Roxane abitava in un quartiere residenziale formato da ville e villette liberty, alberi e giardini. Era la secondogenita di una famiglia numerosa, ma in realtà sembrava la primogenita perché i fratelli e le sorelle, otto, sembravano temerla, anche il fratello più grande. Il padre di Roxane seguiva la vecchia tradizione che voleva che le figlie femmine tornassero a casa al tramontare del sole e, comunque prima del buio, e, siccome aveva tendenze egualitarie, aveva esteso tale regola anche ai figli maschi. Quando accompagnavo Roxane a casa, al tramontare del sole, lei faceva passare il tempo, durante il quale ci baciavamo e ci palpavamo appassionatamente, fino a che intorno non era buio pesto, sicché da casa finivano per mandare qualche fratello a cercarla. Il fratello scelto in genere era imperioso perché per un attimo poteva illudersi di liberarsi dalla tirannia di Roxane dato che l’autorità gli proveniva dalla figura che trascendeva tutti loro, e lui riteneva irrispettoso e maleducato cercare di resisterle. Io cercavo di convincere Roxane ad andarsene a casa, perché non volevo essere costretto a diventare la figura concorrente e antagonista a quella del pater familias, ma lei niente. “Adesso vengo” diceva e mi si spalmava addosso; io ero contento che lei volesse stare tanto con me da sfidare tutto l’assetto organizzativo della famiglia, però diventavo ansioso e preoccupato. Il ragazzo se ne andava scornato, ma a mostrare da dove proveniva il potere che non gli veniva riconosciuto, urlava piccato: “Sbrigati!” e Roxane continuava a pomiciare con me, aggrappandosi come se stessi per partire per la guerra, quando io cercavo di salutarla e andarmene. Fino a che non arrivava qualcun altro. Di solito la sorella minore di soltanto un anno che, sapendo di non potere niente con Roxane, si appellava a me perché esercitassi un’autorità che non avevo. Una volta, per tutta risposta Roxane mi disse: “Mettimi una mano sul sedere, mentre mi baci, mi piace tanto!” Sconvolgendo la sorella già di per sé timida e riservata. Infine, a notte fonda, Roxane si lasciava convincere a tornare a casa dove, mi raccontava, il padre la guardava severamente e lei mostrava ostentatamente di fregarsene sicché talvolta la madre, ligia succube del padrone della famiglia, senza che lui glielo chiedesse, le dava uno schiaffo. Roxane era una contestatrice domestica. In pubblico era riservata e silenziosa, tanto che tutti credevano che fosse anche timida. In famiglia era un’erinni. Tutti erano vittime della sua volontà di potenza. E le conseguenze del suo atteggiamento si facevano sentire anche su di me. Io che ero abituato a ragazze che era grasso che colava se ti davano un bacetto, e poi arrossivano pure, mi trovavo di fronte Roxane che accettava con entusiasmo tutto ciò che le veniva proposto e preparato. Sperimentavamo alla punta del Pecoraro, almeno d’estate. Durante il giorno qualcuno faceva il bagno da quelle parti, ma alle sette di sera non c’era più nessuno. Il sole si avvicinava lentamente all’orizzonte. Gli scogli che il padre eterno aveva scagliato alla rinfusa in quella zona ci proteggevano da eventuali intrusi o ritardatari. La Punta del Pecoraro è situata al limite meridionale di una insenatura. In mezzo ci sono d’Ideale e Grotta Aurelia. Dall’altra parte dell’insenatura c’è Borgo Odescalchi, ad un chilometro in linea retta. Roxane metteva una tale sfacciataggine nelle sue evoluzioni erotiche che mi colpì il pensiero che forse voleva che qualcuno la scoprisse. Magari il padre che ci osservava da Borgo Odescalchi, dove abitava, con il telescopio con il quale la famiglia studiava i fenomeni celesti rilevanti, quando si presentavano. Con Roxane provammo tutto partendo dal fatto che né lei, né io avevamo vere esperienze pratiche. Le toccai il seno, le toccai il sedere. Lei mi prese in mano il pene. Le misi una mano sotto il costume e arrivai alla vagina. Le toccai il buco del sedere. Infilai un dito nel buco del sedere. Lei mi masturbò. Poi facemmo il sessantanove e io le leccai il clitoride mentre le titillavo l’ano. Lei mi spompinava e succhiava come un’idrovora. Poi, quando il pene, quasi autonomamente, cercò la via della fica, lei non fece resistenza e non fece resistenza neanche più tardi quando mi servii abbondantemente del buco del culo. Roxane quella parte del corpo l’aveva assolutamente aperta e accogliente, così l’uccello ebbe la possibilità di allogarvisi trionfalmente. Roxane però non era soddisfatta. Era contenta di esplorare con me le possibilità contenute nella pratica sessuale, ma lei voleva trasgredire non per la trasgressione in sé, ma per mostrare sfacciatamente alla famiglia il suo grado di liberazione. Sicché io dovevo essere visibile alla famiglia e mi adattai. Tanto per cominciare sua madre non voleva che uscisse con me. Io ero convinto che Roxane fosse in grado fare quello che voleva, a questo proposito, ma per mostrarmi audace e risoluto le dissi che sarei andato a casa sua e avrei chiesto a sua madre di farla uscire con me. Quando bussai alla porta di casa venne ad aprirmi Roxane con un fratello e una sorella attaccati alla sua gonna. Era raggiante e, strafottente, andò a chiamare la madre che richiedevo. Alla signora, quando mi vide, sembrò prendere un colpo. Balbettò qualche parola di circostanza, ma non sapeva cosa dire. Io approfittai della sua difficoltà per chiederle con voce chiara e atteggiamento franco di fare uscire la figlia con me. Lei frastornata acconsentì e Roxane, felice e insuperbita per la vittoria, si cambiò in un attimo e quando mi raggiunse per uscire, passò davanti alla madre ché sembrava la Nike di Samotracia. La mia presentazione, anche se stravagante, in casa di Roxane, portò alla necessaria conseguenza che lei venisse presentata ai miei. Fu invitata a pranzo, fu vezzeggiata da mia madre e, dato che a casa mia non c’era quasi mai nessuno, finìmmo per sceglierla come nostro rifugio d’amore. Però nonostante avessimo abbandonato la Punta del Pecoraro dove, fra l’altro, ci producevamo lividi a bizzeffe, data la rigidità del fondo di basalto, non ci bastavano le occasioni che ci si prospettavano molto spesso, sicché, anche quando per caso, mia madre era in casa, non potevamo trattenerci dal metterci al rischio di essere da lei scoperti mentre ci producevamo in qualcuna delle nostre acrobazie erotiche. Procedevamo nella mia stanza con la porta aperta. Una volta mia madre era apparsa nel vano della porta. Io ero seduto su di una sedia a dondolo, di stile vecchia America e Roxane mi si era infilata sull’uccello. Io vedevo mia madre, Roxane era di spalle con la gonna che le copriva il sedere, ma le mutande erano arrotolate intorno ad una caviglia. Quando mi ero bloccato, Roxane si era infuriata: “Che fai? Ti fermi? Avanti, bastardo, fammelo sentire fino all’utero!” Mia madre era sparita ed io ero contrariato, ma anche orgoglioso per essere stato abbastanza trasgressivo da farmi sorprendere da mia madre mentre mi scopavo Roxane, ma poi quando mia madre, con un sorriso complice sulla bocca, mi aveva detto: “Le piace a Roxane, eh!” Capii che lei si immedesimava in Roxane, che era contenta che ci divertissimo e che, quindi, la trasgressione era pressoché nulla. Così un’altra volta che ero in casa con un compagno d’univerità, Roxane era arrivata pensando di trovarmi solo. Visibilmente contrariata cominciò a strusciarmisi addosso, come una gattina in calore con l’intento di mettere in imbarazzo Valerio e costringerlo ad andarsene. Io la condussi nel soggiorno e, mentre cercavo di convincerla a stare calma per un po’, lei mi provocava con mosse lascive e approcci corporei, sicché facemmo all’amore su poltrone e divani al dritto e a pecorina, nella fica e nel culo. Facemmo all’amore cinque volte, l’ultima nel corridoio, a pochi passi da Valerio, muti come pesci in amore, ma lui non si mosse. Stette per due ore solo nella mia stanza e io che spiavo la porta aspettando che apparisse il suo viso, ci rimasi male, forse perfino deluso. Forse avrei desiderato che ci avesse visto durante l’amplesso. Forse ero sedotto dall’ansia del pericolo. Nella nostra voglia di esibizione ci sostenemmo a vicenda. Una volta, eravamo d’inverno ed entrambi eravamo coperti da pesanti cappotti, le feci un ditalino su di una panchina del Viale con le signore che chiacchieravano sedute intorno a noi e i bambini che, giocando, rompevano i coglioni. Poi avevamo preso l’abitudine di incontrarci, alle 7,15 della mattina, nella chiesa del Ghetto, dove, a quell’ora, non c’era mai nessuno. Lei diceva a casa che andava a pregare prima di andare a scuola, così poteva uscire senza destare sospetti e poteva provare il gusto di dire una bugia che era quasi la verità. Per andare a scuola doveva passare davanti alla chiesa dove, c’era al massimo qualche vecchietta semirincoglionita. Quindi ci infilavamo nel confessionale e facevamo l’amore. Io desideravo che ci scoprisse un prete, lei invece era terrorizzata dall’idea e faceva all’amore come se dovesse battere il primato mondiale del raggiungimento dell’orgasmo. Ma questo contrasto tra voglia di trasgressione e tensione per il timore di essere scoperti, Roxane lo perseguiva soprattutto quando mi portava a casa sua. Quando ci andavamo mi conduceva in tutti gli anfratti della casa che era molto grande, dove ci massaggiavamo irriverentemente con la speranza segreta, in parte forse anche a noi stessi, che qualcuno ci scoprisse. Il massimo lo raggiungemmo durante il pranzo di Natale in casa di lei. Noi due eravamo seduti vicini. Il padre di Roxane faceva le parti e sarebbe valsa la pena di andare a pranzo lì, solo per i vini che venivano serviti: roba piemontese; soprattutto barolo e barbaresco, tesori che conservava in cantina e stappava per le grandi occasioni. La tovaglia era abbondante e ci copriva le gambe. Ad un certo punto comincia a sentirmi toccare sotto la cinghia dei pantaloni e non ebbi bisogno di sforzarmi per sapere di cosa si trattava. Roxane mi slacciò i bottoni, mi abbassò le mutande e mi tirò fuori il pene già armato. Io provai a sussurrarle che era meglio se lasciava stare, ma sapevo già che non mi avrebbe ascoltato, né potevo fare mosse brusche per liberarmi, se anche mi fosse andato. Ma non mi andava, anzi ero preso dalla solita vertigine della trasgressione. Roxane che mi faceva un sega al tavolo del pranzo di Natale a casa del padre me la sarei ricordata per tutta la vita. Ma Roxane fece di più. Si fece cadere una forchetta e per prenderla finì sotto il tavolo. Così ebbe la possibilità di baciarmi e prendermi in bocca il pene. Non durò molto, ma quando era emersa da sotto il tavolo era raggiante, come se avesse fatto il record del mondo di apnea. Guardò tutti i commensali con sfrontatezza e ricominciò a tirarmi la sega. Dopo un po’ a me cadde davvero la forchetta e, togliendo la mano di Roxane che sembrava quella di una mungitrice, mi immersi a mia volta, e mi trovai davanti la faccia del fratello decenne di Roxane che stava godendosi lo spettacolo. Quando riemersi lei cercò subito di riprendere il cazzo in mano, ma io le sussurrai che sotto c’era il fratello. Lei si fermò impietrita e divenne rossa come un peperone. Poi scoppiò a ridere istericamente e tutti avrebbero voluto sapere il perché. Il fratello intanto era riemerso anche lui e cercava di non farsi notare da me e da Roxane. A me restò sempre la curiosità di sapere se il bambino aveva visto solo la sega oppure anche l’abbozzo di pompino che mi aveva praticato la sorella.
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