Ne ho presi quaranta, come i ladroni che m’hanno trafugata, come le carte al gioco di scopa. Tutti diversi in un ciclo di luna, anche doppi in un giorno senza mischiarne gli odori, ne ho presi quaranta, dall’alba al tramonto, quaranta davvero dai piedi ai capelli. Ne ho presi quaranta, ognuno segnato dietro la porta, sul calendario per rendermi conto. Con mia madre che crede, che siano i segni dei giorni che mancavano ad oggi. Ma io ne ho presi quaranta senza fatica, nel posto più intenso dove sentivo possesso, dove più stretta non potevo far finta, che un cuore che batte ne giustifichi il verso. Ne ho presi quaranta, quanto una raffica fino all’ultimo fuoco, d’un cecchino perfetto che non ha sbagliato mai mira, tutti al bersaglio e mi leccavano il collo, tutti sorpresi che i miei fragili fianchi, tenessero testa ad ogni tipo di voglia, avessero un posto per alloggiarci il piacere. Ne ho presi quaranta ma non ricordo le facce, si confondono i nomi, le dita e le mani, nelle poche parole che ordinavo di dirmi, di sentirlo più raro in mezzo a quaranta, il solo tra i tanti a scardinarmi la voglia. Come se mai ne avessi conosciuto degli altri, come se fosse il primo ogni volta, e m‘asciugasse la fronte, m’essiccasse la brama, che faceva condensa dalle parti del cuore. Ne ho presi quaranta, tutti diversi, perché natura scivolasse di dentro, nell’infinito bisogno d’essere parte del mondo, come un cielo che è ventre, di voli d’uccelli di specie diverse, come un mare che nutre, grandezze di pesci affamati, come la mia gatta in calore che porta nel grembo, incroci di semi di razze straniere. Ne ho presi quaranta senza che mi chiedessero altro, baci e carezze che non avrei sopportato. Non volevo che quello e quello ho avuto, uno ad uno come cani e sciacalli che aspettano muti per finirsi la preda. Uno ad uno a distanza di ore perché il ricordo dell’altro non fosse svanito, ancora colassi e bagnata m’offrivo. Ne ho presi quaranta dentro un ciclo di luna, quaranta davvero e l’ultimo ieri, ed oggi tormento questi fiori d’arancio in trepida attesa vestita di bianco. Perché ora davvero di null’altro ho bisogno e mai tradirei quest’occhi che mi stanno davanti. Che ora m’annusano come se profumassi di viole, che ora mi guardano timida e candida, dentro gli occhi riflessi di luce, di quaranta tesori che gelosa conservo. Ne ho presi quaranta dai piedi ai capelli.
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