La ragazza non si staccava più dal mio cazzo e cominciavo a sentire i denti. Era sfinita. Il fruscio quasi impercettibile del risucchio si era trasformato ormai in un risciacquìo intermittente, sonoro e grossolano, nella sua bocca colma di saliva. Un filo di bava le colava dalle labbra. Gli arrivavo in gola e pompavo forte, schiacciandola contro la testata del letto, sbattendole le palle sul mento; ero a cavalcioni su di lei, stesa supina, e la inchiodavo ai cuscini. Il letto di metallo cigolava e strisciava sul pavimento squallido della camerata. Quando mi sentii venire, uscii dalla sua bocca e le riempii la faccia ed i capelli di sborra, fissandola negli occhi. Ma li teneva a mezz’asta, rimase immobile a bocca chiusa ed occhi chiusi a ricevere i cinque o sei fiotti, abbastanza generosi, mentre io sbuffavo piano. I filamenti di sperma si appiccicavano vischiosi ai capelli e al volto e già si cristallizzavano, come caramello, al contatto con l’aria. Uno le attraversò il sopracciglio e colpì l’occhio e le ciglia bionde. La vidi nel frattempo deglutire, inghiottirsi tutta quella saliva, quello che ormai doveva essere un coagulo vischioso e amaro di saliva rimescolata e liquido seminale nella sua bocca. Rimasi col cazzo ritto e un poco vibrante a pochi centimetri dalla sua testa. Lei si girò di lato sul cuscino e come poteva, aiutandosi con la mano destra, si ripulì la faccia. Poi tornò a voltarsi verso di me. Puntai il cazzo e lo misi dolcemente tra le sue labbra, spingendoglielo dentro piano un paio di volte. Strusciandolo sul suo palato. Quindi scivolai di lato e mi sdraiai nel letto, lateralmente, con lei sdraiata, sempre sul fianco, di schiena davanti a me. Appoggiai l’uccello tra le sue natiche piene, aprendole con le mani, mentre lentamente tornava alle dimensioni di riposo; poi portai un braccio a cingerla sotto il seno, raggiungendone la passera ancora umida, e la masturbai svagato e sognante finchè, quasi subito, entrambi non ci addormentammo. Mi svegliai prima di lei. Il sole riempiva la stanza spoglia, accarezzava il tavolo di fòrmica, l’unica sedia, inondava l’armadio vuoto. Alle pareti, le ultime foto aspettavano di essere staccate. Per terra, la sua valigia era aperta e già praticamente fatta. Sul comodino c’erano una foto di lei col padre, un omone grigio e rubizzo, un’agenda, una bottiglietta d’acqua e un fazzolettino sporco. La sera prima era stato il suo compleanno. Vedevo lo sperma secco sulla sua faccia e sui suoi capelli. Era sbronza, ieri. Probabilmente era già mezza addormentata e mezza svenuta mentre ancora, per riflesso o per istinto, si teneva in bocca il mio uccello e lo succhiava. Era sbronza come tutti noi e come tutte le sue amiche Come la sua amica lituana che mi ero fatto nel cesso del pub mentre mi tirava una sega; una sega rimasta a metà, perché io avevo voglia di un’altra birra e lei aveva voglia di fumarsi un’altra canna. In una sera del genere, poteva anche succedere una cosa del genere. Così la lituana era uscita nella via nera e gialla di luci e aveva finito per farla al mio socio, quella sega, o forse anche un pompino, così, per strada, accovacciata sui sandali nuovi e con lo spacco della gonna a salire fino all’inguine, mentre lui si finiva il joint, le scompigliava i capelli, acconciati con tanta cura appena poche ore prima, e le veniva in bocca. La lituana era famosa per i pompini fatti ovunque, o almeno così ci aveva detto Vinnie, il personaggio che ci ospitava a Rotterdam per quel weekend. Eravamo venuti su in due da Milano, a raggiungere il resto della banda. La lituana era famosa per i pompini fatti in macchina nel sedile di dietro, con davanti conducente e navigatore- rigorosamente maschi- a godersi la scena dallo specchietto. Poi, arrivati al suo pensionato per sole studentesse, scendeva, schioccava tre bacetti sulle guance per ciascuno e volava via. Queste studentesse dell’est sembravano fatte così, almeno a Rotterdam. O almeno per quel weekend. Al ritorno dal locale mi sedetti dietro con lei ma riuscii solo a slinguarci e cacciarle una mano tra le gambe, così, alla buona. Niente pompino. Forse perché il mio socio sedeva dietro con noi. Io non ci credevo. All’inizio, non ci credevo. Fino alla cena, era stata una serata come tante; tante delle nostre. Alcool, fumo, non solo fumo e un po’ di belle ragazze. Il pensionato universitario pieno di gente da tutta Europa e determinata solo a farsi, non pensarci, disfarsi e divertirsi, in quest’ordine. Poi il delirio. Un’orgia, un bordello. Al pub e nella discoteca. Le ragazze sui tavoli senza mutande. I ragazzi ribaltavano il locale, scrivere sui muri e sfasciare sedie e minacciare baristi e avventori e tutto. I buttafuori, neri e colossali, sembrava si divertissero. Sembrava fosse ok così, per loro. In macchina, tornando alle stanze, avevo capito che avrei dormito dalla slovacca quando ero riuscito a tirarle fuori le tette, coi ragazzi che cantavano e gridavano e il reggae che sparava bassi devastanti tutt’intorno. Aveva tette bianche e pesanti sopra il top nero. Le avevo fatto rizzare i capezzoli e li avevo tormentati facendola ansimare per noi, per il divertimento rumoroso di noi tre e quello più complice e malizioso della sua amica. Eravamo seduti dietro in quattro. Le avevo versato sopra il whiskey e l’avevo leccato insieme alla lituana, le avevamo leccato le tette insieme e poi avevamo slinguato lì, di fronte al suo seno, con Vinnie che ci incitava estasiato e paonazzo e strafatto e guardava noi invece della strada, e il mio amico che si lamentava mezzo serio e mezzo no, al suo fianco, che quella era la sua donna. Ma ognuna era la donna di tutti. A nessuno fregava un cazzo di chi fosse cosa o chi. Purché potesse avere un giro un tiro o un sorso. Però la mia era la mia. Ci fermammo in un parco gelido per un altro cilum, perché ci scendesse un po’ tutto il resto e potessimo andarcene a letto. Me ne andai a pisciare e il mondo sembrava finto, una favola; chiudevo gli occhi e mi facevo salire lo svarione, lo sentivo arrivare piano dallo stomaco e poi accelerare di colpo e esplodermi in testa e mi sembrava di precipitare all’indietro per kilometri senza toccare terra mai. Allora aprivo gli occhi, tornavo a terra e ripartivo, così, a comando, gestendomi le sensazioni perché fossero proprio come le volevo io. Ma tornato beccai Vinnie che baciava tutto tenero il collo della mia slovacca. E la troia rimaneva lì, passiva, come se non le importasse molto quante o quali mani o bocche aveva addosso. Lo presi per il collo e lo feci volare, ma con tutto quello che gli rimbalzava nel cervello e nelle vene cadde come un gatto e si rialzò, ridendo, per appizzare il cilum. Era così quella notte. Non eravamo mai stati così fuori, il che è tutto dire. Ora che il sole dorava quello schifo di stanza, mi rallegrai del fatto che in quei mille vortici di lingue non ci fosse capitata più d’una lingua maschile per volta. Per fortuna. Perché sarebbe anche potuto succedere; e il mattino dopo, cioè ora, non sarebbe stato bello ripensarci. Ma non era successo. Solo lingue di ragazze dell’est al whiskey e alla vodka e alla ganja e ai gusti che vuoi tu, e tette giovani e floride e cosce sane e camicette sudate fradice che avevano ballato tutta notte. Solo in due, però, avevamo finito serata in camera di una donna. Io e un tipo di Gaggiano. Il mio socio aveva chiuso in bianco. La lituana dalla bocca facile, come sempre, era volata via da sola. Ma era okay così per tutti, con tutto quello che avevamo mangiato annusato e respirato. La guardai dormire. Spesso alcune tra le ragazze più fighe, quelle la cui bellezza non è natura ma arte, perdono nel sonno qualcosa e sono buffe e strane. Per la bellezza vera non è così, ma è rara. Questa ragazza bionda dalle gote sempre arrossate non era di nessuna delle due razze: non era poi così bella, non particolarmente, e nel sonno non perdeva né acquistava nulla. Era quella che avevi visto ieri sera. Niente segreti, niente di particolare da scoprire. Una ragazza che oggi prende il treno e addio Olanda, paese dei balocchi, bentornata Slovacchia. Qualche sperduto paese con tante ci ed esse e kappa e poche vocali. Con tanta birra e vaccherelle magre e campi di grano e omoni grigi e rossi e donnoni più o meno uguali se non peggio. Neanche Praga. La Slovacchia. Che sfiga, poveretta. Aveva delle tette grosse e pendule, guardavano all’infuori, un discreto culo, belle gambe e un po’ di pancetta. Con quello che beveva. Un viso irregolare ma piacevole, un’espressione un po’ persa e un po’ troia con quegli occhi sempre socchiusi. Mi presi il cazzo floscio, lo scappellai e cominciai a schiaffeggiarla con il glande, sulle labbra, sugli occhi. Menandolo così, cominciò lentamente, nel freddo del mattino, a rinvenire. Aprì gli occhi all’improvviso e si ritrasse prima di capire cosa stesse succedendo. E si vide davanti, quasi un replay di poche ore prima, il mio pene. Solo semieretto ora. “Ciao”, dissi, come se le avessi appena portato il caffè con tutto il mio amore al posto dello zucchero. “Hai dormito bene?” Tanto capiva solo l’inglese. Si girò dall’altra parte. Era distrutta. Non riusciva neanche a parlare. Uscii dalla stanza, chiusi la porta e cercai il bagno. Ero in un piccolo atrio, sul quale, oltre alla porta di ingresso, davano le due stanze delle coinquiline. Una connazionale e una francese di Strasburgo. Le porte erano chiuse. Quella del cesso era aperta. E poi c’era la cucina, dove, seduta al tavolo, con una tazza di tè, vidi una ragazza fissarmi. Aveva i capelli corti e spettinati, era piccola e dal fisico indefinibile, perso com’era nel pigiama enorme. Io indossavo solo una striminzita t-shirt militare. Il cazzo pendeva ancora lungo e semirigido tra le mie gambe. Feci un cenno rapido con la testa e un verso inarticolato a mo’ di saluto e mi chiusi in bagno. Vaffanculo. Chissà se era la francese o l’altra slovacca. A me sembrava francese. Riemersi dal cesso con un asciugamano legato in vita e lei era lì; mi aveva versato una tazza di tè e mi fissava ancora. Sedetti nella cucina gelata e tracannai quel tè bollente. Zitto. “D’you have a good time yesterday night?” Annuii grugnendo. E poi. “I’m a ****’s friend.”, dissi a mò di presentazione. Toccò a lei annuire, in silenzio. Aveva un visetto sottile, dai lineamenti affilati e minuziosamente cesellati; carina. Espressione sveglia. Occhi di un verde nocciola. Non c’era molto da dire. Versò un’altra tazza e me la porse: era per ****. Sembrava un congedo: così presi la tazza e tornai dalla slovacca. Sentivo gli occhi della francesina (sempre che fosse la francesina), affilati come tutto, di lei, bucarmi la schiena. La slovacca era ancora avvoltolata nel lenzuolo. Posai la tazza sul comodino, le tolsi il lenzuolo di dosso e la contemplai, così, completamente nuda. Sciolsi l’asciugamano dai miei fianchi, salii sul letto, salii su di lei e ne cercai la bocca. Le diedi solo un bacio sottile. Poi baciai il suo collo, tormentandolo, per svegliarla in pieno, le torsi gentilmente i capezzoli mentre l’uccello mi si gonfiava. La girai pancia sotto e, non curandomi d’altro, sbrigativo, le divaricai i glutei e cercai la fenditura in mezzo al cespuglio fitto del suo pelo. Fui dentro con un po’ di difficoltà. Cominciai a scoparmela e lentamente si bagnò. Non dava nessuna reazione. Stava schiacciata a faccia contro il cuscino, braccia allargate e gambe distese. Solo dopo alcuni minuti cominciò a mugolare ed ansare. Stavo pesantemente appoggiato con le mani sulla sua schiena. “Don’t come inside please.” La sera prima non avevamo scopato. Era finito tutto con quel pompino. “Don’t have any condom, sorry”, mi aveva detto scusandosi mentre le appoggiavo il pene sotto la vulva, dal di dietro, all’impiedi. Non aveva goldoni. Okay per il pompino. Ma stamattina avevo voluto scoparmela e non si era lamentata. Ma non voleva le venissi dentro, e cazzo, aveva le sue buone ragioni. Al momento buono, lo tirai fuori e le scaricai i coglioni sul culo, sulla schiena e sui capelli. Feci un po’ di casino. Speravo nebulosamente che la francesina sentisse tutto. La girai e le misi l’uccello tra le mani. Lei finì di lavorarmelo, spremendone fuori le ultime gocce di sperma. Poi accostò le labbra e ne leccò delicatamente l’asta, e i coglioni, senza però avvicinarsi alla cappella o prenderlo in bocca. Baciò il cazzo sul lato e mi fece tenerezza. L’avevo trattata un po’ con sufficienza, poverina, era pure il suo compleanno. Non l’avevo sentita venire. Mi sdraiai al suo fianco, ma lei si alzò. Cercò le mutandine e così, a seno nudo, cominciò ad armeggiare per la stanza, radunando le ultime cose e preparandosi per la partenza. Non era male, neanche un po’, a guardarla ora, anche nella luce impietosa di metà mattino. Aveva un fascino tutto suo, silente, un po’ doloroso, strano. Non aveva detto una parola. Chissà cosa le passava per la testa. Sperai che fosse contenta. In fondo non le era andata così male. Una nottata di follia e delirio, tutte le droghe del mondo e un po’ di sesso per dessert. Mi coprii con le lenzuola e in mancanza d’altro mi bevetti il suo tè. Noi, al contrario di lei, avevamo ancora un giorno e una notte a Rotterdam.
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