L’appartamento in cui vivevo era situato al secondo piano di un condominio in Via Efklias, al Pireo. Mi ci ero trasferito cinque anni prima, dopo aver lasciato la casa dei miei genitori ad Atene. Avevo scelto il Pireo perchè mi piaceva sentire attorno a me la frenetica attività di un porto di mare, il miscuglio incredibile di razze e di persone che lo vivevano, quell’eterno andirivieni di uomini e donne che partivano e che arrivavano. Mi piaceva passeggiare nel caos indescrivibile delle sue strade, sentire il suono penetrante delle sirene delle navi che entravano o uscivano dal porto, annusare l’odore salmastro del mare mischiato ai carburanti delle migliaia di auto e camion bloccati in un perenne ingorgo, scrutare nelle tipiche taverne malfamate che erano il dopolavoro di marinai e facchini. Il porto del Pireo (Pireàs per noi greci) è l’ultima porta di uscita dell’Europa verso l’Oriente, e la prima porta di entrata dall’Oriente in Europa. E’ una caotica, pazzesca, isterica, ma meravigliosa zona di confine fra due culture così diverse. Lavoravo in banca ad Atene e la sera, prima di rientrare a casa, mi immergevo passeggiando in quel caos di umanità accaldata ed indaffarata. Poi, nella quiete del mio appartamento, tornavo ad essere quella persona solitaria e silenziosa che fondamentalmente ero. Il rapporto con la mia famiglia non era mai stato idilliaco. Forse un vero rapporto non c’era mai stato. O forse, a causa della malattia che avevo avuto da piccolo, mio padre e mia madre avevano visto in me il figlio meno riuscito dei tre che avevano, quello di cui andare meno fieri, quello che era stato più un fastidio che una gioia. La poliomelite mi aveva lasciato una gamba più magra e più debole dell’altra (la mia “gamba matta”, così la chiamavo), precludendomi tutte le varie attività sportive e ricreative che un bambino prima e un ragazzo poi soleva fare: giocare e correre con gli amici, tirare calci ad un pallone, ballare con le ragazze. Mio fratello e mia sorella, invece, belli e sani, erano la luce degli occhi dei miei che a me, forse anche inconsciamente, riservavano sempre sguardi di pietà e compassione. Sia quel che sia, il risultato di quegli anni era stato un uomo insicuro e fragile, chiuso in se stesso e deluso dalla vita. Mi piaceva la confusione della gente, il caos delle strade, ma osservavo sempre tutto con estremo distacco, senza mai sentirmi veramente parte di quello che mi circondava. Avevo 34 anni e la mia vita andava avanti così, piatta come il mare di agosto, con pochi amici veri, e con poche, pochissime donne. Già, le donne. Quello era stato un altro grande problema. Parliamoci chiaro. Anche l’occhio vuole la sua parte, ed io all’occhio femminile non è che offrissi un grande spettacolo, con il mio fisico certo non atletico e la mia andatura zoppicante. Avevo avuto una sola vera storia sentimentale importante. Quella volta che mi ero innamorato, a 23 anni, avevo creduto che la mia vita fosse sul punto di cambiare in maniera radicale. Lei si chiamava Anna, una mia coetanea, studentessa di filosofia all’università. Tutti i castelli che mi ero fatto in testa crollarono però miseramente la sera in cui Anna mi comunicò che era confusa, che era indecisa sul sentimento che provava per me, che un suo collega di corso le faceva la corte e che, quindi, aveva bisogno di tempo per pensare…. Evidentemente la sua confusione era così grande che immagino ci stia ancora pensando. Sparì, e non la vidi mai più. Restai nuovamente solo, convinto sempre di più che uno come me era destinato alla solitudine, e che in questo mondo si nasca con un destino già segnato, scritto da una mano invisibile che a noi non è data conoscere. Quel mercoledì di fine ottobre andai allo stadio a vedere una partita di coppa dell’Olympiakòs. Il calcio era una mia grande passione; andavo allo stadio con alcuni colleghi della banca e queste uscite rappresentavano l’unica parvenza di vita sociale che avevo. Per evitare il caos dell’uscita, parcheggiavo la mia auto in una strada piuttosto lontana dallo stadio. E quindi, anche quella sera, salutati i colleghi, mi avviai lentamente per raggiungerla. A dispetto della mia “gamba matta”, ero un discreto camminatore. Mi trovavo lontano dallo stadio e, vista l’ora tarda della sera, non vi erano molti passanti, quando, passando di fronte ad un portone buio sentìì due voci discutere animatamente. Voltai la testa e vidi un uomo urlare verso una ragazza con fare minaccioso e poi colpirla con un sonoro ceffone. Non ero mai stato un cuor di leone, ma in certi casi non si può restare indifferenti a ciò che accade. Mi avvicinai all’uomo che ancora imprecava e gli afferrai il braccio che si era nuovamente alzato per colpire la donna. Si voltò verso di me e, stravolto dall’ira, abbaiò: “E tu che cazzo vuoi?”. “Ma non si vergogna a dare uno schiaf…”. Il pugno mi arrivò diretto, sparato in piena faccia con una forza terrificante: la “gamba matta” non resse il mio peso e, sbilanciato, caddi all’indietro. Il dolore mi accecava, ma ugualmente cercai di rialzarmi per tentare di far ragionare quell’energumeno. Ma lui se ne era già andato. Accanto a me c’era la ragazza che mi guardava preoccupata. “Si è fatto male? Le sanguina uno zigomo” mi disse. Presi il fazzoletto e mi tamponai la ferita. “No, a parte questa ferita, no” le risposi guardandola. Era una donna minuta, sui 25 anni, con un caschetto di capelli neri, un viso perfetto e due occhi neri e meravigliosi, anche se pesantemente truccati. “Ma cosa voleva quel tipo da lei?” La ragazza mi guardò e, dopo un attimo di silenzio, rispose: “A volte i clienti cercano di fregarti sul prezzo o ti chiedono prestazioni particolari. Se rifiuti, si infuriano e…. e a volte fanno anche di peggio”. Era una prostituta. Il pensiero mi colpì con forza, convinto di aver assistito ad un litigio fra innamorati, ad una scena di gelosia o che altro so io. Era, invece, una prostituta che veniva picchiata da un cliente per chissà quale ragione. “Grazie – mi disse ancora la ragazza – spero proprio che, a parte il taglio sul viso, non si sia fatto altro. Grazie”. La seguìì con lo sguardo allontanarsi. Mi chiedevo che razza di vita fosse quella che conduceva la ragazza, una vita che presupponeva non solo l’accettazione dello sfruttamento del proprio corpo, ma anche la capacità di convivere con la violenza ed il pericolo. Raggiunsi, ancora un pò stordito, la mia auto e tornai a casa. Qualche giorno più tardi, stavo guardando un vecchio film in tv, sbadigliando, annoiato a morte. Gli occhi erano fissi sulle immagini dello schermo, ma la testa vagava per ogni dove. E a forza di vagare, mi ritrovai a pensare alla ragazza che avevo incontrato quella sera e al cazzotto che mi ero beccato. Ripensavo alla rassegnazione che avevo letto sul suo viso, quasi che episodi del genere fossero in definitiva la normalità, la consuetudine di una vita così diversa dalla mia. Pensavo a tutto questo, ma in realtà pensavo a lei. Al suo viso. Volevo rivederla, questa era la verità. Lentamente sentìì crescere in me questo desiderio irrazionale; guidato da sensazioni a me fino ad allora estranee, mi alzai dal divano, presi la giacca, ed uscii. Percorrevo con l’auto a velocità ridotta la strada dove l’avevo incontrata, scrutando nel buio a destra e a sinistra, ma di lei non c’era traccia. Avevo visto altre due o tre prostitute (una si era anche alzata la stretta gonna che indossava, scambiandomi evidentemente per un potenziale cliente), ma su quella strada lei non si vedeva. Frustrato, presi una traversa a destra per raggiungere la via parallela e tornare indietro, quando, sotto un lampione, la vidi. Era sicuramente lei, con minigonna e stivali, segno inequivocabile della sua professione. Mi accostai al marciapiede e la ragazza si avvicinò al finestrino che avevo intanto abbassato. “Ciao, andiamo?” mi chiese sorridente. “Ehm… bè… a dire il vero volevo solo sapere se l’altra sera aveva avuto altri problemi con quel tipo” risposi, decisamente imbarazzato. Per un attimo sembrò non mettere a fuoco la mia faccia, poi mi riconobbe e, sempre sorridente, disse: “Oh, è lei!”. Restammo a guardarci senza sapere bene come continuare. Fu lei a rompere quel velo di imbarazzo che si era creato. “Si, grazie. E’ andato tutto bene dopo il suo intervento.”. Avrei dovuto salutarla e andar via. Che altro ci facevo adesso io in quella strada? Ma non mi mossi. “Senta – proseguì – facciamo così. Io prendo 8000 dracme per un lavoro di bocca. Ma siccome lei è stato gentile con me, facciamo 5000 e così mi posso sdebitare per l’altra sera. Okay?”. Rimasi allibito. Cioè, non pensiate che fossi offeso o che altro: ma cavoli, io ero passato solo per accertarmi che stesse bene e mi sentivo offrire (con uno sconto!) un pompino!! Lei notò la mia espressione, e si ritrasse. Ebbi un tuffo al cuore; forse non ero venuto solo per vedere come stava. Non volevo finisse così. Non volevo che se ne andasse. “Prego, salga” le risposi con una voce che non riconoscevo più come mia. Lei era salita e mi aveva indicato la strada per un vecchio molo abbandonato lì vicino. Arrivati, spensi le luci della macchina e mi voltai a guardarla. “Come ha visto l’altra sera, nel mio lavoro incontro persone di tutti i generi. Non si offenda, la prego, ma il pagamento deve avvenire in anticipo.” La guardavo e volevo dirle che non l’avevo cercata per farmi fare un pompino, volevo dirle che in vita mia non ero mai stato con una puttana, che una ragazza bella come lei non si doveva buttare via così…. Volevo dirle questo ed altro, ma le parole non mi venivano. Presi i soldi dal portafoglio e li misi nella sua mano. Lei li fece sparire nella minuscola borsetta che aveva e sempre sorridendo mi disse: “Le farò un lavoretto speciale. E’ giusto che io la ringrazi.” Prima che potessi dire qualcosa, le sue mani mi slacciarono i pantaloni, scostarono gli slip e me lo tirarono fuori. Ero nel pallone più totale: imbarazzato come poche volte ero stato, probabilmente rosso come un peperone, ero però anche eccitato (mio malgrado) da quella situazione strana, ma , per me, altamente erotica. Con movimenti rapidi, e quasi senza che me ne accorgessi, mi infilò un profilattico sul pene già incredibilmente eretto. “Come ti chiami?” mi chiese passando al tu. “Manoli. E tu?” “Caterina. Un nome schifoso.” rispose abbassandosi su di me. Lo prese in bocca iniziando a succhiarlo. La mano stretta intorno alla base, succhiava e leccava con impegno, ma senza alcuna partecipazione emotiva. Non è che fossi un grande esperto in pompini, ma il mio corpo mi disse che ci sapeva fare. Anche se teso e nervoso, non certo a mio agio, venni in pochissimi minuti. Caterina si rialzò riaccomodandosi sul sedile dell’auto. Ero esterrefatto. Avevo goduto come non mi ricordavo di avere mai fatto. La ragazza si aggiustò i capelli e mi disse: “Dai, ora riportami indietro.” Evitando di guardarla, mi sfilai il profilattico, lo misi nel portacenere del cruscotto, mi detti una rapida pulita con il fazzoletto e mi richiusi i pantaloni. Pochi minuti dopo lei scendeva sotto il lampione. “Ciao Manoli, e grazie ancora per l’altra sera” mi disse dal finestrino. “Ciao Caterina – le risposi- e… volevo anche dirti….” “Si?” “Bè, volevo dirti che…. il tuo nome… Caterina…. non è per niente brutto.” La ragazza scoppiò a ridere e, salutandomi con la mano, si allontanò nella notte. Tornai a casa, stordito e confuso, pensando a lei e a quello che era successo. Alcuni giorni più tardi mi resi conto che Caterina stava entrando nella mia vita. Era un sabato pomeriggio di metà novembre e passeggiavo per Akti Miaoli osservando, come al solito, il caos che mi circondava. Ad un tratto, davanti a me, a non più di dieci metri, vidi Caterina. Non aveva quel vestiario provocante che indossava la sera: un semplice paio di pantaloni con una camicia e una felpa. Di fianco a lei camminava, mano nella mano, un bimbo di tre o quattro anni che mangiava estasiato un gelato. Lei si fermò, si piegò sulle ginocchia e con un fazzoletto di carta pulì le labbra del piccolo, con un gesto carico di amore materno. Sembrava un’altra persona. Era un’altra persona. Senza trucco e senza apparire provocante, era meravigliosa. Il mio cuore aveva preso a battere all’impazzata. Senza farmi vedere la seguii per un pò, fino a che giunse di fronte ad un bar dove erano sistemate alcune giostrine a gettoni per bambini. Prese il figlio in braccio e lo mise su un cavalluccio: inserì la moneta, e il bimbo iniziò un lento trotto ridendo eccitato. Il cavalluccio trottava mentre il mio cuore galoppava sempre più rapido. Quella sera resistetti alla voglia di andarla a cercare, di andare a chiederle perchè mai buttasse via così la sua vita, come facesse ad essere così amorevole con suo figlio di giorno e a fare pompini e chissà cos’altro la notte. Resistetti. Quella sera. Ma la sera successiva ero in auto a cercarla. La trovai due lampioni più in là, ma la trovai. Questa volta mi riconobbe subito. “Ehi, allora sono stata brava!” mi disse ridendo. “Vuoi salire?” le chiesi timoroso. “Certo, mi piace lavorare con persone educate come te.” Lo stesso molo dell’altra volta. Pagai Caterina per un “lavoretto di mano” come lo chiamava lei (o per una sega, come lo chiamo io) e lei, sempre senza perder tempo, mi infilò il profilattico e iniziò a masturbarmi. La sua mano scivolava sul mio pene con movimenti ritmici (oh, che mano stupenda che aveva), ora lenti, ora veloci, rudi e delicati allo stesso tempo. Venni velocemente anche questa volta, eccitato e smarrito da quello che mi stava capitando. Mentre mi ricomponevo le chiesi: “Posso farti una domanda?” “Certo” fece lei guardandomi negli occhi.”Perchè fai questa vita? Perchè la butti via così? Certo, i soldi, lo capisco. Ma esistono altri lavori, altre opportunità. Insomma, una vita pulita e rispettabile. Sei una donna troppo bella per vivere così:” Lei continuò a guardarmi, ora con espressione dura e seria. “Perchè mi piace, mi piace guadagnare tanti soldi, togliermi tutte le voglie che ho, comprarmi vestiti e profumi. Non ho nessuno che pensa a me da troppi anni; me la devo cavare da sola. E questo è il modo più semplice. Soddisfatto?” Questa risposta cruda e rabbiosa mi lasciò di sasso. Non poteva essere così; sotto la maschera che indossava ci doveva essere per forza un’altra Caterina. Lo sapevo. Lo sentivo. L’avevo visto. “Adesso riaccompagnami ” disse bruscamente. Di slancio le presi la mano. “No Caterina, non ci credo. Ti ho vista con tuo figlio un paio di giorni fa. Eri una mamma, bella e felice. Eri una donna che dalla vita non vuole vestiti o profumi. Tu non sei quella che dici di essere!” La maschera cadde e Caterina scoppiò in lacrime. Mi raccontò tutto. Veniva da Larissa, dove viveva con la sua famiglia: a 20 anni era rimasta incinta di un suo coetaneo che, appena saputa la cosa, si era volatilizzato. Il padre voleva farla abortire, ma lei sentiva che non lo avrebbe mai fatto. E allora l’avevano cacciata, per la vergogna di avere una figlia ragazza-madre. Era venuta ad Atene, da una vecchia parente della madre, che l’aveva ospitata fino al parto; aveva anche trovato un lavoretto in un negozio di frutta. ma quando si accorsero che aspettava un bambino, l’avevano licenziata. Una volta nato Dinos, l’anziana parente divenne insofferente all’inevitabile confusione che un bambino piccolo comporta, e Caterina si vide costretta ad andare via. Ora erano tre anni che stava in una camera in affitto, presso una donna che la sera si prendeva cura di Dinos. Aveva provato a cercare un altro lavoro, ma gli orari non coincidevano mai con la necessità di seguire il figlio, e così si era trovata sulla strada, per necessità non di vestiti ma di pannolini, non di profumi ma di latte in polvere, non di lussi per se stessa ma di qualche giocattolo per il suo piccolo. Faceva la puttana per fare la mamma. Caterina parlava e piangeva. Era un pianto straziante, il pianto di un’anima ferita e calpestata dalla vita, il pianto di una donna che dava la sua vita per il figlio. Quando la lasciai si era calmata. Guardandomi con occhi ancora umidi di pianto mi disse: “Grazie, è destino che io ti debba sempre ringraziare. Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Tu, con la tua dolcezza, appartieni a quella parte di mondo che non ho mai incontrato. Sei buono e gentile, ma ti prego: non mi cercare più. Lasciami stare. La mia vita è questa e nulla la potrà mai cambiare.” Stavo per dirle che no, potevamo cambiare tutto, che noi, sfortunati e delusi dalla vita, avevamo diritto ad una speranza, ad un futuro diverso e migliore. Ma lei mi chiuse le labbra con un bacio, lieve e morbido. poi aprì di scatto la portiera e fuggì via. Non tornai per oltre un mese da Caterina. Per paura, per vigliaccheria, per incapacità. Tutte le sere mi dibattevo nella mia battaglia personale. Volevo andare da lei, per parlarle, per farle una carezza, perchè la amavo. Ma sempre mi bloccavo, per paura di essere rifiutato, per il timore di scoprire che per lei ero stato solamente uno sfogo, un qualcosa da dimenticare il giorno dopo. Mi limitai a spiarla un paio di volte quando era con suo figlio, nascosto dietro un auto o un cartellone pubblicitario. Nascosto come il sentimento che cresceva in me. Ma alla fine trovai il coraggio. Mancavano due giorni a Natale. Era una serata fredda e piovosa. Da mezz’ora giravo con l’auto cercandola. Le strade erano deserte e inzuppate di pioggia. Guardavo sotto tutti i lampioni, negli androni scuri dei palazzi, davanti alle saracinesche chiuse dei negozi. Ma lei non c’era. Mi fermai scoraggiato nel punto dove l’avevo vista la prima volta, dove quell’uomo l’aveva picchiata. Magari non era venuta per la pioggia o per il freddo, o magari perchè il bambino aveva la febbre. Cercavo una spiegazione plausibile, che mi consolasse da quell’angoscia gelida che mi straziava. E se avesse cambiato zona? E se le fosse successo qualcosa? Ero alla disperazione. Avevo bisogno di lei, solamente di lei. All’improvviso sentìì un lieve bussare al finestrino, e lei era lì, sotto la pioggia: aprii la portiera e Caterina salì in macchina. Era bagnata ed infreddolita. “Ti avevo detto di non tornare, no?” mi disse. Ma sorrideva. Forse era contenta anche lei di vedermi. “Caterina io dovevo rivederti, desideravo troppo stare ancora con te. Perdonami, ma non ho resistito più a lungo” le risposi con un filo di voce. E proseguii: “Senti, stasera fa freddo. Ti prego, vieni a casa mia. Ti preparerò un the caldo. Ti asciugherai. Ascolta. Ti pagherò ugualmente. Ma stasera non voglio sesso da te. Voglio solo starti un pò vicino. Ti prego.” Chiusi gli occhi e aspettai il suo rifiuto. Addirittura mi aspettavo che scendesse e andasse via per sempre. “Andiamo” rispose. Eravamo seduti sul divano con una tazza di the in mano. Avevamo parlato poco, lei pensierosa e confusa, io innamorato e timoroso che tutto finisse ancora prima di iniziare. Da una busta appoggiata su una poltroncina presi un orsetto di peluche e lo porsi a Caterina. “E’ quasi Natale. Questo è un piccolo pensiero per Dinos, tuo figlio. Spero che gli piaccia.” Caterina si portò l’orsetto al viso, quasi a saggiarne la morbidezza: negli occhi le spuntarono due lacrime. Dalla tasca della mia giacca tirai fuori una scatolina e la consegnai alla ragazza. “Questo, invece, è il mio regalo di Natale per te. E’ una piccola cosa, ma non sono molto esperto nel fare regali. Come non sono molto esperto nel corteggiare una ragazza: ma io ti amo Caterina, ti amo così intensamente e così disperatamente da avere il cuore in tumulto. Ti amo anche se sono mezzo storpio e così imbranato. Ti amo perchè hai portato la luce nella mia vita e vorrei essere capace di accendere quella luce anche nella tua.” Ora Caterina aveva il viso rigato di lacrime. Aveva aperto la piccola scatola e teneva in mano una catenina d’oro con un pendaglio stilizzato della rosa di Rodi, l’isola del sole. Mi guardò e, tra le lacrime che brillavano come le luci dell’albero di Natale che non avevo, mi sorrise mandandomi un lieve bacio con le labbra. Le mie mani carezzavano i seni caldi e morbidi di Caterina. La mia lingua esplorava estasiata il suo sesso bagnato, caldo e profumato. Gemeva sommessamente, completamente abbandonata sul letto. Poco prima era stata lei a darmi il piacere: la sua bocca e la sua lingua avevano danzato a lungo sull’asta del mio pene, con una partecipazione ben diversa da quella volta in auto. Staccai la bocca da lei e risalii lungo il suo splendido corpo; la sua mano afferrò il pene e lo appoggiò a quel delizioso mistero che aveva tra le gambe perfette. E io affondai, prima lentamente, poi aumentando il ritmo, in quel morbido cuscino di seta che erano le sue pareti interne. Ora mi sentivo diverso: non ero più quell’uomo insicuro e tremebondo di prima; anche lei mi amava e questa consapevolezza mi aveva trasformato. La penetravo con gioia, la prendevo con passione ed ardore, strappandole grida di piacere e parole d’amore. Facemmo l’amore per ore, in una confusione di sentimenti e di corpi, in un intreccio di sensazioni e di membra, lei bevendo il mio seme, io succhiando il suo nettare. Ed era quasi Natale. Seduto al tavolo di cucina sto bevendo un caffè. E’ quasi ora di andare in ufficio. Alzo gli occhi e vedo Dinos alle prese con la sua zuppa di cereali. Ha quasi otto anni, ora. E mi chiama papà: ed io mi sento in tutto e per tutto il suo papà. Dalla porta sul corridoio entra Caterina, in pigiama, assonnata e bellissima: ha in braccio Dimitri, il nostro piccolo figlio di due anni. Ci guardiamo e ci diciamo con gli occhi il nostro amore. Avevo ragione io. C’è sempre una speranza per tutti. C’è sempre un futuro migliore. Dobbiamo saperlo cercare, dobbiamo saperlo trovare. Dobbiamo imparare a cercare il nostro regalo di Natale. E, una volta trovato, non lasciarlo più.
Aggiungi ai Preferiti