dice che spesso sia stato sorpreso a sbirciare sotto le gonne delle allieve mentre salgono le scale; mi ha dato sempre l’impressione di un tipo viscido con quelli piccoli occhi che sembrano spogliarti ad ogni sguardo. Arrivati nella piccola stanza Umberto si rivolse a me dicendomi “Guarda che bel parassita abbiamo trovato nel letto, solitamente trovo delle piattole ma questa volta sono stato fortunato; pensavi di poterti sollazzare con il tuo ganzo nel mio giaciglio senza pagare il pedaggio ma ti è andata male e ora devi pagarmi e con gli interessi”. A queste parole la mia paura crebbe a dismisura e singhiozzando lo implorai di lasciarmi andare senza farmi male ed io, in cambio, non avrei aperto bocca con nessuno. Umberto avvicinatosi prese a carezzarmi la nuca sussurrandomi “Fai la brava ragazza che sicuramente ti divertirai anche te; adesso fai una telefonata a casa e dici che ti fermi a studiare, per il pomeriggio, a casa di una tua amica, se ti comporti come noi ti chiediamo sicuramente questa sera dormirai tranquilla nel tuo letto; ….altrimenti …..” e nel proferire queste ultime parole prese una folta manciata di capelli e tirandoli mi costrinse sollevare la testa affinché potessi vedere il ghigno che si disegnava sul suo volto. Un urlo di dolore fu la mia risposta, e contemporaneamente un forte manrovescio mi colpì il viso facendomi dondolare il capo. Un sapore dolciastro in bocca mi confermò che stavo sanguinando da un labbro, al che tremante risposi che avrei fatto tutto quello che avrebbero chiesto. Indicai il numero di telefono dell’ufficio di mia madre e una volta ottenuta la comunicazione raccontai la storia. “Complimenti” mi disse Umberto ”vedo che siamo partiti con il piede giusto; pertanto adesso iniziamo una lezione che difficilmente viene svolta nelle aule di scuola; quando avremo finito senza dubbio non sarai più la stessa persona; per te sarà come cominciare una nuova vita.” Nel dire queste parole Umberto aveva spostato la mano dal mio capo al sedere e iniziava a massaggiare i glutei dandomi delle pacche con i palmi facendo sobbalzare le teneri carni. “Essendo mia, ora, devi chiamarmi con l’appellativo di PADRONE e dovrai sottostare a tutte le mie richieste; durante la lezione di oggi verrai fotografata e, se non ubbidirai queste foto saranno fatte circolare nella scuola mostrando a tutti che tipo di cagna sei” Massimo intanto aveva preso, da un piccolo armadio, una macchina fotografica di tipo professionale e la stava posizionando su un apposito cavalletto per ottenere la massima qualità delle fotografie; nel mentre armeggiava con tutto quelle apparecchiature volgendo il capo in quella direzione riuscii a scorgere del vario e bizzarro materiale, che presto sarei stata costretta ad utilizzare e ringraziare dopo che era stato usato sul mio corpo, depositato all’interno dell’armadio; riconobbi sicuramente dei piccoli frustini, delle lunghe fruste tipo domatore circense, delle racchette da ping-pong. Umberto proseguì dicendo “Ora inizieremo a farti capire che non sempre il dolore è fine a se stesso a spesso dal dolore si può trarre godimento, prima arriverai a capirlo e prima cominceremo a divertirci tutti quanti; ora ti metterò un apposito bavaglio che ti permetterà di respirare ma ti impedirà di gridare o peggio ancora di tagliarti la lingua con i morsi” A queste parole cominciai a tremare come una foglia; i pensieri non riuscivano a concatenarsi in modo coerente dalla paura, Umberto posizionando due dita sotto il mento mi sollevò il capo e fissandomi negli occhi iniziò a strusciare il suo largo pollice sulla mia bocca serrata dal terrore. “Da brava piccolina mia, apri le labbra e succhia questo dito“, come inebetita non riuscivo a comprendere quanto mi era stato ordinato, Umberto iniziò quindi ad aumentare la pressione del dito sulle labbra costringendomi lentamente ad aprire la bocca; il grosso pollice ora girava liberamente all’interno di essa ma ancora non stavo eseguendo quanto richiesto; pertanto per aumentare la mia collaborazione con l’altra mano iniziò a stringere, o meglio dire stritolare, un capezzolo; sentivo le sue unghie che penetravano nelle teneri carni del seno, avevo la sensazione che lo volesse estirpare. Immediatamente iniziai a suggere e leccare quell’ingombrante presenza nella mia bocca sperando così di far smettere quel tormento al seno. Umberto vista la mia reazione sorrise e tolto il dito mi piazzò nella bocca ancora aperta una specie di pallina da golf di cuoio che rimaneva al suo posto per mezzo di due stringhe che mi vennero allacciate alla nuca. Umberto si allontanò per andare a prendere il primo strumento di tortura che aveva intenzione di utilizzare, poco dopo si presentò nuovamente e facendomi vedere una racchetta da ping-pong mi rese edotta di quanto sarebbe successo da lì a poco. “Vedi questa è una racchetta modificata; una faccia è quella normale rivestita di soffice gomma piuma ed è quella che servirà a scaldarti, l’altra faccia è stata cosparsa di puntine da disegno, quelle con tre piccole punte, che utilizzerò in un secondo tempo; ora riceverai sulle natiche quattro serie di 10 colpi con la parte di gomma; alla fine di ogni ciclo ti toglierò il bavaglio ed esigo che tu baci l’attrezzo che ti ha colpito e che mi implori di continuare”.
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